di Fulvio Vassallo Paleologo
- Le risposte dei governi di Roma e La Valletta alle richieste di fornire un porto sicuro di sbarco per i migranti soccorsi in acque internazionali dalla nave umanitaria Aquarius della ONG SOS Mediterraneè confermano il tentativo di trasformare in attività criminose le operazioni di salvataggio, che si è concretizzato prima con la creazione di una zona SAR libica, e poi con l’indicazione di chiamare la Guardia Costiera “libica”, per coordinare le operazioni di salvataggio ed il successivo sbarco dei naufraghi soccorsi in acque internazionali. Uno sbarco che, secondo i governanti europei, può avvenire anche in Libia, malgrado i rapporti delle Nazioni Unite confermino gli abusi e le torture ai quali sono sottoposti i migranti “soccorsi” in alto mare dalla Guardia costiera libica, anche nei cd. centri “governativi”, che non si comprende più da quale “governo” siano realmente controllati, visto lo scontro tra milizie di diverse tribu’ in corso sia a Tripoli che nelle diverse zone strategiche, come Khoms, Zawia o Sabratha, dove sono ubicati i centri di detenzione. Chi non “obbedisce” agli ordini della guardia costiera “libica” , alleata del governo italiano fin dai tempi del Codice di condotta Minniti, trasgredirebbe le leggi internazionali, e se entra in territorio italiano potrebbe essere incriminato per agevolazione dell’ingresso di “clandestini”. Questa la linea che il governo giallo-verde cerca di imporre all’opinione pubblica ed alla magistratura. Nel silenzio generale, dopo l’allontanamento delle ONG, si ripetono le “stragi fantasma”
L’invenzione di una zona SAR libica, con il ritiro dei mezzi della Guardia costiera, il ruolo di coordinamento congiunto della missione NAURAS a Tripoli, le intese operative con Frontex e la nuova missione THEMIS, il ruolo più modesto riservato alla missione EUNAVFOR MED, che sbarcava troppi naufraghi in Italia, con uno scontro latente tra Salvini ed il ministero della difesa, hanno precostituito le condizioni per la definitiva criminalizzazione delle attività di soccorso in alto mare, siano svolte da navi delle ONG, che da pescatori che non accettano la logica dell’abbandono in mare.
Fino al mese di maggio del 2018 la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) aveva coordinato numerose operazioni SAR in quelle che vengono definite zone SAR di Malta e della Libia. Dalla istituzione di una zona “SAR libica” il 28 giugno scorso, queste buone prassi sono bruscamente cessate, con un aumento esponenziale delle vittime sulle rotte del Mediterraneo centrale. Una strategia precisa dell’abbandono in mare che vorrebbe esercitare una maggiore deterrenza rispetto a chi cerca disperatamente la fuga dalla Libia e si mette nelle mani di trafficanti senza scrupoli, pur di salvare la vita e sottrarsi a quelle torture continue che ormai si perpetrano nell’indifferenza di tutta la comunità internazionale, in quelli che vengono definiti come centri di accoglienza, ma che si rivelano giorno dopo giorno come veri e propri campi di concentramento. Non lo dicono solo le ONG ma lo confermano anche le Nazioni Unite, che ribadiscono anche come non sia possibile esaminare eventuali richieste di asilo a bordo delle navi soccorritrici.
Una omissione di soccorso programmata, ed assunta a politica di governo, che si basa sull’indicazione della Guardia costiera “libica” come autorità responsabile nel salvataggio e nella successiva riconduzione a terra, in Tripolitania, dei migranti soccorsi in alto mare. Come riporta Il Giornale in una intervista a Salvini, alla domanda “Il governo ha dato esplicite indicazioni alla Guardia costiera italiana di non rispondere agli Sos dei barconi, (gli viene chiesto), il ministro dell’interno risponde «Dovete chiederlo al mio collega Toninelli, con cui sto lavorando d’amore e d’accordo. Se così fosse avrebbe il mio totale sostegno».
Per chi non obbedisce alla guardia costiera libica “alleata” di Salvini e Toninelli, contro le ONG, ma anche contro i pescatori tunisini che non si rivolgono ai “libici”, scatta immediatamente l’accusa di essere complici dei trafficanti, e per le ONG, nelle parole del vicepremier Di Maio, ritorna l’accusa di svolgere “il ruolo di taxi del mare“. Un accusa volutamente generalizzata che sta per essere sgretolata dalle decisioni di archiviazione di alcune procure siciliane. Prima o poi tutte le indagini hanno un termine di scadenza. Non purtroppo le strumentalizzazioni che diventano senso comune, malgrado siano state smentite da una accurata ricerca sui fatti realmente avvenuti.
Migranti, Di Maio: Bene che non ci siano più Ong nel mediterraneo
Roma, 21 set. (LaPresse) – “Per fortuna oggi non ci sono più Ong nel mediterraneo perché le operazioni devono farle le autorità competenti”. Lo dice il vicepremier Luigi Di Maio, a Radio1, malgrado nessuna delle indagini aperte lo scorso anno abbia portato a risposte certe, e nonostante diversi provvedimenti di archiviazione che hanno evidenziato come fosse strumentale ( alle elezioni) la campagna di fango lanciata da precisi settori delle destre europee contro le ONG.
2. Questa sovversione del principio di legalità è stata consentita da un cedimento dei principi dello stato di diritto nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare che risale a molti anni fa, ma che si è rinnovato di recente, nel quadro degli accordi e dei memorandum d’intesa già stipulati con Tripoli dal 2007, con l’accordo tra Gentiloni, Minniti e Serraj del 2 febbraio 2017, successivamente confermato dal nuovo governo con l’invio di altre motovedette alla Guardia costiera “libica”, approvato a larga maggioranza dal Parlamento. Le sentenze dei tribunali siciliani di Ragusa e di Palermo, già nei mesi scorsi, avevano però confermato che la Libia non offre porti sicuri di sbarco e il GIP di Catania ha svelato il ruolo di coordinamento nella cosiddetta “SAR libica” affidato alla Marina italiana. Cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa, dopo il 28 giugno, quando con la complicità dell’IMO, si è lasciata soltanto ai libici una immensa zona SAR che evidentemente non sono in grado di gestire garantendo la salvaguardia della vita umana in mare ? Si può ritenere ancora esistente una zona SAR “libica” dopo il riacutizzarsi delle ostilità tra milizie e tribù, a partire dal 29 agosto scorso ? Si può dunque imporre alle imbarcazioni che in quella zona soccorrono naufraghi di chiamare soltanto la Guardia costiera di Tripoli? E di attendere magari ore per l’arrivo delle motovedette partite da Tripoli o da Khoms, mentre le persone rischiano di annegare ?
Nessuno può sapere oggi quali saranno i nuovi accordi che si potranno raggiungere con le forze che presto potrebbero prendere il potere a Tripoli al posto del traballante Serraj. Colpisce che i ministri italiani continuino a ritenere che anche in questi giorni di scontri a Tripoli e dintorni si possa continuare a puntare sulla Guardia costiera “libica” che libica non è mai stata, per intercettare in alto mare a riportare in terra persone, tra cui molte donne e minori, che cercano di salvarsi la vita fuggendo dall’inferno libico.
3. Il governo maltese continua a negare ogni possibilità reale di soccorso nella vastissima zona SAR che le Convenzioni internazionali gli attribuisce. E non vede i traffici che proliferano davanti La Valletta. mentre trattiene arbitrariamente in porto tre navi delle ONG e tiene sotto processo per ragioni burocratiche il comandante della Lifeline, “reo” di non avere abbandonato in mare i migranti che ha invece sbarcato dopo un lungo braccio di ferro nel porto di La Valletta. La stessa accusa che adesso si rivolge alla nave umanitaria Aquarius di Sos Mediterraneè.
Come ricordano Caffio e Leanza (Il SAR Mediterraneo), “Malta (che) per innumerevoli occasioni ha dichiarato la propria indisponibilità, a volte anche a distanza di ore dalla segnalazione italiana. Inoltre va sottolineato che la cooperazione SAR tra Italia e Malta non è stata mai istituzionalizzata da alcun accordo, nonostante ciò sia raccomandato dalla Convenzione di Amburgo e nonostante i rapporti tra i due Paesi siano stati sempre eccellenti a livello politico. Il disaccordo con Malta riguarda anche l’estensione delle rispettive zone SAR (l’enorme zona maltese, coincidente con la sovrastante FIR, si sovrappone con quella italiana in più aree, compresa quella delle acque territoriali delle Isole Pelagie) e la nozione di place of safety in cui trasportare i migranti salvati nella propria SAR (Malta sostiene essere non Valletta ma Lampedusa, se più vicina al luogo del soccorso). In passato le dispute tra le autorità maltesi e quelle italiane sulla competenza negli interventi SAR hanno prodotto numerosi incidenti, e sembrerebbero anche una causa della strage dell’11 ottobre 2013, la cd. “strage dei bambini”, sulla quale è in corso un procedimento penale davanti al Tribunale di Roma.
Secondo il manuale IAMSAR, adottato in esecuzione della legge di adesione alla Convenzione di Amburgo del 1979 n.147 del 1989, ed alla luce del Regolamento di attuazione contenuto nel D.P.R. 28 settembre 1994 n. 662, ogni stato al quale è riconosciuta una area SAR deve disporre di un centro di coordinamento dei soccorsi (MRCC). Per area SAR si intende “ una area di dimensioni definite, associata ad un centro di coordinamento del soccorso, all’interno della quale sono assicurati i servizi SAR”. Secondo lo stesso Manuale “ le SAR consentono di definire chi ha la responsabilità principale di coordinare la risposta a situazioni di pericolo in qualsiasi area del mondo, ma ciò non preclude la possibilità ad alcuno di fornire assistenza a persone in difficoltà”;
Il governo italiano minaccia invece le ONG che non potranno più sbarcare in un porto italiano naufraghi soccorsi in acque internazionali, ed ha imposto alla Marina ed alla Guardia costiera modalità di ingaggio in alto mare che realizzano soltanto esigenze di contrasto dell’immigrazione, ma non appaiono coerenti con gli obblighi, che competono agli stati, di fornire immediata assistenza alle persone che si trovano in una situazione di distress in acque internazionali.
4. L’Unione Europea appare divisa, ma trova una apparente unità solo quando si tratta di adottare politiche di esternalizzazione in paesi terzi dei controlli di frontiera e delle procedure di asilo, nell’ottica di ridurre al minimo l’arrivo dei migranti in Europa. Anche se gli interessi confliggenti dei nazionalismi dei governi cd. sovranisti portano ad un sostanziale azzeramento delle politiche europee, e dunque avviano verso la fine dell’Unione Europea, con la delega ai paesi più forti o più esposti delle decisioni da prendere ( con i relativi oneri) per arginare quella che si continua a definire come “migrazione illegale” anche se è composta sempre di più da presone che avrebbero diritto alla protezione internazionale. Un diritto che però si rende sempre più lontano da un riconoscimento effettivo, attraverso lo smantellamento delle norme procedurali di garanzia e dei sistemi di accoglienza.
Come emerge dai Regolamenti europei n.656 del 2014 e n.1624 del 2016 (in nota), tra le attività di Frontex ( oggi definita Guardia di frontiera e costiera europea) e le attività della Guardia costiera del paese ospitante, in questo caso l’Italia, deve esistere un continuo rapporto sinergico, gestito da agenti di collegamento, la cui documentazione potrà chiarire meglio le responsabilità dei pescatori e delle autorità nazionali. Non si può certo affermare che l’Operazione Themis di Frontex, avviata il 2 febbraio di quest’anno, o la collegata e preesistente operazione Nauras della Marina militare italiana con base a Tripoli, abbiano modificato il quadro normativo dato dal diritto internazionale.
Le modalità operative di Frontex devono dunque rispettare il Diritto internazionale del mare ed i Regolamenti europei n. 656 del 2014 e n.1624 del 2016, che affermano la assoluta prevalenza della vita umana in mare, ed il rispetto del principio di non respingimento, rispetto alle esigenze di contrasto dell’immigrazione irregolare, destinazione funzionale primaria per i mezzi impiegati in missioni Frontex come Themis. Si tratta di norme vincolanti tutti i mezzi coinvolti nelle operazioni Frontex, ed i relativi comandi e coordinamenti, che comunque vanno sempre posti sotto la responsabilità di un paese titolare di una zona SAR, o di una zona SAR prossima alla scena del soccorso, quando lo stato confinante non ha una propria zona SAR o non ha i mezzi per salvaguardare effettivamente la vita umana in mare. Ne’ Frontex, ne altre autorità nazionali come la Guardia di finanza, possono coordinare autonomamente attività di ricerca e salvataggio che rientrano nella competenza di coordinamento della Centrale operativa della Guardia costiera italiana.
Come osservano Leanza e Caffio, “L’istituzione di una zona SAR è intrinsecamente subordinata alla circostanza che lo Stato parte della Convenzione sia in grado di garantire l’operatività continua ed efficace dei servizi SAR nell’area di propria competenza. In particolare, lo Stato si impegna a istituire un Centro e dei Sotto-centri di coordinamento, a designare delle unità costiere di soccorso, a disporre di strutture, mezzi navali e aerei, centri di telecomunicazione di soccorso e personale adeguato (da un punto di vista quantitativo e qualitativo)”. La Convenzione di Amburgo chiarisce che un servizio SAR, per essere efficace, deve essere gestito e sostenuto adeguatamente oltre a essere integrato in uno specifico contesto normativo. Il nostro Paese ha adempiuto a quest’obbligo in sede di attuazione della Convenzione di Amburgo con il già citato DPR 662/1994”.
In base all’art. 2 del decreto, “l’autorita’ nazionale responsabile dell’esecuzione della convenzione e’ il Ministro dei trasporti e della navigazione”. In base all’art. 5 del decreto, “Il centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo (I.M.R.C.C.), i centri secondari di soccorso marittimo (M.R.S.C.) e le unita’ costiere di guardia (U.C.G.), secondo le rispettive competenze, coordinano o impiegano le unita’ di soccorso. L’I.M.R.C.C. e gli M.R.S.C. richiedono agli alti comandi competenti della Marina militare e dell’Aeronautica militare, in caso di necessita’, il concorso dei mezzi navali ed aerei appartenenti a tali amministrazioni dello Stato.
In base al Decreto ministeriale 14 luglio 2003 (disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina in G.U. n. 220 del 2003), emanato dopo la legge Bossi Fini del 2002, “ferme restando le competenze stabilite dall’art. 11, comma 3, del testo unico, il raccordo degli interventi operativi in mare e i compiti di acquisizione ed analisi delle informazioni connesse alle attivita’ del comma 1 sono svolti dalla Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere del Dipartimento della pubblica sicurezza, di seguito denominata «Direzione centrale». Secondo il successivo art. 2, comma 2, “restano immutate le competenze del Corpo delle capitanerie di porto per quanto riguarda la salvaguardia della vita umana in mare. Nell’espletamento di tali attivita’ le situazioni che dovessero presentare aspetti connessi con l’immigrazione clandestina, ferma restando la pronta adozione degli interventi di soccorso, devono essere immediatamente portate a conoscenza della Direzione centrale e dei comandi responsabili del coordinamento dell’attivita’ di contrasto all’immigrazione clandestina indicati agli articoli 4 e 5.
Nello stesso decreto vengono indicate le competenze delle diverse autorità nazionali, in particolare all’art. 6 secondo cui: “1. Ferme restando le competenze dei prefetti dei capoluoghi di regione ai sensi dell’art. 11, comma 3, del testo unico in materia di coordinata vigilanza, nelle acque territoriali e interne italiane le unità navali delle Forze di polizia svolgono attività di sorveglianza e di controllo ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti. Le unità navali della Marina militare e delle Capitanerie di porto concorrono a tale attività attraverso la tempestiva comunicazione dell’avvistamento dei natanti in arrivo o mediante tracciamento e riporto dei natanti stessi, in attesa dell’intervento delle Forze di polizia. Quando in relazione agli elementi meteomarini ed alla situazione del mezzo navale sussistano gravi condizioni ai fini della salvaguardia della vita umana in mare, alle unità di Stato presenti, informata la Direzione centrale e sotto il coordinamento dell’organizzazione di soccorso in mare di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1994, n. 662, provvedono alla pronta adozione degli interventi di soccorso curando nel contempo i riscontri di polizia giudiziaria.
5. Appare evidente come l’intera operazione che ha portato al più recente arresto dei pescatori tunisini, dopo l’attività di assistenza prestata in alto mare, nella cd. zona SAR libica, e poi in quella maltese, ad un natante in plastica di appena 5 metri, carico di 14 migranti, sia stata condotta e qualificata come una attività di law enforcement , dunque di contrasto dell’immigrazione illegale, e non quale situazione di pericolo attuale per la vita delle persone, trattandosi, di una piccola imbarcazione sovraccarica e senza alcuna dotazione di sicurezza, che si trovava a notevole distanza dalla costa. L’obbligo di soccorrere persone in alto mare che versino in una situazione di “distress”, come tutti coloro che si trovano a bordo delle imbarcazioni in alto mare, prive dei requisiti minimi di navigabilità, può e deve essere comunque assolto dal mezzo più vicino all’evento. Anche prima che vi sia una autorizzazione esplicita di una qualsiasi autorità di coordinamento SAR, soprattutto nella situazione attuale sulla rotta del Mediterraneo centrale, nella quale è documentato che le autorità di coordinamento nazionali (MRCC) maltese, tunisina e libica rispondono con grave ritardo o non rispondono affatto.
La portata del concetto di distress è chiarita dalle Convenzioni internazionali, e non può essere ridimensionata per il mancato accoglimento da parte delle autorità maltesi dei più recenti emendamenti alle Convenzioni SAR e SOLAS.
Secondo la Regulations 33.1, Capitolo V della Convenzione SOLAS, “the master of a ship at sea which is in a position to be able to provide assistance on receiving information from any source that persons are in distress at sea, is bound to proceed with all speed to their assistance, if possible informing them or the search and rescue service that the ship is doing so. This obligation to provide assistance applies regardless of the nationality or status of such persons or the circumstances in which they are found. If the ship receiving the distress alert is unable or, in the special circumstances of the case, considers it unreasonable or unnecessary to proceed to their assistance, the master must enter in the log-book the reason for failing to proceed to the assistance of the persons in distress, taking into account the recommendation of the Organization, to inform the appropriate search and rescue service accordingly”.
Tutte le piccole imbarcazioni che dalla Tunisia o dalla Libia fanno rotta verso nord e si trovano in acque internazionali, dunque a più di 24 miglia (quaranta chilometri) dalle coste africane,si trovano in una tipica situazione di distress, anche per la sostanziale impossibilità di ritornare indietro. Basta guardare le imbarcazioni che ancora riescono a raggiungere Lampedusa per comprendere che si tratta di rotte senza ritorno.
Una volta che l’imbarcazione, militare o privata, abbia prestato soccorso, discendono due obblighi in capo al comandante. Il primo è quello di trattare le persone soccorse umanamente, in conformità agli obblighi che derivano dai diritti umani. La qualità del trattamento deve ovviamente essere commisurata alle limitazioni che di fatto si incontrano sulle navi, quali la mancanza di spazi e la necessità di evitare contagi. Il secondo obbligo consiste nel condurre le persone salvate in un posto sicuro. Questo porto sicuro, oggi, anche per le persone che si trovino su imbarcazioni in navigazione all’interno di quella che si assume come zona SAR libica, non può trovarsi in Libia come affermano ormai concordemente le principali istituzioni internazionali, le Nazioni Unite, la Nato, L’Alto commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR), non da ultimo la Commissione europea.
6. Con l’attacco al salvataggio in alto mare, come poi con la delegittimazione dell’intero sistema di accoglienza a terra, che non si è voluto bonificare per tempo, si compie così la criminalizzazione della solidarietà, e si dà in pasto all’opinione pubblica chiunque si opponga e rimanga a difendere i principi base dello stato di diritto ( rule of law) a partire dal principio di solidarietà affermato dall’art. 2 della Costituzione italiana. Come se nei confronti dei migranti in mare e di chi li assiste ci trovassimo già in uno stato di polizia, nel quale sarebbe consentito alle autorità politiche di formulare ipotesi di reato al di fuori di una espressa previsione legislativa. Come sta avvenendo in Italia con la introduzione surrettizia, prima mediatica e poi anche in sede giudiziaria, del cd. reato di solidarietà. Un reato che può assumere tante forme a seconda di come si formulano le accuse, o di come si riferiscono i fatti, sempre che questi stessi fatti non siano rappresentati in modo da portare alle incriminazioni più diverse.
Non sarà facile invertire questo processo degenerativo della democrazia europea, e probabilmente per chi si schiera ancora oggi i difesa della solidarietà ci saranno lunghi anni di resistenza. La strada è però indicata, e sempre più chiare sono le responsabilità di chi, in una aula di giustizia, in una sede parlamentare, in un ufficio ministeriale o in un comando militare, assume decisioni che riguardano la vita di migliaia di persone. Tra le scelte di vita e le scelte di morte non ci sono mediazioni possibili. Alla fine, se si completerà l’abbattimento dello stato di diritto con la negazione del diritto internazionale e dei principi costituzionali, può restare solo il conflitto sociale permanente ed il giudizio della storia. Nessun “problema” potrà essere risolto criminalizzando chi difende le persone da soccorrere ed i difensori dei diritti umani, da chi vuole strumentalizzarli come “pubblici nemici” per raggiungere un maggiore consenso elettorale. Un obiettivo che non si può perseguire sulla pelle dei migranti, compresi quelli più vulnerabili, merce di scambio con i paesi nordafricani e tra gli stati dell’Unione Europea.