Solidarietà sotto sequestro a Malta, a rischio il diritto alla vita.

di Fulvio Vassallo Paleologo

La chiusura dei porti italiani imposta dai ministri Salvini e Toninelli senza l’adozione di alcun provvedimento formale, ha avuto effetti devastanti, con un “effetto domino” che si sta estendendo a tutti i paesi del Mediterraneo. Mentre continua a diminuire il numero delle persone che riescono ad arrivare in Italia, come già succedeva con il precedente governo, sono raddoppiate le vittime, persone morte o disperse in mare, ben oltre le cifre indicate dalla Guardia costiera libica. Nel solo mese di luglio si sono contati più di 400 morti nel Mediterraneo, quasi tutti sulla rotta libica, la più pericolosa del mondo.

In questi giorni a Malta, cittadini solidali ed operatori umanitari hanno protestato contro il protrarsi del fermo amministrativo della nave tedesca Sea Watch. Mentre il numero dei naufragi aumenta, rimangono bloccate in porto sotto sequestro tre navi umanitarie a La Valletta ( la Lifeline, la Seefuchs e la Sea Watch). Non dobbiamo dimenticare la Juventa della ONG tedesca Jugend Rettet, bloccata a Trapani da oltre un anno, per un sequestro penale convalidato anche dalla Corte di Cassazione nei suoi profili di legttimità, ma ancora senza l’avvio di un procedimento sui fatti oggetto delle accuse, nel quale gli imputati possano fare valere i diritti di difesa e al giusto processo. Diritti tutelati anche dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Prosegue intanto a Ragusa il processo contro due operatori umanitari della ONG spagnola Open Arms, dissequestrata pochi mesi fa ed adesso costretta a lunge peregrinazioni nel Mediterraneo, prima di trovare un porto sicuro di sbarco (place of safety) per i naufraghi soccorsi nelle operazioni SAR a nord delle coste libiche.

Si dimentica lo stretto coordinamento esistente in passato tra le imbarcazioni delle ONG e la Guardia costiera italiana. La prevalente opinione pubblica italiana sembra avere ormai emesso la sentenza di condanna per una serie di processi che si sono “celebrati” sui giornali e sui social, prima ancora che si concludessero le attività di indagine e cominciassero i riscontri dibattimentali, con la garanzia di un effettivo esercizio dei diritti di difesa, anche sotto il profilo delle indagini difensive. Una opinione pubblica che risulta indifferente alle stragi, e che reclama la criminalizzazione delle ONG come occasione per eliminare pericolosi “pull factor”, fattori di attrazione che, ad avviso di chi continua a governare basandosi sulla propaganda antimigranti, sarebbero costituiti proprio dalle imbarcazioni delle ONG. Una tragica menzogna che viene smentita dai fatti, giorno dopo giorno. Da quando le navi umanitarie sono state allontanate il numero dei morti è cresciuto malgrado il calo delle partenze. Oltre 800 vittime in soli due mesi, secondo dati forniti dall’OIM. Amnesty International denuncia in questi giorni le responsabilità dei governi italiano e maltese, in collusione con la sedicente Guardia costiera “libica”, per queste vittime che si cerca di nascondere allontanando tutti i possibili testimoni, come le ONG in acque internazionali, ed i giornalisti nei punti di sbarco.

Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, ” “L’Italia e gli stati e le istituzioni europei devono agire con urgenza per dare la priorità al salvataggio in mare, e assicurare che i soccorsi siano sbarcati tempestivamente in paesi in cui non lo saranno esposti a gravi abusi e dove possono chiedere asilo”. Il rapporto descrive anche i casi recenti in cui sono state violate le leggi internazionali segnalati. Questo include un incidente il 16-17 luglio, quando l’Ong Proactiva ha trovato una donna ancora viva e due corpi su un relitto che affondava dopo l’intervento della Guardia costiera libica e il respingimento verso la Libia di 101 persone dalla nave commerciale italiana Asso Ventotto il 30 luglio.

Manca un vero coordinamento dei soccorsi, che diventano sempre più spesso intercettazioni in alto mare. Sembra che le diverse centrali operative (MRCC) dei paesi ai quali sono assegnati zone SAR limitrofe non comunichino tra loro, ma si limitino ad un feroce scarico delle responsabilità. Si dimentica che, al di fuori di situazioni di emergenza consentite, anzi imposte dal diritto internazionale del mare, fino a pochi mesi fa, potremmo dire fino alla vicenda dell’Aquarius, lo scorso giugno, tutte le operazioni SAR operate dalle navi umanitarie delle ONG in acque internazionali a nord delle coste libiche erano coordinate dalla Centrale operativa della Guardia costiera di Roma. Adesso non si sa davvero chi coordina le attività di ricerca e salvataggio in zone caratterizzate da una forte presenza militare di diversi paesi, con rilevanti interessi economici che vengono difesi anche a scapito della vita delle persone.

Mentre in Italia le difese degli operatori umanitari coinvolti nel processo Juventa attendono di potere esercitare in sede dibattimentale il loro ruolo, costituzionalmente garantito ( art. 24 Costituzione), a Malta la situazione è sempre più grave, perchè tre navi delle ONG Lifeline, Seawatch e Seefuchs, rimangono bloccate in assenza di un provvedimento formale che possa essere impugnato, senza un vero processo, ma sulla base di una mera determinazione amministrativa delle autorità portuali che impediscono l’uscita dal porto de La Valletta. Nel caso del processo contro il comandante della Lifeline non si comprende ancora su quali basi si fondi l’accusa, se non l’evidente scopo politico che mira a bloccare le attività delle ONG.

All’interno dell’UE, lo stato di diritto riveste un’importanza particolare: il rispetto di quest’ultimo rappresenta un prerequisito per la tutela di tutti i valori fondamentali elencati nell’articolo 2 del TUE. Costituisce inoltre un prerequisito per fare valere i diritti e i doveri derivanti dai trattati e dal diritto internazionale. Secondo questa norma, l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.Oggi la politica basata sulla paura e sull’odio rischia di svuotare questi principi, che sono la base di qualunque convivenza democratica.

Secondo l’art. 3.5 del TUE, “ Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite.

In base all’art. 7 del TUE, su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura.

Oltre alle misure previste dal paragrafo 1, l’articolo 7 TUE offre gli strumenti che possono arrivare a togliere il diritto di voto dei rappresentanti dello stato nel Consiglio dei Ministri Ue. Per attivare questa seconda fase è però necessaria l’unanimità degli altri 27 Stati. Anche se è evidente come questo sbocco non sia ipotizzabile, è tuttavia possibile ottenere intanto una Raccomandazione da parte della Commissione UE rivolta allo stato che viola principi fondamentali dell’Unione Europea.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea riconosce il diritto alla vita ( articolo 2) e la portata del diritto di asilo sancito dalla Convenzione di Ginevra (art.18), incluso dunque il principio di non respingimento affermato dall’art.33 della stessa Convenzione, e stabilisce il divieto di respingimenti ed espulsioni collettive ( art.19), già affermato dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.

In alto mare tutti gli Stati esercitano in maniera paritaria le libertà previste dal diritto internazionale. Naturalmente, così come nessuno Stato può pretendere di assoggettare alla propria sovranità alcuna parte dell’alto mare (art. 89 UNCLOS), allo stesso modo il principio di libertà non può intendersi in senso assoluto e astratto, ma in un senso «concreto e contingente» (così Scovazzi, T. Elementi di diritto internazionale del mare, III ed., Milano, 2002, 65 ss.), nel contesto cioè delle numerose attività, che si svolgono in mare, attività potenzialmente in conflitto tra loro e pertanto espressione di interessi da contemperare. Tra gli interessi da contemperare non possono rientrare la salvaguardia del diritto alla vita, ed il rispetto della dignità della persona e della sua integrità fisica. Le principali Convenzioni di diritto del mare, La Convenzione UNCLOS del 1982, la Convenzione SAR del 1979 e la Convenzione Solas del 1974, sanciscono tutte l’obbligo incondizionato di salvaguardare la vita umana in mare. Un obbligo che prevale gerarchicamente su tutte le altre finalità perseguite a livello internazionale, e che ormai è diventato parte essenziale del diritto consuetudinario internazionale.

Da tempo i rappresentanti di Frontex escludono che i migranti soccorsi in acque internazionali possano essere ricondotti in Libia o in Tunisia. “Come ha tenuto a precisare Izabella Cooper, portavoce di Frontex, se esiste una precisa differenza tra “porto sicuro” e “porto più vicino”, rimangono espressamente esclusi i due Paesi extra-Unione Europea interessati dai flussi migratori, la Libia e la Tunisia, per via delle violazioni dei diritti umani e dell’assenza di un sistema di asilo. Tuttavia- si osserva- non è del tutto escluso che i migranti possano essere portati in Libia e Tunisia, come d’altronde già accade.” Spesso i migranti vengono riportati in Libia sotto minaccia delle armi, soprattutto quando sono in vista navi delle ONG, nel bersaglio dei governi europei e dei loro alleati libici. Ma sono le ONG che vengono additate come elemento di disturbo delle attività di “soccorso” dei libici, e perseguite come se fosse stato già intrototto per legge il “reato di solidarietà”, quando è del tutto evidente che manca lo scopo di lucro e non ricorrono vincoli associativi di natura criminale.

In base al diritto internazionale, un paese terzo si può definire come paese terzo sicuro, e dunque garantire un POS (Place of safety), quando:
-non sussistono minacce alla vita e alla libertà del richiedente per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
– non sussiste il rischio di danno grave (quale definito nella normativa eurpea sulle qualifiche di protezione);
– è rispettato il principio di non-refoulement conformemente alla Convenzione di Ginevra;
– è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, inumani o degradanti sancito dal diritto internazionale;
ü esiste la possibilità di godere, secondo il caso, di protezione in virtù delle norme sostanziali della Convenzione di Ginevra o di protezione sufficiente ai sensi della normativa europa. In definitiva la sicurezza del paese va valutata in base agli standard dei Trattati e delle Costituzioni europee, e non in base a valutazioni di comodo basate sul calcolo politico o su accordi bilaterali.

Una nave battente bandiera italiana, o di un altro stato europeo, in base al diritto internazionale, può essere qualificata come piace of safety temporaneo, dal quale non si può essere sbarcati in un porto non sicuro ( secondo Unhcr e Commissione Europea, oltre che per la magistratura italiana) senza violare le Convenzioni internazionali di Diritto del mare e la Convenzione di Ginevra. Gli accordi bilaterali o l’invenzione di una Sar libica da parte dell’Imo a Londra, sotto la pressione della diplomazia italiana non trasformano la Libia in un “paese terzo sicuro”, dotato di porti di sbarco qualificabili come “place of safety”.

 Non basta la presenza dell’UNHCR o dell’OIM allo sbarco per qualificare un porto libico, o tunisino,  come “place of safety”-. Se i migranti soccorsi in acque internazionali non possono essere rioportati indietro in Libia o in Tunisia, il poto sicuro di sbarco deve essere individuato a Malta o in Italia, a seconda degli accordi tra questi paesi e delle rispettive zone di intervento. Nel caso di soccorsi operati in quella che si vuole riconoscere oggi come SAR libica, la mancanza di porti sicuri di sbarco in Libia impedisce di riconsegnare i naufraghi soccorsi da unità europee alla Guardia costiera di Tripoli o direttamente alle milizie libiche, come è successo nel caso del rimorchiatore Asso 28. Le agenzie delle Nazioni Unite devono tenere conto che la loro presenza in Libia, come in Tunisia, che pure aderisce sulla carta alla Convenzione di Ginevra,  non può costituire alibi per pratiche di respingimento contrarie al diritto internazionale. E devono gridarlo forte, per difendere le persone che revono tutelare in base al loro mandato. Non bastano le “gravi preoccupazioni” che emergono da un comunicato all’altro. La situazione nei centri di detenzione in Libia peggiora di giorno in giorno, proprio per effetto delle politiche di blocco dei soccorsi e di chiusura dei porti poste in essere dai governi di Roma e de La Valletta. Anche nei centri governativi, inclusi quelli visitati da Salvini e da altre autorità europee, si assiste al triste fenomeno del commercio di esseri umani.

Si può davvero parlare di fine dello stato di diritto, quando le attività di salvataggio dei naufraghi in alto mare vengono delegati ad autorità di un paese diviso come la Libia, ed i porti italiani vengono chiusi di fatto senza alcun provvedimento formale, solo ai mezzi delle ONG che hanno effettuato attività di soccorso (SAR), quando le zone SAR (di ricerca e  salvataggio) si inventano al mattino e si cancellano la sera. Davvero la fine dello stato di diritto quando nei data base IMO (Organizzazione marittima delle N.U.) appare la SAR libica, e scompare la SAR tunisina, quando la “guardia costiera” di un paese fallito come la Libia, in mano a milizie in lotta tra loro, è di fatto coordinata da unità militari di un altro paese (l’Italia). Nessuno però controlla quale sia l’effettiva capacità di soccorso della cd. Guardia costiera di Tripoli, e chi ne coordini davvero le missioni.

In generale, la linea di condotta ufficiale dell’Italia è intanto quella che arriva da un messaggio “circolare, di carattere tecnico-operativo” della Guardia costiera, una informativa standard. Nell’evenienza in cui al centro di coordinamento di Roma della guardia costiera pervenga da una imbarcazione una richiesta di soccorso in area Sar (Search and rescue) libica, cioè nelle acque di Ricerca e soccorso della Libia, un’area fuori dall’area Sar italiana, le autorità competenti sono quelle libiche e sono loro quelle con cui coordinarsi..

Il messaggio lanciato dal governo italiano, e sprattutto dal ministro e vicepremier Salvini, è stato evidentemente recepito dalle autorità maltesi che si stanno accanendo nell’esercizio di un fermo amministrativo delle tre navi umanitarie Che giorno dopo giorno vede sgretolarsi il castello accusatorio, basato sulla asserita mancanza dei documenti di navigazione obbligatori e della iscrizione all’IMO, sul quale le autorità maltesi continuano a giustificare il fermo di navi che sarebbero preziose per portare soccorso immediato a persone in procinto di annegare. Navi che rimangono invece bloccate in porto a La Valletta da autorità amministrative che si prestano agli ordini non scritti dei governi maltese ed italiano.

Di quale colpa si è macchiato il comandante della nave tedesca Lifeline ? Di cosa potranno essere chiamati a rispondere gli operatori umanitari che hanno salvato migliaia di vite in acque internazionali e che adesso vedono le loro navi bloccate nel porto di La Valletta ? Si vorrà forse inventare per via amministrativa un nuovo reato di solidarietà ? Secondo la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, si afferma il principio “Nulla poena sine lege” ( art.7). Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Se non sono punibili le condotte degli operatori umanitari, quale rimane il motivo del fermo amministrativo delle navi umanitarie a Malta, se non il mero calcolo politico di governi che si reggono sull’odio contro i migranti e le Organizzazioni non governative ?

Nel caso della Sea Watch le autorità maltesi non hanno cambiato opinione neppure di fronte alla prova che i documenti di navigazione della nave erano conformi alla legislazione internazionale ed olandese. Un caso sempre più grave di ferno amministrativo del tutto immotivato, nel quale si attenta alla libertà di navigazione in mare, ed al connesso obbligo di salvataggio qualora si incontri una imbarcazione in situazione di evidente distress, da soccorrere immediatamente, senza disquisire sulla ubicazione di una zona SAR o sulla linea di galleggiamento o sulla capacità di manovra. Un barcone lontano decine di miglia dalla costa, in acque internazionali, va soccorso immediatamente dal mezzo più vicino, solo perchè sovraccarico ed in evidente pericolo di naufragare, come è sucecsso centinaia di volte in questi ultimi anni. Qualunque ritardo configura una omissione di soccorso, e nei casi più gravi, se ci sono vittime, può trattarsi anche di omicidio colposo.

Le politiche di contrasto di quella che definiscono immigrazione “illegale” vengono agite sulla pelle dei migranti, negando ai naufraghi l’attracco in un porto sicuro (place of safety), forse per spingere l’Unione Europea a modificare il Regolamento Dublino, oppure rifiutando interventi di soccorso in acque internazionali, come fa ormai sistematicamente Malta, seguita dall’Italia, dopo la invenzione di una zona SAR libica. In questo modo si vorrebbe imporre ai paesi nordafricani la creazione di disembarkation point, luoghi di sbarco dai quali si transiterebbe in centri di detenzione affidati anche alla gestione di organizzazioni internazionali per la “selezione” dei “veri richiedenti asilo”, una violazione eclatante dei diritti fondamentali delle persone, se si pensa alle prospettive di sopravvivenza e di soggiorno legale garantite dai paesi di transito.

 Gli stati europei vorrebbero riempire la libia, ed i paesi confinanti, di centri di internamento, una proposta già respinta da tutti i paesi africani. E’ dimostrata in Libia, e potrebbe essere confermata in altri paesi come il Niger, la facilità con la quale i trafficanti riescono a mettere le mani anche sui migranti internati nei cd. centri governativi, ormai al limite del collasso.

Una imposizione dei governi italiano e maltese, il blocco dei porti per via amministrativa,  che si sta traducendo in centinaia di vittime in mare e nei centri di internamento in Libia, dove la sedicente Guardia costiera “libica” riporta i migranti bloccati in mare, gli stessi che fino a pochi mesi fa potevano essere soccorsi dalle ONG, che avevano proprio a Malta la propria base organizzativa, e che sotto coordinamento della Centrale operativa della Gardia costiera italiana (IMRCC) ricevevano l’indicazione di un porto italiano come “place of safety”. Anche se dalla scorsa estate erano frequenti gli ordini di “stand by” in attesa dell’intervento delle motovedette libiche.

Malgrado sia stata destinataria di una intensa attività diplomatica, rimane il fatto che la Libia, meglio le diverse autorità libiche, non hanno mai aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e nessun paese nordafricano, nel quale si riconducono i migranti riportati in Libia, riconosce il diritto di asilo nella sua pienezza, attribuendo altresì ai titolari di protezione uno status legale che gli permetta di muoversi e lavorare ( con eccezioni per categorie ristrette di rifugiati, paese per paese a seconda dei rapporti politici internazionali).La politica degli accordi con le autorità libiche presenta risvolti che potrebbero essere presto all’esale della Corte penale internazionale.

La sentenza di condanna definitiva dell’Italia sul caso Hirsi, pronunciata nel 2012 dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, costituisce un precedente che non si può aggirare con accordi bilaterali e Memorandum d’intesa (MoU) come quello firmato nel 2017 tra il governo Gentiloni ed il governo Serraj. . E neppure con le scelte unilaterali e violente in materia di immigrzione e d asilo, che il governo Conte minaccia di adottare se Bruxelles non adotterà la sua linea, imponendo agli stati membri la ricollocazione immediata dei naufraghi subito dopo gli sbarchi o aderendo alla proposta di esternalizzare i campi di detenzione in Libia ed in altri paesi subsahariani come il Niger. Proposte che la maggior parte dei paesi africani hanno respinto in blocco.

Mentre i data base del’IMO ( Organizzazione delle Nazioni Unite per il mare) hanno da poco inserito alcuni riferimenti riguardanti la zona SAR libica, omettono qualsiasi richiamo ad una zona SAR tunisina, come se questa non esistesse o non fosse stata mai notificata all’IMO. Sembra sconosciuta all’IMO la ingente mole di rapporti sulla condizione dei migranti riportati in Libia dopo essere stati soccorsi/intercettati in acque internazionali. Di certo anche Eunavfor Med ha escluso di riportare migranti in Libia. Non si vede come si possa imporre alle navi italiane o alle ONG quella attività di respingimento in Libia, attraverso la collaborazione con la Guardia costiera di Tripoli, che non viene espletata neppure dalle navi militari europee.

Non si chiarisce neppure la competenza nel coordinamento delle attività SAR nella vasta zona sovrapposta ubicata a sud di Lampedusa, che sulla carta risulta di competenza sia di Malta che dell’Italia.  La grande situazione di incertezza sulle autorità competenti ad intervenire nei soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo centrale ed a indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente quello più vicino, aumenta il numero delle vittime in mare e sta mettendo a rischio anche la navigazione delle navi commerciali, sempre più spesso coinvolte in interventi SAR (ricerca e salvataggio), come nel caso della Alexander Maersk, dei rimorchiatori di servizio alle piattaforme petrolifere al largo delle coste libiche, come l’Asso 28 e il Sarost 5, come tante altre navi coinvolte temporaneamente in attività SAR, nel vuoto lasciato dall’allontanamento forzato di quasi tutte le ONG.

Il riconoscimento delle competenze di coordinamento dei salvataggi, e quindi la indicazione di un porto di sbarco, persino la iscrizione nei registri dell’IMO o la delimitazione delle zone SAR è affidata a calcoli politici, che tradiscono i principi enunciati nelle Convenzioni internazionali e mettono a rischio il diritto alla vita. Il coinvolgimento italiano nel caso del coordinamento della Guardia costiera di Tripoli è ormai confermato dalle dichiarazioni ufficiali, ancora recentemente, dopo che lo scorso marzo era stato già acclarato dal Giudice delle indagini preliminari di Catania.

Abbiamo visto dopo la istituzione di una zona SAR libica, dal il 28 giugno di quest’anno, quante stragi senza soccorsi tempestivi si sono verificate dove prima le ONG potevano intervenire per salvare naufraghi.  Quanti esseri umani, uomini, donne, molti bambini, hanno perso la vita in mare. Non certo perchè erano presenti le navi delle ONG. Semmai per l’esatto contrario. Le ONG non sono responsabili della morte dei migranti in mare, frutto della politica di blocco decisa dalle autorità europee e dalla mancanza di alternative, come canali legali di ingresso. Le ONG continuano ad essere definite come “vicescafisti”, anche da autorevoli esponenti di governo, che farebbero meglio a occuparsi maggiormente dei loro impegni istituzionali, rallentando la campagna elettoirale per le prossime elezioni europee. Questo però è oggi il messaggio dominante sul ruolo delle ONG e sui rapporti con il governo di Tripoli, unico nostro alleato, perchè di Libia come stato unitario non si vede come se ne possa parlare. :

Nell’assegnazione dei soccorsi da parte della Guardia Costiera italiana, dunque, la priorità viene data alle autorità libiche, dal 28 giugno con il pretesto della istituzione di una SAR libica, e solo ove queste non siano disponibili i soccorsi vengono affidati alle navi delle ONG, agli assetti militari europei o ad altre imbarcazioni civili eventualmente di passaggio. In tale contesto le navi delle ONG – peraltro diminuite di numero causa l’abbandono di diverse organizzazioni, non sono più in grado di operare in un contesto caratterizzato dalla violenza sistematica delle autorità libiche e dalla complicità di quelle italiane. Le navi umanitarie, non solo hanno dovuto arretrare il proprio raggio d’azione, ritirandosi oltre le 24 miglia dalle coste libiche (cioè ben oltre la presunta zona contigua, nella quale la minaccia dell’aggressione delle autorità di Tripoli è più pressante), ma sono esposte anche all’arbitrio delle Centrali di coordinamento italiana e maltese,, che impongono loro di allontanarsi dalla zona dei soccorsi, riducendo il potenziale di mezzi disponibili e quindi aumentando il rischio di morte per chi è in viaggio. Infine, viene impedito di prestare soccorso nei tempi più brevi, e si viene costretti ad assistere ai respingimenti collettivi “delegati” alla Guardia costiera libica. In questo contesto le indagini della magistratura non possono essere utilizzate come uno strumento per allontanare le ONG dalla loro attività di soccorso in acque internazionali. Non sempre i numeri parlano chiaro, come sostiene qualcuno.

I numeri aiutano, come sempre, a capire meglio e per l’Italia la Libia “è una priorità assoluta”, ha detto il prefetto Massimo Bontempi, direttore centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere del Viminale: per il periodo 2017-2020 sono stati stanziati per la Libia 46,3 milioni di euro di cui 42,2 del fondo europeo per l’Africa. La prima fase del supporto italiano prevede complessivamente la riparazione di 8 imbarcazioni, la fornitura di 20 gommoni per il controllo delle coste, di 30 Suv, 10 autobus e 14 ambulanze e diverse apparecchiature elettroniche oltre a missioni biennali di manutenzione e di addestramento. Ma Bontempi ha detto senza giri di parole che i problemi nell’area libica di ricerca e soccorso sono due: la presenza delle Ong che rappresentano un forte pull-factor, un elemento che incoraggia l’immigrazione, e il fatto che l’Italia sia l’unica nazione che coinvolge la Guardia costiera libica negli eventi Sar. A tale proposito ha anche ricordato che sono due le inchieste della magistratura sulle Ong: quella di Ragusa sulla nave Proactive Open Arms e quella di Trapani sulla Juventa.”

In assenza degli stati toccherà ancora alle tanto vituperate Organizzazioni non governative affrontare la questione prioritaria della salvaguardia della vita umana in mare. Nelle inchieste giudiziarie ancora aperte, o che si vorrà aprire, oltre a quelle già archiviate, le indagini difensive degli avvocati riusciranno a provare chi è davvero responsabile della morte per abbandono in mare. Prima il diritto alla vita, poi gli accordi politici e la lotta ad una criminalità che è foraggiata dai rapporti di cooperazione economica e militare con paesi nei quali domina la corruzione e non vi è alcuna traccia di uno stato di diritto. Senza giustizia e diritti non ci potrà mai essere riconciliazione. Ancora in questi giorni giungono testimonianze terribili dai centri di detenzione libici, siano essi governativi o “informali”. Storie terribili che confermano abusi sessuali, estorsione, denutrizione, sovraffollamento seguito da misteriose scomparizioni notturne di decine di internati. Che finiscono puntualmente nelle mani dei trafficanti.

L’Italia, ed in via di ipotesi la Libia, nel rifiutarsi di coordinare i soccorsi, non soltanto omettono di individuare un luogo sicuro ove condurre le persone ma si rendono anche responsabili – secondo l’articolo 16 degli Articles on the Responsibility of States for internationally wrongfulacts della International Law Commission – di complicità di un atto illegittimo commesso da un altro stato.Tale responsabilità deriva dall’avere fornito aiuti (nella fattispecie la cessione di motovedette e altre forme di supporto, comprese la formazione professionale e l’assistenza tecnica) al paese responsabile della violazione, nella consapevolezza che tali aiuti sarebbero serviti per la commissione di una violazione. Si realizza con questo tipo di accordi bilaterali una eclatante violazione del diritto consuetudinario che impone la prevalenza del diritto alla vita su tutti gli altri interessi tutelati dagli stati..

Il recente voto del Parlamento italiano che ha approvato un decreto legge sulle unità navali da cedere al governo di Tripoli, seppure limitato a due sole motovedette ed a dieci mezzi leggeri con compiti di avvistamento, dopo la parziale attuazione dei piani di Minniti, conferma la deriva democratica di un paese. Che in nome degli allarmi sicurezza periodicamente rilanciati, giunge a stringere accordi con autorità di governo che non garantiscono il rispetto dei diritti umani neppure dei propri cittadini. Una deriva democratica che è evidente anche a Malta, dove tre navi umanitarie rimangono sotto sequestro senza uno straccio di provvedimento che ne costituisca giustificazione. La fine dello stato di diritto, una violazione dei trattati europei che non può restare senza sanzioni legali.

La società civile e gli operatori umanitari non si rassegnano. Oggi a Malta…domani in Italia.

Humanitarian NGOs swim out at sea with ‘right to life’ banner
NGOs stopped by Malta from rescuing refugees at sea demand right to leave

The crews of the humanitarian NGO vessels Lifeline, Sea-Eye and Sea-Watch staged a demonstration to protest their blockade, as they swam in the water with a swimming banner reading Article 2.1 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union.

Article 2 of the EU Charter states that everyone has the right to life and that no one shall be condemned to the death penalty, or executed.

“We have demonstrated and voiced our opinion with a swimming banner of Article 2.1 of the EU Charter and life saving equipment in the sea. The same sea in which so many people have drowned already and that has become a mass grave,” Sea Watch said in a statement.

“As EU values keep drowning in the Central Mediterranean, it’s up to us, the civil society, to prevent a total systemic collapse into barbarism and to defend what Europe stands for.

“We want to go back out to the international waters and fight for people in need and for the appreciation of life. We cannot accept Europe‘s understanding of human rights being limited to its borders. The practical negotiation upon the worth of a human life makes the Mediterranean Sea the deadliest border in the world. This is not acceptable.”

Humanitarian NGOs with vessels berthed in Malta have been prevented from leaving the island after Italy threatened to block access to rescued asylum seekers. Malta has since obliged in a controversial resolution to stop the NGOs from sailing off from the island, with the ships now docked for 41 days.

“Human rights and the fundamental rights of the EU are non-negotiable! To stand up for those rights should neither be hindered nor criminalized, it should not even be up for discussion. Sea rescue is not a crime, letting die is one. Day Orange has set a powerful signal in many cities for the civil society‘s fight to remind the politicians of that,” the NGOs said.

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(ANSA) – ROMA, 30 LUG – “Esortiamo l”UNHCR ad assumere una posizione risoluta riguardo al blocco delle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale e insistere sulla necessita” di sbarcare in un luogo in cui siano pienamente garantite la dignita” e la
protezione delle persone”. E chiediamo che prenda “una posizione piu” forte contro le limitazioni alle sue attivita” imposte dai governi, che di fatto ostacolano l”adempimento del
suo mandato di protezione nell”area mediterranea”.E” quanto scrivono in una lettera aperta all”Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, una decina di ong che operano nell”ambito del salvataggio in mare dei migranti.
Nella missiva le ong esprimono “grande preoccupazione” per quello che definiscono il “mutato approccio” dell”Alto Commissariato per i rifugiati: “nelle ultime settimane, l”UNHCR ha ripetutamente sottolineato la sua volonta” di agire come organo esecutivo per le politiche migratorie europee, lasciando da parte importanti questioni aperte relative ai diritti umani. L”attuale posizione dell”UNHCR ci preoccupa”.(segue)
30-LUG-18 22:54 NNNN
Migranti: Ong, Unhcr assuma posizione decisa su blocco navi (2)
(ANSA) – ROMA, 30 LUG – “Siamo ben consapevoli delle difficolta” e dei limiti che l”UNHCR deve affrontare per poter operare nei Paesi del Nord Africa, con particolare riferimento alla Libia. Tuttavia, a livello intergovernativo l”UNHCR rimane il principale attore responsabile della protezione dei rifugiati, e ha il compito di richiamare gli Stati ai propri obblighi umanitari e giuridici”, scrivono le Ong, augurandosi che l”Alto Commissariato “ribadisca agli Stati europei la loro responsabilita” nei confronti dei rifugiati, una responsabilita” che non puo” essere trasferita a paesi terzi”.
Le Ong firmatarie ( tra le altre Human Rights at Sea, Medecins sans Frontiers, Mission Lifeline, Open Arms e Sea Eye) ricordano che “i 40 potenziali rifugiati bloccati in mare da piu” di due settimane a bordo della nave mercantile tunisina SAROST 5 verranno probabilmente sbarcati in Tunisia. Persone vulnerabili potrebbero essere sottratte a sofferenze inutili quando non alla morte, se l”UNHCR fosse nella condizione di
ottemperare pienamente al suo mandato di protezione”.
“Sulla base del suo ruolo fondamentale a livello mondiale, ci aspettiamo – concludono – che l”UNHCR assolva al suo mandato, che e” innanzi tutto la protezione dei rifugiati, persone che dipendono fortemente dalla preziosa assistenza dell”Alto Commissariato delle Nazioni Unite a loro dedicato”.