di Fulvio Vassallo Paleologo
Non appena sono riprese le azioni di salvataggio dell’unica ONG rimasta operativa a nord delle coste libiche, SOS Mediterraneè,e’ ripartito l’attacco nei confronti di chi adempie i fondamentali doveri di soccorso sanciti dalle Convenzioni internazionali, da parte di chi pensava di avere chiuso la rotta libica con la gestione arbitraria del caso Diciotti, attualmente al vaglio della magistratura penale e contabile. Con un totale capovolgimento di senso, supportato da una devastante macchina mediatica, chi viola impunemente le norme internazionali ed il diritto interno in materia di operazioni SAR ( Search and Rescue), minaccia di denunciare, come complici degli scafisti, gli operatori umanitari che hanno finora salvato decine di migliaia di persone in fuga dalla Libia, trasformata oggi in un vero e proprio inferno, non solo per i migranti, ma anche per gli stessi libici. Secondo il ministro dell’interno, Aquarius avrebbe dovuto riconsegnare ai libici i migranti soccorsi nella zona SAR che il governo di Tripoli ha proclamato alla fine di giugno. Ma i responsabili della ONG hanno fatto sapere, già prima di partire da Marsiglia, che non avrebbero restituito i naufraghi a quelle stesse milizie dalle quali sono appena fuggiti, dopo avere subito gli abusi più crudeli. In Italia mancano risorse per rispettare le promesse sparate in campagna elettorale, ed il tema migranti ed ONG ritorna ad alimentare la macchina dell’odio sulla quale l’attuale governo, di fatto a guida Salvini, ha costruito il suo cemento elettorale.
La creazione della zona SAR “libica”, notificata dal governo di Tripoli all’IMO il 28 giugno scorso ha legittimato il ritiro o la ridislocazione della maggior parte delle navi militari delle missioni europee Frontex (Themis) ed Eunavfor Med, (Sophia), che continuano ad operare puntando sugli assetti aerei, e la criminalizzazione delle poche imbarcazioni private (ONG e pescatori), che si rifiutano di consegnare alla sedicente Guardia costiera “libica” le persone soccorse in alto mare. Mentre gli stati europei pretendono di collaborare con le autorità di Tripoli per impedire ai migranti di raggiungere le coste europee, anche a costo di tenerli segregati per anni nei centri di detenzione, la situazione sul campo, in tutte le regioni in cui è divisa la Libia, si deteriora continuamente. Anche la Commissione europea riconosce adesso che la Libia non è un “place of safety“. Al punto che lo scontro tra milizie ha raggiunto la capitale e sono migliaia le persone in fuga dalle loro case, o nel caso dei migranti, dai centri di detenzione, oggetto di attacchi tra le tribù che controllano il territorio e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico. Dal 29 agosto scorso questi scontri armati si sono ancora intensificati. Dopo essere stato bombardato, è stato chiuso anche l’aeroporto di Tripoli, Mitiga, che doveva servire per evacuare una parte minima, ritenuta più “vulnerabile” dei migranti internati nei centri di detenzione nei quali vengono rigettati i naufraghi intercettati, anche in acque internazionali, dalla sedicente Guardia costiera “libica”. Dopo una breve tregua gli scontri sono ripresi a partire dall’11 settembre, e riguardano tutta la Libia, con rischi crescenti per la popolazione civile ed i migranti in transito. Alcune evacuazioni di persone più vulnerabili, sotto forma di rimpatri assistiti gestiti dall’OIM, proseguono dall’aeroporto di Misurata.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha dichiarato che non riesce più a garantire la presenza assicurata in passato nei punti di sbarco (disembarkation point) ed in alcuni centri governativi. Come ha ammesso anche Filippo Grandi, al vertice dello stesso organismo, la Libia non può essere ritenuta un “porto sicuro di sbarco” e gli stati devono sospendere le procedure di respingimento o di espulsione verso quel paese. Sono a rischio persino i cittadini libici, centinaia di famiglie hanno dovuto lasciare le loro case, per i combattimenti in corso, e vagano in cerca di protezione. Malgrado questa situazione, che richiederebbe un piano generale di evacuazione dei migranti intrappolati nei centri di detenzione in Libia, come richiesto da MSF, ed una missione internazionale di soccorso nelle acque del mar libico, gli stati europei stanno continuando a sostenere le attività di intercettazione in mare da parte della guardia costiera “libica” e progettano di rafforzare ancora di più la Guardia costiera e di frontiera europea, di fatto l’agenzia FRONTEX, per aumentare le operazioni di deterrenza in mare, con accordi con i paesi nordafricani e veri e propri respingimenti congiunti, in collaborazione con le autorità di Tripoli.
Snodo centrale di questi piani è la eliminazione definitiva delle ONG dalle rotte del Mediterraneo centrale, un obiettivo perseguito da anni, prima con un attacco diffamatorio lanciato dalla estrema destra europea, sulla base di rapporti dell’agenzia Frontex, poi con una campagna mediatico-giudiziaria che ha portato al sequestro di diverse imbarcazioni delle ONG, in Italia ed a Malta, senza che ancora fosse appurata alcuna corresponsabilità nel traffico di esseri umani che si espande e si incrudelisce non solo in Libia, ma anche nei paesi confinanti, per effetto delle politiche europee ed italiane di contrasto dell’”immigrazione illegale”. Politiche utilizzate in modo sempre più evidente in una precisa “strategia della tensione”, usata anche a fini elettorali, per scaricare sui migranti tutte le frustrazioni dei cittadini e nascondere le responsabilità dei governi.
Nei confronti delle ONG la strategia italiana si è dapprima concretizzata dalla invenzione di un codice di condotta, proposto dall’allora ministro dell’interno Marco Minniti, nell’agosto del 2017, che le subordinava all’iniziativa della Guardia costiera libica in una zona SAR libica ( ancora inesistente) “dichiarata” in quel mese, ma poi ritirata dalle autorità di Tripoli a dicembre dello stesso anno, per la evidente mancanza dei requisiti richiesti dalle Convenzioni internazionali per la istituzione di una zona SAR (ricerca e salvataggio). In diverse circostanze si ripetevano gli “incidenti”, come il 6 novembre 2017 nel caso dell’attacco alla Sea Watch, e non mancavano casi, come si verificava con Aquarius, nei quali le navi delle ONG venivano fermate in stand by dalle autorità italiane, in attesa che le operazioni di soccorso si trasformassero in vere e proprie intercettazioni da parte delle motovedette partite dai porti libici, nei quali venivano poi ricondotti i migranti “soccorsi” in mare. Per finire di nuovo nelle mani di militari corrotti e di trafficanti di esseri umani.
Fino al 28 giugno di quest’anno, tuttavia, dunque fino alla nuova notifica all’IMO (Organizzazione marittima delle Nazioni Unite) di una zona SAR “libica” da parte delle autorità di Tripoli, la funzione di coordinamento delle operazioni di soccorso nella tanto vasta quanto in effettiva zona attribuita al controllo della “Libyan Coast Guard”, venivano svolte di fatto dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana, in collegamento con la nave della missione della Marina militare italiana Nauras presente nel porto di Abu Sittah a Tripoli. A bordo della quale operavano manutentori delle motovedette libiche e agenti di collegamento, anche in funzione di formazione di ufficiali della Guardia costiera libica. Una catena di comando ben definita nei provvedimenti della magistratura italiana che hanno portato prima al sequestro e poi al dissequestro della nave della ONG Open Arms. Dopo il rientro della nave Minerva da Tripoli, con il suo carico di sigarette di contrabbando, sequestrate a Taranto, non si sa adesso quale sarà il futuro della missione Nauras ed in che termini proseguirà, se potrà proseguire, la collaborazione con il governo Serraj e dunque il sostanziale coordinamento italiano delle operazioni SAR, attuate dalla guardia costiera “libica”, come riconosciuto anche dai giudici di Catania e Ragusa.
Ecco allora che dopo la fase della diffamazione delle ONG, seguita dalla imposizione del Codice di condotta Minniti e dalle numerose vicende giudiziarie che adesso si sono concluse, come a Palermo, o si stanno concludendo, con l’archiviazione delle accuse nei loro confronti, i governi hanno adottato una strategia più subdola. Una strategia multilivello, ormai a carattere intergovernativo, che punta sui cavilli burocratici, come nel caso delle navi delle ONG ancora intrappolate nel porto di Malta, sulla gestione politica delle zone SAR, quella “libica” in particolare, e sui poteri di “cancellazione” degli stati di bandiera, per eliminare definitivamente le navi umanitarie dalle acque del Mediterraneo, per evitare che fossero ancora testimoni di altre stragi per abbandono in mare.
Dalla “creazione” della zona SAR libica, formalizzata il 28 giugno scorso con l’inserimento nei data base dell’OIM della Centrale operativa libica di Tripoli (MRCC), la strategia di lotta alle ONG e di omissione di soccorso, praticata dai governi europei, ed in particolare dal governo maltese e da quello italiano, si è ulteriormente perfezionata, con la delega piena del coordinamento SAR in acque internazionali alle autorità di Tripoli, e con la cd. chiusura dei porti, attuata con il rifiuto (illegittimo) di indicare un “porto sicuro di sbarco”. Si è quindi arrivati ad un attacco, prima burocratico e quindi giudiziario, a Malta, contro le ONG, per mettere in discussione, come nel caso Lifeline, e poi nel caso Sea Watch, l’iscrizione ai registri navali degli stati di bandiera.
Un attacco che è proseguito poi, come nel caso della nave Aquarius, iscritta fino ad agosto nel registro navale di Gibilterra, con pressioni sugli stessi stati di bandiera perché ritirassero l’immatricolazione della nave e dunque ne impedissero la ulteriore navigazione. Questa ultima iniziativa, gestita probabilmente attraverso canali diplomatici riservati, ha completato l’allontanamento di tutte le navi delle ONG dalle zone nelle quali lo scorso anno, sotto coordinamento della Guardia costiera italiana, riuscivano a trarre in salvo migliaia di persone.
Il numero delle vittime nel Mediterraneo centrale è così aumentato, in relazione al calo assai consistente delle partenze dalla Libia, rese sempre più difficili dagli scontri tra le milizie e dai continui cambi di divisa dei miliziani che controllano i centri di detenzione. In qualche caso, come a Sabratha, chi gestiva il traffico è diventato guardia di frontiera, o viceversa, lo raccontano sempre più numerosi i migranti che comunque sono arrivati in Italia. Anche in questi ultimi giorni l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati conferma la stretta commistione tra il traffico di esseri umani ed il contrabbando di petrolio, ma su questo fronte sembra che ci sia minore interesse di quello dimostrato verso le attività di soccorso delle ONG e le indagini, che vedono in Malta uno snodo cruciale, languono. Ai governi interessa di più fermare definitivamente le ONG ed eliminare testimoni scomodi dalle acque del Mediterraneo centrale. Ancora oggi qualcuno continua a fare politica parlando di “taxi del mare” e ritenendo un bene che le navi umanitarie siano state allontanate.
Mentre appare sempre più evidente la incapacità delle autorità libiche a garantire una attività effettiva di ricerca e soccorso, neppure nelle loro acque territoriali, nelle quali si sommano i cadaveri, l’attacco finale contro le ONG, che ancora si ostinano a soccorrere naufraghi in acque internazionali ed a documentare le inadempienze degli stati agli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali, si sta traducendo in ulteriori pressioni indebite sullo stato di Panama. Si vuole che le autorità marittime di quel paese ritirino la immatricolazione e la bandiera alla nave Aquarius 2, che si trova attualmente in acque internazionali a nord della costa libica, ed ha a bordo alcune decine di naufraghi soccorsi in diversi interventi. Secondo il vicepresidente del consiglio italiano, Aquarius 2 avrebbe violato le Convenzioni internazionali sul soccorso in mare perché non avrebbe consegnato alla Guardia costiera “libica”, con cui avrebbe dovuto “collaborare”, le persone soccorse in alto mare. Persone che avevano diritto a sbarcare in un porto sicuro, dunque non in Libia, perchè anche le Nazioni Unite riconoscono che oggi nessun territorio libico garantisce “place of safety”, porti sicuri di sbarco.
La precisazione del Viminale trasmessa sui social da Salvini e diffusa da La Sette e’ una fake news perche’ ci sono prove documentali delle pressioni esercitate dal governo italiano su Panama. Secondo le autorità di marittime di quel paese, che rilanciano la stessa accusa proferita dal governo italiano, come riferisce la stampa, “nel messaggio ricevuto dall’Autorità marittima di Panama si legge che “sfortunatamente è necessario che [l’Aquarius] sia esclusa dal nostro registro perché la sua permanenza implicherebbe un problema politico per il governo e per la flotta panamense in direzione dei porti europei”. Insomma se questo non è un ricatto o un tentativo di estorsione, poco ci manca. La stessa tecnica di governo utilizzata nelle relazioni internazionali con l’Unione Europea prima, sui porti di sbarco della missione Eunavfor Med, e poi con Malta, che ancora blocca arbitrariamente a La Valletta tre navi umanitarie, probabilmente dopo avere ricevuto la minaccia che, se non avesse obbedito al diktat italiano, sarebbero stati a rischio i rifornimenti di elettricità dalla Sicilia.
Le autorità responsabili del Registro navale di Panama, su evidente sollecitazione del governo italiano, come conferma il quotidiano francese Le Monde, hanno così notificato alla ONG SOS Mediterraneè l’avvio della procedura per la cancellazione della immatricolazione di Aquarius 2 nei registri panamensi, una procedura che secondo le leggi locali dovrebbe durare circa 30 giorni e che si potrebbe concludere con il ritiro della bandiera e con il blocco della nave, sempre che questa possa raggiungere nel frattempo un “porto sicuro”. Il semplice avviso dell’avvio di questa procedura, che non si è ancora completata ha fatto ripartire la campagna d’odio contro le ONG, gli operatori umanitari, i cittadini solidali. Molti dei quali continuano a dare il loro sostegno economico alle attività di salvataggio in alto mare svolte da queste organizzazioni.
Le autorità di Panama non indicano neppure specifiche sedi di ricorso contro decisioni che di fatto bloccano l’attività di una imbarcazione che soccorre vite umane. Di fatto, rimane alle autorità nazionali una larghissima discrezionalità nell’avviare la procedura per la cancellazione d’ufficio di una nave dal registro navale. Le autorità panamensi contestano, come sollecitato dal governo italiano, che la nave di SOS Mediterraneè non avrebbe consentito la riconduzione dei migranti soccorsi in acque internazionali nel “luogo di origine”. Che come è noto, per quasi nessuno dei migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale, è lo stato libico, o quello che ne rimane. Anche se in questi ultimi tempi, tra i migranti in fuga, ci sono anche alcuni nuclei familiari libici.
Le stesse autorità contestano il fatto che Aquarius 2 avrebbe la certificazione di “nave oceanografica” e richiamano la precedente cancellazione d’ufficio della nave dai registri navali di Gibilterra, come se la natura di una nave, sia pure una imbarcazione da diporto, le impedisse di svolgere una attività di ricerca e salvataggio, nel quadro delle obbligazioni SAR derivanti, in capo a privati ed a autorità statali, dalle Convenzioni internazionali. Attività svolta per anni, con sbarco di migranti anche nei porti italiani, senza che nessuno contestasse le modalità di immatricolazione negli stati di bandiera o il rispetto degli obblighi internazionali stabiliti in capo alle navi delle ONG per la sicurezza in mare ( Convenzione SOLAS) e le operazioni SAR. In ogni caso, si è solo avviata una procedura di cancellazione, la nave continua a navigare con documenti in regola, ed ogni speculazione sulla nave senza bandiera è destituita di fondamento, rientrando nella consueta narrazione tossica rivolta contro le ONG che praticano soccorso in mare, malgrado il crescente ostruzionismo di alcuni stati, come l’Italia e Malta. Un ostruzionismo che viola gli obblighi di soccorso ed il principio di non respingimento, imposti agli stati dalle Convenzioni internazionali.
In base all’art.49 della legge 57/2008 di Panama, che regola la iscrizione ai registri navali di quel paese, “constituyen causales de cancelación de oficio del registro de la nave las siguientes:
1. La ejecución de actos que afecten los intereses nacionales.
2. El incumplimiento grave de las normas legales vigentes en Panamá o de las normas de seguridad marítima, de prevención de la contaminación, de protección marítima o convenios internacionales ratificados por la República de Panamá.
3. La expiración de la patente provisional de navegación o la patente reglamentaria sin que esta hubiera sido renovada en un término de cinco años, contado a partir de la fecha de vencimiento, salvo que se hubieran sustentado las razones por las cuales no se presentó la solicitud de renovación oportunamente.
Nelle Convenzioni internazionali non si ritrovano purtroppo strumenti di garanzia efficaci nel breve periodo per tutelare il diritto al soccorso in mare, che viene disciplinato prevalentemente come una attività riservata al monopolio degli stati, che devono istituire Centrali operative di coordinamento (MRCC) e non soltanto come una attività di salvataggio doverosa che si impone a qualunque comandante ( in virtù dell’art. 98 UNCLOS), anche quando gli stati non collaborano o non predispongono adeguati servizi di soccorso per le zone SAR per le quali hanno assunto la responsabilità. Come nel caso di Malta o di quella entità territoriale divisa tra governi, tribù e milizie, che si continua a definire come Libia. Una questione che l’Unione europea non può accantonare accentuando soltanto le funzioni repressive delle missioni Themis di Frontex e Sophia di Eunavfor Med.
Si dovrebbe dimostrare da parte delle autorità panamensi ed italiane, che accusano Aquarius 2 di non avere obbedito agli ordini ricevuti da Tripoli per la riconsegna di 11 persone alla guardia costiera “libica”, che il governo di “accordo nazionale (GNA) di Serraj, sia in grado di garantire “porti sicuri di sbarco”, in conformità con le Convenzioni internazionali. Si dovrebbe anche dimostrare che la sedicente “Guardia costiera libica” abbia effettivamente una centrale di coordinamento (MRCC) a Tripoli o altrove, e che questa sia ancora oggi operativa, con una rete di comunicazioni e di assetti aeronavali che corrispondano agli standard imposti ai paesi titolari di zone SAR dalla Convenzione di Amburgo del 1979. Le più recenti modalità di intervento della guardia costiera “libica” confermano una reale assenza di coordinamento e la mancanza di un adeguato numero di imbarcazioni in grado di svolgere attività di salvataggio, al di là del pattugliamento delle acque territoriali. Soltanto la connivenza delle autorità italiane può perpetuare la zona SAR “libica”, mentre a terra il governo di Tripoli non controlla neppure l’intera città. A chi risponde davvero e fin dove si può spingere in alto mare la sedicente Guardia costiera “libica” ? Quanto vale oggi la rassicurazione diplomatica che rappresentanti dell’UNHCR e dell’OIM sarebbero presenti in Libia nei luoghi di sbarco e nei centri di detenzione “governativi” ?
Dopo l’avvio della procedura di cancellazione di Aquarius 2 dai registri navali di Panama, non sembra purtroppo ipotizzabile in tempi brevi un ricorso al Tribunale internazionale del mare (ITLOS) di Amburgo, perché si stratta di un organo che, in base alle Convenzioni internazionali, dirime conflitti tra stati, ad esempio in caso di sequestro di una nave da pesca che operi in una zona di esclusivo interesse nazionale, ma non appare idoneo per tutelare con immediatezza il fondamentale diritto al salvataggio, quando gli stati siano coalizzati contro organismi privati come le ONG che operano soccorsi umanitari in alto mare.
Ci si dovrà invece preparare a possibili interventi della magistratura italiana di fronte alla richiesta di un porto di sbarco sicuro, respinta dal governo italiano sulla base dell’asserita esistenza di una SAR libica, o della disobbedienza ai guardia coste libici, ed all’ingresso in acque territoriali, da parte di una nave privata che ha soccorso persone in alto mare, ma contro la quale lo stato di bandiera avvia una procedura di cancellazione dal registro navale con il ritiro della bandiera, per la pretesa violazione delle Convenzioni internazionali. L’obbligo di salvare vite umane in mare costituisce comunque una causa esimente rispetto alla contestazione del reato di agevolazione dell’ingresso irregolare. Dopo avere effettuato i soccorsi e garantito un porto sicuro di sbarco, qualsiasi stato ha il potere di respingere o espellere i migranti irregolari senza attentare al loro diritto alla vita, e sempre nel rispetto del divieto di respingimento affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Un divieto che è rafforzato dalle norme internazionali che vietano i respingimenti collettivi, dall’art. 4 del Quarto protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, all’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Rimangono vietati i respingimenti collettivi come quelli perpetrati dalla guardia di finanza il 6 maggio del 2009, poi condannati nel caso Hirsi/ Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Rispetto ad allora la situazione dei migranti bloccati o ricondotti in Libia è notevolmente peggiorata.
Sul piano del diritto interno panamense si dovrà verificare la legittimità del provvedimento di “avvio della procedura di cancellazione” che potrebbe portare in trenta giorni alla cancellazione dal registro ed al ritiro della bandiera. Dalle motivazioni adottate dalle autorità di Panama non emerge alcuna contestazione specifica relativa alle norme di Convenzioni internazionali che si sarebbero violate,che sarebbe peraltro ben difficile da argomentare, ma solo un generico richiamo al mancato rispetto delle stesse Convenzioni ed alla “sicurezza nazionale” dello stato di Panama. Che non si vede come potrebbe essere messa a rischio da una doverosa azione di soccorso di 11 naufraghi nel Mediterraneo centrale, o dalla mancata “obbedienza” agli ordini delle autorità libiche che ne chiedevano la riconsegna. A Panama non conoscono la situazione in Libia e la efficacia vincolante dell’art.33 della Convenzione di Ginevra che vieta i respingimenti verso paesi nei quali non sono garantiti i diritti umani ?
Si può anche dubitare che con gli strumenti di difesa azionabili di fronte alla giurisdizione “domestica” di Panama si riesca a fermare una iniziativa di chiara impronta politica e determinata da interessi internazionali, che mira a bloccare le attività di monitoraggio e di soccorso svolto dalle ONG nel Mediterraneo centrale. Secondo l’art. 92 della Convenzione UNCLOS, “una nave non può cambiare bandiera durante una traversata o durante uno scalo in un porto, a meno che non si verifichi un effettivo trasferimento di proprietà o di immatricolazione. Dunque in caso di immatricolazione presso un’altro stato si può cambiare bandiera mentre la nave è in navigazione. Le operazioni di monitoraggio e di soccorso di SOS Mediterraneè potrebbero proseguire con la iscrizione della nave Aquarius 2 ad un altro registro navale, ma pur sempre sotto il possibile ricatto di una ulteriore iniziativa italiana per ottenere l’ennesima cancellazione dai registri con il ritiro della bandiera. Del resto appare evidente che l’inserimento della zona SAR libica nei data base dell’IMO a Londra è stata frutto di una intensa attività diplomatica delle autorità italiane e delle ambasciate italiane a Tripoli e a Londra. Attività che ora stanno proseguendo in rapporto ai paesi di bandiera delle navi umanitarie ( come ha tentato di fare anche Malta, con esiti alterni, con le autorità olandesi, con riferimento alle navi Sea Watch e Lifeline, bloccate da mesi nel porto di La Valletta). Eppure, anche se le autorità olandesi hanno confermato la piena regolarità della iscrizione ai loro registri della nave Sea Watch 3, i maltesi non consentono che questa nave esca dal porto e che torni ad operare in quella che si assume come “zona SAR libica”, per effettuare altri salvataggi, mentre le stragi si continuano a ripetere, anche in questo mese di settembre.
L’unico modo per garantire una effettiva tutela della vita umana in mare, sulle rotte del Mediterraneo centrale, è costituito oggi dalla immediata sospensione della zona SAR “libica” e dalla ridefinizione della vastissima zona SAR maltese, richiamando gli stati confinanti ad una tempestiva collaborazione quando si verificano eventi SAR ( ricordiamo, di ricerca e soccorso) in mare, senza ostacolare le attività di soccorso umanitario svolto dalle ONG. In questa direzione ci si dovrà rivolgere all’IMO di Londra per una risoluzione del suo segretariato o del consiglio esecutivo, o del Maritime Safety Committee, che metta fine alla strumentalizzazione a fini politici delle zone SAR e riconduca gli stati al rigoroso rispetto degli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali, avvalendosi anche di quelle unità delle Organizzazioni non governative che, per le loro attrezzatura e per la loro prossimità, possono contribuire al salvataggio di un maggior numero di vite umane. Se non si riuscirà a ottenere una risposta dall’IMO ci si dovrà rivolgere alle Nazioni Unite, attraverso l’UNHCR o ricorrendo al Commissario per i diritti umani, che peraltro ha annunciato l’invio di una missione proprio in Italia. Nessuno può ignorare quello che subiscono i migranti riportati in Libia dalla Guardia costiera di Tripoli. La pretesa zona SAR libica non può essere ancora usata come un’arma per criminalizzare i soccorsi umanitari.
La sospensione della cd. zona SAR “libica” e l’attribuzione delle competenze di coordinamento degli interventi SAR alle autorità italiane, come avveniva fino al mese di giugno di quest’anno, costituisce l’unica soluzione che possa evitare rallentamenti nei soccorsi ed ulteriori tentativi di criminalizzazione di chi compie attività di salvataggio, siano privati o addirittura unità della Guardia costiera italiana. Solo in questo modo si potrà ridurre il numero delle stragi in mare e gli abusi ai danni delle persone migranti intrappolate in territorio libico che, nel silenzio generale ed in assenza di testimoni, si continuano a ripetere.
Va chiarito soprattutto, anche a livello di Unione Europea, che la Libia oggi, nelle sue diverse articolazioni tra milizie e tribù in conflitto tra loro, non garantisce “porti sicuri di sbarco” (POS – Place of safety) e che le persone soccorse in acque internazionali sulle rotte del Mediterraneo centrale vanno sbarcate a Malta o in Italia, con un immediata redistribuzione in altri paesi europei. La vita dei migranti ed i loro corpi martoriati nei centri di detenzione in Libia non possono diventare merce di scambio per ottenere modifiche delle normative europee, pure necessarie, come la sostanziale revisione del sistema Dublino ed il superamento del principio della responsabilità del paese di primo ingresso. In ogni caso il principio di salvaguardia della vita umana deve prevalere sull’applicazione di normative di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement). Non si tratta di un mero impegno umanitario, ma di una precisa obbligazione degli stati sancita dalle Convenzioni internazionali, inclusa la Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale ed i suoi Protocolli aggiuntivi contro lo smuggling ed il traffico di esseri umani.
Aquarius: pressioni del governo italiano su Panama per fermare i salvataggi
.Siamo sconvolti dall’annuncio da parte dell’Autorità marittima di Panama di essere stata costretta a revocare l’iscrizione dell’Aquarius dal proprio registro navale sotto l’evidente pressione economica e politica delle autorità italiane
Questo provvedimento condanna centinaia di uomini, donne e bambini, che sono alla disperata ricerca di sicurezza, ad annegare in mare e infligge un duro colpo alla missione umanitaria dell’Aquarius, unica nave gestita da una ONG rimasta per la ricerca e il soccorso nel Mediterraneo centrale.
Con SOS Mediterranee chiediamo ai governi europei di consentire all’Aquarius di continuare la sua missione, facendo sapere alle autorità panamensi che le minacce del governo italiano sono infondate o garantendo immediatamente una nuova bandiera per poter continuare a navigare.
Sabato 22 settembre, il team a bordo di Aquarius è rimasto scioccato quando ha saputo che le autorità panamensi avevano informato ufficialmente Jasmund Shipping, il proprietario della nave, della richiesta delle autorità italiane a prendere “azioni immediate” contro l’Aquarius. Nel messaggio ricevuto dall’Autorità marittima di Panama si legge che “sfortunatamente è necessario che [l’Aquarius] sia esclusa dal nostro registro perché la sua permanenza implicherebbe un problema politico per il governo e per la flotta panamense in direzione dei porti europei”.
Questo messaggio è arrivato nonostante l’Aquarius abbia completato con successo tutte le procedure di registrazione,essendo conforme agli standard elevati previsti dai regolamenti marittimi di Panama.
SOS Méditerranée e MSF denunciano fortemente queste azioni che dimostrano fin dove il governo italiano voglia spingersi, mentre la sola conseguenza è che le persone continueranno a morire in mare e che nessun testimone sarà presente per contare i morti.
I leader europei sembrano non avere scrupoli nell’attuare tattiche sempre più offensive e crudeli che servono i propri interessi politici a scapito delle vite umane. Negli ultimi due anni, i leader europei hanno affermato che le persone non dovrebbero morire in mare, ma allo stesso tempo hanno perseguito politiche pericolose e male informate che hanno portato a nuovi minimi la crisi umanitaria nel Mediterraneo centrale e in Libia. Questa tragedia deve finire, ma ciò può accadere solo se i governi dell’UE permetteranno all’Aquarius e alle altre navi di ricerca e soccorso di continuare a fornire assistenza salva-vita e a testimoniare dove è così disperatamente necessario”.
Karline Kleijer Responsabile delle emergenze per MSF
Dall’inizio dell’anno, oltre 1.250 persone sono annegate mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo centrale. Coloro che tentano la traversata hanno tre volte in più la probabilità di annegare rispetto a coloro che ci avevano provato nel 2015. Il numero reale di morti è probabilmente molto più alto dal momento che non tutti i naufragi sono stati assistiti o registrati dalle autorità o dalle agenzie dell’ONU.
Lo dimostra il naufragio ai primi di settembre al largo della costa libica in cui si stima che almeno 100 persone siano annegate.
Nel frattempo, la guardia costiera libica, supportata dall’Europa, aumenta il numero di respingimenti nelle acque internazionali, tra l’Italia, Malta e la Libia, che negano ai superstiti il loro diritto di sbarcare in un luogo sicuro come stabilito dal diritto internazionale marittimo e dei rifugiati. Al contrario, queste persone vulnerabili vengono riportate in condizioni spaventose nei centri di detenzione libici, molti dei quali si trovano all’interno dell’attuale zona di conflitto nella città di Tripoli.
“A cinque anni dalla tragedia di Lampedusa, quando i leader europei dissero ‘mai più’ e l’Italia lanciò la sua prima operazione di ricerca e soccorso su larga scala, le persone continuano a rischiare la propria vita per fuggire dalla Libia mentre il tasso di mortalità nel Mediterraneo centrale è alle stelle” dichiara Sophie Beau, vice presidente di SOS Méditerranée. “L’Europa non può permettersi di rinunciare ai suoi valori fondamentali”.
Le notizie dell’Autorità marittima di Panama sono arrivate mentre le équipe a bordo dell’Aquarius erano impegnate in un’operazione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo Centrale. Nelle ultime 72 ore, Aquarius ha aiutato due imbarcazioni in difficoltà e ora ha 58 persone a bordo, molte delle quali sono psicologicamente provate e affaticate dalla traversata in mare e dalle esperienze in Libia e per questo hanno bisogno urgentemente di sbarcare in un luogo sicuro come richiede il diritto internazionale marittimo. L’Aquarius ha sempre agito in piena trasparenza operando sotto il coordinamento di tutti i centri marittimi competenti e nel rispetto delle leggi marittime e delle convenzioni internazionali.
Chiediamo all’Europa di permettere all’Aquarius di poter continuare ad operare nel Mediterraneo centrale e di far sapere alle autorità panamensi che le minacce del governo italiano sono infondate o di garantire immediatamente una nuova bandiera per poter continuare a navigare.