Dall’accoglienza alla detenzione dopo il decreto legge “sicurezza”

di Fulvio Vassallo Paleologo

Con il decreto legge su immigrazione e sicurezza n.113 del 2018, in corso di conversione da parte del Parlamento, si è trasformata la natura del trattenimento amministrativo nei cd. hotspot, che potrà protrarsi fino a 30 giorni e si è prevista una durata più lunga per la detenzione amministrativa nei cd. CPR ( centri per i rimpatri), ampliando i casi di internamento, anche dei richiedenti asilo fino a sei mesi. Di contra, il soggiorno di un cittadino di un paese terzo che abbia chiesto asilo in uno Stato membro non dovrebbe essere considerato irregolare nel territorio di tale Stato membro finché non sia entrata in vigore una decisione negativa in merito alla sua domanda d’asilo o una decisione che pone fine al suo diritto di soggiorno quale richiedente asilo. Il trattenimento amministrativo del richiedente asilo non dovrebbe quindi diventare una misura generalizzata, ma va adottato solo nel minor numero casi e sempre con motivazioni individuali ben precise.

Nel frattempo alcune strutture già destinate all’accoglienza hanno cambiato destinazione e sono diventate centri per i rimpatri, già operativo quello di Trapani Milo, ancora in attesa di avvio, quella di via Corelli a Milano. Una trasformazione che era stata anticipata dal precedente governo, e che adesso viene generalizzata e codificata. Il decreto Minniti dello scorso anno costituisce l’antecedente logico e politico del decreto legge n.113/2018 adottato dal nuovo governo. Ma rimangono tutte le criticità segnalate da tempo, a partire dai dubbi di costituzionalità sull’articolo 10 ter del T.U. n.286/98, novellato lo scorso anno, con la previsione dei centri Hotspot e della possibilità di un trattenimento al loro interno, senza però fornirne una disciplina tale da soddisfare il requisito costituzionale della riserva di legge. Una questione che si trascina da tempo anche per le scarne previsioni dettate dall’art. 14 dello stesso Testo Unico, per i Centri per i rimpatri (CPR) chiamati in precedenza Centri di identificazione ed espulsione (CIE), e prima ancora centri di permanenza temporanea (CPT). Un balletto di denominazioni che non ne ha mai consentito una compiuta disciplina legislativa, mantenendo queste strutture affidate più alla discrezionalità di polizia che alle previsioni di legge. In contrasto con il dettato costituzionale che afferma la riserva di legge in materia di condizione giuridica dello straniero (art.10) e delle misure limitative della libertà personale ( art.13).

Oggi i centri di permanenza per rimpatri attivi in Italia sono solo 5, a Bari, Brindisi, Palazzo San Gervasio, Roma e Torino, per una capienza complessiva di 700 posti sulla carta, ma i livelli di occupazione sono inferiori, ed il centro di Ponte Galeria a Roma rimane aperto solo nella sezione femminile. Si rimane comunque lontani dalla realizzazione in ogni regione italiana di un centro di detenzione amministrativa finalizzato ai rimpatri con accompagnamento forzato. Il piano nazionale che prevedeva ben 12 nuovi centri per i rimpatri (CPR) per 1600 posti complessivi, presentato dal precedente ministro dell’interno Marco Minniti nel febbraio del 2017, è stato sostanzialmente ripreso dal suo successore al Viminale, ma continua ad incontrare (potremmo dire fortunatamente) le stesse difficoltà sollevate dalle comunità residenti e dagli enti locali di diversa caratterizzazione politica. Sui territori si percepisce facilmente che la presenza di un centro di detenzione non aumenta il livello di sicurezza. ma quello che si verifica a livello locale non impedisce la propaganda su scala nazionale che lega la “effettività” dei rimpatri con accompagnamento forzato alla moltiplicazione dei centri di detenzione. Una vera e propria “fake news” difficile da smontare nella percezione collettiva sempre più distorta degli italiani. In generale, il trattenimento amministrativo dovrebbe cessare quando è evidente che non è più eseguibile la misura dell’allontanamento forzato per la mancata collaborazione del paese di origine. Verrebbe a mancare in questa ipotesi qualsiasi possibilità di un “effetto utile” della misura limitativa della libertà personale con riferimento alle probabilità effettive di rimpatrio. Il trattenimento amministrativo non può diventare una misura meramente sanzionatoria della condizione di irregolarità sul territorio dello stato.

Sembra ormai accertato che la politica di rimpatri di massa annunciata sia dal precedente governo, che con enfasi ancora maggiore dal governo in carica, sia praticamente irrealizzabile, anche a fronte degli stanziamenti previsti dal fondo rimpatri ( 500.000 euro per il 2018, meno di due milioni di euro per ciascuno dei due anni successivi). Un solo rimatrio con accompagnamento forzato costa almeno 3.000 euro, ed i soldi dall’Unione Europea non arriveranno come in passato, anche per effetto dell’isolamento internazionale in cui si è cacciato il governo italiano. I rimpatri congiunti gestiti direttamente dall’agenzia Frontex, peraltro, riguardano poche centinaia di migranti all’anno. In ogni casi senza la collaborazione dei paesi di origine, che continua a mancare, al di là della stipula di accordi di riammissione, i rimpatri non si fanno.

La politica italiana in materia di immigrazione ci sta portando fuori dall’Unione Europea. Il governo a trazione Lega è stato capace soltanto di ampliare la platea delle persone straniere prive di un permesso di soggiorno, o che lo perderanno quanto prima, per effetto dell’abolizione del permesso di soggiorno per protezione umanitaria, e per la mancanza di possibilità di regolarizzazione successiva all’ingresso irregolare, o alla perdita del permesso di soggiorno, mantenendo chiusi di fatto i corridoi di ingresso umanitario ed i canali di ingresso legale per lavoro. L’unico effetto combinato derivante dall’abolizione dei permessi di protezione umanitaria (prevista dallo stesso decreto 113 del 2018), e dal prolungamento dei tempi di trattenimento amministrativo, in mancanza di accordi di riammissione realmente operanti su grande scala, sarà soltanto una crescita esponenziale delle situazioni di clandestinità, ed un generale intasamento delle strutture di trattenimento amministrativo, e delle sedi giudiziarie nelle quali si dovranno esaminare i ricorsi.

L’inasprimento delle sanzioni penali relative a violazioni di minima entità, si pensi al reato di resistenza a pubblico ufficiale, ma largamente diffuse, anche per l’elevata carica di discrezionalità che li contraddistingue, potrà poi podurre un aumento della presenza degli immigrati nelle carceri, che si scaricherà inevitabilmente a fine pena sul sistema della detenzione amministrativa, che risulterà per questa ragione sempre più ingolfato. Appaiono dunque davvero irrazionali, da qualunque ottica si riguardino, le nuove misure legislative introdotte con un decreto legge su “immigrazione e sicurezza” che appare privo dei requisiti di straordinarietà ed urgenza richiesti dalla Costituzione, ma che rschia di produrre situazioni a dir poco emergenziali.

L’articolo 2 del decreto legge n.113 del 2018  stabilisce il prolungamento da 90 a 180 giorni del trattenimento di tutte le persone comunque internate in un centro per i rimpatri (CPR), e prevede procedure semplificate per gli appalti diretti alla costruzione o alla ristrutturazione di nuovi CPR. Infatti, “Al fine di assicurare la tempestiva esecuzione dei lavori per la costruzione, il completamento, l’adeguamento e la ristrutturazione dei centri di cui all’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, per un periodo non superiore a tre anni a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, e per lavori di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria, e’ autorizzato il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara di cui all’articolo 63 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50. Nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza e rotazione, l’invito contenente l’indicazione dei criteri di aggiudicazione e’ rivolto ad almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei. E n caso contrario, sarà un affidamento diretto ? Evidentemente, mentre si persegue chi non rispetta le regole degli appalti pubblici nel gestire i sistemi di accoglienza, si autorizza qualsiasi deroga quando si tratta di costruire o rimodernare centri di detenzione. Alla fine ci guadgneranno i soliti noti, i professionisti dell’accoglienza/ detenzione di fiducia delle prefetture e quindi del ministero dell’interno.

In base all’art.3 del nuovo decreto legge n.113/2018 (concernente il  trattenimento per la determinazione o la verifica dell’identità e della cittadinanza dei richiedenti asilo), che modifica il precedente decreto legislativo n.142 del 2015, integrando l’art.6 di quest’ultimo con il comma 3 bis, «.Salvo le ipotesi di cui ai commi 2 e 3, il richiedente puo’ essere altresi’ trattenuto, per il tempo strettamente necessario, e comunque non superiore a trenta giorni, in appositi locali presso le strutture di cui all’articolo 10-ter, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286,( dunque gli attuali Hotspot come quello di Lampedusa)  per la determinazione o la verifica dell’identita’ o della cittadinanza. Ove non sia stato possibile determinarne o verificarne l’identita’ o la cittadinanza, il richiedente puo’ essere trattenuto nei centri di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ( i CPR) con le modalita’ previste dal comma 5 del medesimo articolo 14, per un periodo massimo di centottanta giorni. L’art. 10-ter d.lgs n. 286 del 1998 non chiariva un profilo essenziale: se la permanenza nei cd. Hotspot, definiti “punti di crisi” ( del diritto ?) debba avvenire in strutture aperte, dalle quali lo straniero possa allontanarsi, oppure in luoghi chiusi, ove, quindi, si attuerebbe un’autentica ipotesi di privazione della libertà personale. Adesso il decreto legge n.113 del 2018 sembra chiarire che per trenta giorni sia possibile praticare una vera  e propria forma di privazione della libertà personale, come tale soggetta al limite ed alle garanzie stabilite dall’art. 13 della Costituzione.

Come osserva la dottrina (Bonetti), ” Il presupposto del nuovo trattenimento del richiedente asilo per la determinazione o la verifica dell’identità e della cittadinanza dei richiedenti asilo appare viziato da manifesta illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 10, commi 2 e 3, e 117, comma 1 Cost., nella parte in cui si viola l’art. 31 della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, poiché sanzionano l’ingresso e soggiorno irregolari del richiedente asilo eventualmente sprovvisto di documenti di viaggio, il che è da sempre una prassi normale in tutto il mondo per chi fugga da ogni forma di conflitto o di persecuzione, e non sono ben definite le ipotesi nelle quali il trattenimento possa essere disposto. La nuova disposizione prevede infatti che il trattenimento è facoltativo, ma in violazione della riserva di legge prevista nell’art. 10, comma 3 Cost. e della riserva assoluta di legge prevista nell’art. 13, comma 3, Cost., non indica in modo chiaro e predeterminato quali siano i “casi eccezionali di necessità ed urgenza” entro i quali può adottarsi il provvedimento di trattenimento, ma fa discendere tali casi eccezionali da una condizione che non è affatto eccezionale, sebbene assai comune tra i richiedenti asilo (la mancanza di documenti di identità) proprio perché per riuscire a fuggire da conflitti o persecuzioni la gran parte dei richiedenti asilo è sprovvista di documenti e dunque sarebbe impossibile avere con certezza una identificazione (al di fuori dei casi in cui l’identificazione sia già in possesso degli archivi UE, come SIS; EURODAC e VIS, o dell’INTERPOL, il che si può fare spesso in tempi molto rapidi e renderebbe inutile questo trattenimento), a meno di interpellare le autorità degli Stati di origine dei richiedenti asilo, il che però è espressamente vietato da varie norme nazionali ed europee”.

L’articolo 4 del decreto legge n.113 del 2018 ( contenente disposizioni in materia di modalità di esecuzione dell’espulsione) prevede una importante integrazione dell’articolo 13 comma 5 bis del vigente Testo Unico n.286 del 1998 sull’immigrazione, che concerne il trattenimento amministrativo che potrà verificarsi nei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) formalmente riconosciuti come tali, ovvero,nel caso in cui non vi sia disponibilita’ di posti nei Centri di cui all’articolo 14 o in quelli ubicati nel circondario del Tribunale competente,  in “strutture diverse ed idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza”. Qualora le condizioni di indisponibilità di posti nei CPR permangano, anche dopo l’udienza di convalida,” il giudice puo’ autorizzare la permanenza, in locali idonei presso l’ufficio di frontiera interessato, sino all’esecuzione dell’effettivo allontanamento e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida.» I nuovi casi di trattenimento amministrativo al di fuori dei CPR evidenziano gravi rischi di violazione diretta dell’art. 13 della Costituzione italiana che afferma che la privazione della libertà personale disposta dall’autorità di polizia ha una durata limitata( 48 ore) prima della convalida del magistrato, e non può che essere adottata in vasi eccezionali ed urgenti. Non può dunque costituire la norma. Per la dottrina (Bonetti) ” Le norme che consentono il trattenimento fuori da un centro di permanenza per i rimpatri sono viziate da manifesta illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1 Cost. a causa della violazione dell’art. 10 della direttiva 2013/33/UE del parlamento europeo e del consiglio del 26 giugno 2013 recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, che prescrive che il trattenimento del richiedente asilo può avvenire soltanto in appositi centri di permanenza temporanea o, per i detenuti, in un istituto penitenziario”.

Già prima dell’entrata in vigore del decreto legge n.113/2018 erano state denunciate situazioni assai gravi di detenzione amministrativa informale che adesso dovranno essere ricondotte a quanto previsto dalla nuova normativa. Nei centri Hotspot di Taranto, Lampedusa, e di recente anche a Trapani, si verificavano periodi di trattenimento amministrativo particolarmente prolungati, in assenza di un decreto di trattenimento adottato dal questore e di una successiva convalida del giudice, soprattutto nelle procedure di rimpatrio forzato di cittadini tunisini, gli unici che di fatto sono soggetti in questo momento ad espulsione o respingimento con accompagnamento forzato, nel limite di 80 persone a settimana, trattandosi dell’unico accordo di riammissione stipulato dall’Italia che in questo momento sia veramente operativo. Mentre risultano sospesi quelli già stipulati ed attivati con paesi come il Sudan. l’Egitto, la Nigeria.

Altri accordi di riammissione come quelli con il Bangladesh, l’Algeria o il Marocco hanno una esecuzione sporadica, anche per la generale riluttanza delle autorità di quei paesi a perfezionare le procedure amministrative richieste per l’accompagnamento forzato in frontiera. Si tratta adesso di verificare la compatibilità costituzionale, e con le norme convenzionali internazionali, della nuova disciplina e delle conseguenti prassi in materia di detenzione amministrativa e allontanamento forzato. Una analisi importante anche in vista del dibattito parlamentare sulla conversione del decreto legge n. 113 del 2018. Senza una prospettiva effettiva di esecuzione delle misure di allontanamento forzato, il trattenimento amministrativo non sembra giustificabile alla luce del dettato costituzionale  e delle normative sovranazionali.

Sono già note alcune rilevanti questioni di costituzionalità che si possono sollevare in ordine alle previsioni del decreto legge 113/2018 in materia di trattenimento amministrativo. Secondo l’art. 13 della Costituzione “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria, e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”
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Le violazioni al dettato costituzionale possono riguardare anche i profili procedurali. Con riferimento alla disciplina della legge Bossi Fini gli interventi della Corte Costituzionale erano stati assai pesanti. La sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2004 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 5-bis, del d.lgs. 286/1998 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) – introdotto dall’art. 2 del decreto legge 51/2002 (Disposizioni urgenti recanti misure di contrasto all’immigrazione clandestina e garanzie per soggetti colpiti da provvedimenti di accompagnamento alla frontiera) -convertito, con modificazioni, nella legge 106/2002 (Bossi-Fini)- nella parte in cui non prevedeva che il giudizio di convalida dovesse svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa. Quest’ultima sentenza, nel solco aperto dalla precedente decisione n.105 del 2001 della Corte Costituzionale, ha affermato che qualunque procedura di allontanamento forzato, anche se non si realizza con il trattenimento in un CPT ( oggi CPR) si traduce in una misura limitativa della libertà personale, che come tale non può essere sottratta ai limiti posti dall’art. 13 della Costituzione. Secondo questa sentenza qualsiasi tipo di accompagnamento dello straniero “ inerisce alla materia regolata dall’art.13 Cost., in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica le restrizioni della libertà personale e che vale a differenziarle dalle misure incidenti sulla libertà di circolazione”. Oggi quella giurisprudenza può essere ancora utile per verificare la compatibilità giurisprudenziale delle norme introdotte dal Decreto legge n.113/2018, nella parte relativa alla detenzione amministrativa ed alle procedure di accompagnamento forzato in fontiera.

Non si può prevedere tuttavia un intervento delle Commissioni affari costituzionali, alla Camera o al Senato, che possa bloccare l’iter del decreto legge 11372018 o comportarne sostanziali modifiche. La logica della maggioranza, ed il continuo ricatto della Lega, prevale ormai sul rispetto del diritto costituzionale, e non solo in materia di immigrazione ed asilo. Anche se lo stesso Presidente della Repubblica al momento della firma del decreto legge n.113/2018, ha rivolto una raccomandazione al Capo del governo per il rispetto delle garanzie costituzionali, che non può non avere come destinatario anche il Parlamento e le sue commissioni.

Ci vorrà un impegno capillare per sollevare nei procedimenti davanti ai giudici di merito eccezioni di costituzionalità che portino alla cancellazione delle previsioni del DL 113/2018 che appaiono immediatamente in violazione degli articoli 3 ( principio di uguaglianza),10 (riserva di legge), 13 ( controllo giurisdizionale sulla libertà personale), 24 ( diritto di difesa), 117 (obbligo di rispetto delle Convenzioni e dei Trattati internazionali vincolanti per l’Italia) . Uno sforzo collettivo di giuristi di diversa collocazione ( magistrati ed avvocati) che è stato fatto dopo la legge Bossi-Fini e dopo il pacchetto sicurezza contenuto nel decreto Maroni del 2009, che ha portato allora a importanti sentenze della corte di Cassazione o della Corte Costituzionale, con la disattivazione di gran parte delle norme introdotte da quelle leggi in materia di allontanamento forzato e trattenimento amministrativo.

Oltre a questi strumenti di difesa dei diritti fondamentali delle persone migranti oggetto di trattenimento amministrativo, un ruolo assai importante potrà essere svolto dall’Autorità Garante delle persone private della libertà personale, che in passato ha denunciato casi di mancato rispetto della legge nelle procedure  di trattenimento amministrativo di migranti irregolari o di richiedenti asilo, ijn qualche caso persino di minori, che per legge non dovrebbero essere mai internati nei centri di detenzione amministrativa, di qualsiasi natura e denominazione siano. Si rinvia al riguardo all’attività ispettiva svolta dall’Autorità garante nei CIE/CPR, come a Torino, e nei centri Hotspot di Taranto e Lampedusa. Una particolare attenzione è stata posta sui trattenimenti di cittadini tunisini e sui rimpatri forzati in Tunsia. Un’attività che proseguirà certamente anche in futuro, soprattutto se si intensificheranno le denunce da parte delle associazioni e delle organizzazioni non governative. E’ anche importante verificare quanto, in sede di conversione del decreto legge n.113/2018, il Parlamento terrà conto delle posizioni espresse dal Garante nazionale Mauro Palma nel corso della recente audizione in Senato.

A differenza dei casi di respingimenti collettivi, non mancheranno casi di detenzione amministrativa arbitraria che sarà possibile portare davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, anche in via d’urgenza. Si dovrà sempre scontare però la difficoltà di un esercizio effettivo dei diritti di difesa, perchè molte persone che, dopo un perodo di internamento in un centro di detenzione, non vengono effettivamente allontanate dal territorio nazionale, ricevono un provvedimento di respingimento differito, adottato dal questore in base all’art. 10 comma 2 del T.U. sull’immigrazione n.286 del 1998, con una successiva intimazione a lasciare entro sette giorni il territorio nazionale. Allora, piuttosto che presentare ricorso, che mai potrebbe fare conseguire loro uno status legale di soggiorno, preferiscono rendersi irreperibili. Si tratta di casi di respingimento “differito” con intimazione che, nei numeri più bassi di quest’anno, rispetto agli anni precedenti, si continuano a ripetere, soprattutto in Sicilia, regione ancora esposta agli “sbarchi”, perchè più facilmente raggiungibile da piccole imbarcazioni che partono dalla Libia o dalla Tunisia.

In materia di legittimità del trattenimento amministrativo con particolare riferimento a cittadini tunisini, basti ricordare il caso Khlaifia, in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel dicembre 2016, ha condannato il nostro paese per violazione, tra gli altri motivi, dell’articolo 5 della Convenzione per aver trattenuto nel centro di Lampedusa tre cittadini tunisini per un periodo prolungato appena arrivati in Italia, senza una base legale e senza la possibilità di ricorso.

Ma altri precedenti in materia di detenzione amministrativa illegittima non mancano, come il caso Richmond Yaw contro Italia, conclusosi anche questo, nel 2016, con una condanna del nostro paese da parte della Corte di Strasburgo. E si trattava soltanto di una proroga illegittima del trattenimento amministrativo. Con la sentenza Richmond Yaw e altri contro Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art.5 par.1, lett.f e par. 5 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale

La sentenza offre spunti di particolare interesse perché riafferma il primato del diritto dell’Unione Europea sul diritto nazionale contrastante, ribadendo i principi stabiliti dalla giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.  I giudici di Strasburgo forniscono una interessante interpretazione dell’art. 5 della CEDU, ribadendo i limiti delle misure restrittive della libertà personale applicate su iniziativa delle autorità di polizia a carico degli immigrati irregolari e le garanzie correlate, anche nei casi di trattenimento  amministrativo, in cui, in vista dell’allontanamento forzato del cittadino straniero, si proceda alla sua identificazione e quindi alla preparazione del rimpatrio.. Secondo quanto affermato dai giudici di Strasburgo le misure limitative della libertà personale, previste dall’art.5 della CEDU nei casi di allontanamento forzato devono essere  “regolari”, dunque stabilite dalla legge e non invece frutto di una scelta  meramente discrezionale della Pubblica Amministrazione, in specie dell’Autorità di polizia.  Peraltro, anche la Costituzione italiana detta la “riserva di legge” (art.10 comma 2) in quanto “ la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”, e sotto questo profilo non sono mancati in passato dubbi sulla costituzionalità dell’art. 14 del T.U. 286 del 1998 ( con i successivi aggiornamenti) che costituisce il fondamento legale del trattenimento amministrativo nei centri di identificazione ed espulsione, lasciando ampio spazio ai poteri discrezionali del questore  e degli organi di polizia.

La valenza applicativa generale dell’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, in tutti i casi in cui venga praticata una limitazione della libertà personale dello straniero “irregolare”, al di là delle definizione formale di trattenimento o di detenzione amministrativa,  è dunque confermata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. La ratio della norma si può estendere a tutte le ipotesi di trattenimento amministrativo (dunque anche nei casi di limitazione della libertà personale all’interno di centri qualificati come centri di soccorso e prima accoglienza, o in altre strutture di accoglienza “temporanea”),  come è stato stabilito dalla sentenza della Corte di Strasburgo, questa volta nella composizione della Grand Chambre, dopo una prima condanna, ed un ricorso dell’Italia avverso la condanna in primo grado, sul caso Khlaifia.

Sarà dunque importante verificare la compatibilità delle prassi di detenzione amministrativa derivanti dall’applicazione del decreto n.113 del 2018 con l’art. 5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che impone che il trattenimento amministrativo della persona sottoposta ad una procedura di allontanamento forzato (respingimento o espulsione) sia conforme al principio di legalità. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi previsti per le persone straniere destinatarie di provvedimenti di arresto o espulsione, e nei modi previsti dalla legge. Come sarà importante verificare la effettiva fruizione dei diritti di difesa, alla luce dell’articolo 13 della stessa Convenzione, secondo cui , in base al diritto a un ricorso effettivo, “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali” ( art.13 CEDU).

Ma sarà soprattutto la Corte di Giustizia dell’Unione europea che potrà pronunciarsi, come già successo in passato, sulla legittimità delle nuove norme italiane in materia di detenzione amministrativa, con la Direttiva rimpatri 2008/115/CE. Una Direttiva che al momento della sua adozione era stata definita come la Direttiva della vergogna, ma che oggi appare più garantista dell’involuzione impressa dal governo italiano ricorrendo alla decretazione d’urgenza. Gli strumenti del ricorso incidentale e del ricorso d’urgenza alla Corte di Lussemburgo dovranno diventare strumenti di verifica della compatibilità della nuova normativa italiana con la previgente legislazione europea. La disciplina del trattenimento amministrativo offerta dalla Direttiva sui rimpatri si ispira infatti al principio di proporzionalità: lla misura limitativa della libertà personale adottata nei confronti dello straniero irregolare deve essere proporzionale all’obiettivo perseguito dal Legislatore. Pertanto, il trattenimento dello straniero all’interno dei centri di permanenza temporanea o dei centri per i rimpatri, come si definiscono in Italia, costituisce l’extrema ratio, applicabile solo nel caso in cui non sia possibile procedere all’immediato allontanamento o ad un rimpatrio volontario.

La disciplina della detenzione amministrativa è rimasta molto frastagliata a livello europeo, e non sono andati a buon fine i tentativi di riiformulazione della direttiva sui rimpatri con la trasfusione in un Regolamento che sarebbe vincolante direttamente per tutti gli stati membri. Secondo la Direttiva Rimpatri 2008/115/CE (considerando 10), ” Se non vi è motivo di ritenere che ciò possa compromettere la finalità della procedura di rimpatrio, si dovrebbe preferire il rimpatrio volontario al rimpatrio forzato e concedere un termine per la partenza volontaria. Si dovrebbe prevedere una proroga del periodo per la partenza volontaria allorché lo si ritenga necessario in ragione delle circostanze specifiche del caso individuale.”  E ancora, secondo il Considerando 17 ” È necessario occuparsi della situazione dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare ma che non è ancora possibile allontanare. Le condizioni basilari per il loro sostentamento dovrebbero essere definite conformemente alla legislazione nazionale. Affinché possano dimostrare la loro situazione specifica in caso di verifiche o controlli amministrativi, tali persone dovrebbero essere munite di una conferma scritta della loro situazione. Gli Stati membri dovrebbero godere di un’ampia discrezionalità quanto al modello e al formato della conferma scritta e dovrebbero anche poterla includere nelle decisioni connesse al rimpatrio adottate ai sensi della presente direttiva”. Secondo il Considerando 16 ” Il ricorso al trattenimento ai fini dell’allontanamento dovrebbe essere limitato e subordinato al principio di proporzionalità con riguardo ai mezzi impiegati e agli obiettivi perseguiti. Il trattenimento è giustificato soltanto per preparare il rimpatrio o effettuare l’allontanamento e se l’uso di misure meno coercitive è insufficiente”. Secondo l’art.15 della Direttiva, “Salvo se nel caso concreto possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive, gli Stati membri possono trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a procedure di rimpatrio soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento, in particolare quando:a) sussiste un rischio di fuga o b) il cittadino del paese terzo evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o dell’allontanamento.
Il trattenimento ha durata quanto più breve possibile ed è mantenuto solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio”.

La Direttiva 2008/115/CE, inoltre, all’art. 15 comma 4, prevede che “quando risulta che non esistano più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi”, o che non esistano più rischi di fuga o comportamenti dell’interessato contrari al rimpatrio,”il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata”

Anche in questo caso i precedenti non mancano, seppure riferibili ad un quadro normativo che oggi è profondamente mutato. Il 28 aprile 2011 la Corte di Giustizia (Hassen El Dridi, causa C-61/11 PPU) si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte d’appello di Trento – sottoposto al procedimento d’urgenza stante la detenzione dell’interessato – relativo alla interpretazione degli artt. 15 e 16 della Direttiva rimpatri (2008/115/CE): l’art. 15 prevede le condizioni per il trattenimento e il rimpatrio stabilendo, tra l’altro, che gli Stati membri “possono trattenere il cittadino di un paese terzo (…) soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento”; l’art 16 prevede che “il trattenimento avvenga di norma in appositi centri di permanenza temporanea”.

Si trattava in quel caso di valutare se la reclusione di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare per non aver ottemperato all’ordine di allontanamento del questore allora previsto dall’art. 14 comma 5 ter del testo unico sull’immigrazione. Si trattava di una fattispecie penale introdotta con la legge n. 189 del 2002 (Bossi-Fini) oggetto di due modifiche legislative (l. 271/04 e l. 94/2009) e sulla cui legittimità la stessa Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi diverse volte, ora dichiarando l’infondatezza della questione sollevata (sent. 5/2004), ora statuendone l’illegittimità parziale (sent. 223/2004) altrove pronunciandosi nel senso dell’inammissibilità (sent. 22/2007).

Con la sua decisione la Corte di Giustizia dell’Unione Europea aveva affermato che la direttiva rimpatri “osta ad una normativa che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo per la sola ragione che questi permane in detto territorio senza giustificato motivo”. La Corte di Lussemburgo richiama in proposito la notissima sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Saadi/Regno Unito del 2008, nella quale si afferma ” che la Direttiva rimpatri impone che “il trattenimento di una persona non si protragga oltre un termine ragionevole, vale a dire non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito”. Una successiva sentenza della Corte di Giustizia aveva ribadito nel 2016 lo stesso principio, non solo nel caso di permanenza irregolare, ma anche nel caso di ingresso irregolare.

Sembra che oggi, malgrado non sia più prevista una pena detentiva, il prolungamento generalizzato della detenzione amministrativa fino a sei mesi, senza alcun riguardo alle effettive possibilità di rimpatrio, imposto dal nuovo devreto legge n.113/2018, contrasti con il canone della proporzionalità della misura limitativa della libertà e non concorra alla realizzazione dello scopo della Direttiva rimpatri 2008/115/CE, dunque sia priva del cd. “effetto utile”. Una questione sulla quale dovrà di nuovo pronunciarsi la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

 

 

 

 

 

 

 

 

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