di Fulvio Vassallo Paleologo
Dopo avere impedito l’attracco nei porti italiani alle imbarcazioni delle ONG, e questo senza adottare uno specifico provvedimento ministeriale, Salvini attacca ancora le attività di salvataggio (e Toninelli esegue), anche dopo lo sbarco di appena cento persone nel porto di Messina, sbarco effettuato da una nave irlandese appartenente alla missione europea Eunavfor Med. Una missione che rientra nelle competenze PESC (Politica estera e sicurezza comune) dell’Unione Europea. Dunque sottratta alla competenza dei ministri dell’interno che comunque, come nel caso delle missioni di Frontex ospitate nel nostro paese, sono tenuti ad indicare con la massima tempestività un luogo di sbarco, qualora queste missioni fossero coinvolte in attività di ricerca e salvataggio.
Secondo il ministro Salvini e vicepresidente del consiglio, di fatto vero “padrone” del consiglio dei ministri al punto da suscitare irritazione in ambienti della marina e della difesa, neppure le navi delle missioni europee, una volta compiute le azioni di soccorso, imposte dai Regolamenti europei n. 656 del 2014 e n.1624 del 2016 ( allo stato non certo modificabili da un gruppo di ministri dell’interno riuniti in una località di montagna), dovrebbero avere accesso ai porti italiani. Senza potere sbarcare dunque i naufraghi in un place of safety (POS) come imposto dalle Convenzioni internazionali, nel tempo più rapido possibile.
Per Salvini, invece, le navi militari di altri Paesi europei che salvano migranti “non in zona Sar italiana e non coordinati dalla Centrale operativa (MRCC) di Roma e poi li sbarcano in Italia e’ un’altra “stortura” del sistema di soccorso nel Mediterraneo a cui il governo italiano intende dare una “spallata” per rivedere accordi che, secondo il ministro dell’interno, penalizzerebbero l’Italia”. Dove dovranno andare allora a sbarcare le navi militari che ancora svolgono attività di ricerca e salvataggio a nord elle coste libiche ? Forse nei paesi di bandiera, magari all’altro capo dell’Unione Europea, oppure in Libia, come ordinò Maroni nel 2009 sul caso Hirsi ed altri, poi finito con una condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo ? Intanto le navi militari italiane e straniere, dopo il ritiro imposto alle ONG, saranno costrette ad assumere responsabilità molto più grandi che in passsato, anche perchè sono le prime a monitorare in acque internazionali la presenza di imbarcazioni in situazioni conclamate di distress (pericolo imminente di affondare) e non possono certo rimanere a guardare senza intervenire.
In realtà il governo italiano, diretto dal ministro dell’interno, cerca di fare pesare un ennesimo ricatto sulla pelle dei migranti per modificare la regola della competenza Dublino del primo paese di sbarco, un tentativo già effettuato in vista del Consiglio europeo di Bruxelles del 28-29 giugno, con un tragico epilogo di morti in mare ( tre stragi in quattro giorni, dal 28 giugno al 2 luglio, con oltre trecento morti). Una “stortura”, il soccorso in acque internazionali fuori dalla SAR italiana, che il governo Letta aveva introdotto dopo le stragi del 3 e dell’11 otobre 2013, con il lancio dell’operazione Mare Nostrum, e che l’Unione Europea aveva confermato dopo la strage del 18 aprile del 2015, quando aveva esteso l’area di operatività delle missioni di Frontex fino a 135 miglia a sud di Malta e Lampedusa, ma sempre con “porto di sbarco sicuro” in Italia, paese ospitante le missioni. La strage del 18 aprile 2015, il rovesciamento di un barcone, era stata conseguenza dell’affidamento dei soccorsi ad un grosso mercantile, come si cerca di fare ancora una volta oggi, e della mancanza di navi di salvataggio specificamente attrezzate. Oggi, cacciate via le ONG e ritirate le navi militari più a nord, quella strage può ripetersi ancora tante volte. Ci dobbiamo abituare all’indifferenza, come tanti ?
Gli “accordi” tra stati ed Unione Europea, relativi alle missioni Frontex ( ieri Triton, oggi Themis) o Eunavfor Med (Sophia), di cui parla Salvini ad una opinione pubblica, tenuta nella disinformazione più totale, vanno considerati nel quadro dei diversi Regolamenti europei che hanno direttamente forza di legge ( vale anche per i ministri) sul territorio di qualunque stato UE, si tratta di “accordi” che non possono essere modificati senza una decisione unanime di tutti gli stati membri. Prspettiva che, come si è visto nel caso del Regolamento Dublino, appare oggi del tutto irrealizzabile, proprio per lo scontro tra opposti nazionalismi, che Salvini pretende invece di unificare in un unico “asse delle leghe”,a livello europeo. Le missioni di Frontex e la missione Sophia (Eunavfor Med) in Mediterraneo hanno diverse finalità, anche se alcune di queste possono sovrapporsi, e dipendono da diverse catene di comando. Ma di fronte all’obbligo di soccorrere in acque internazionali naufraghi in situazioni di “distress” e di indicare ( da parte degli stati ospitanti) un porto sicuro di sbarco (place of safety), nel rispetto del principio di non respingimento dettato dalla Convenzione di ginevra del 1951 e dall’art. 4 del Quarto Procollo allegato alla CEDU ( divieto di respingimento collettivo, adesso anche art. 19 della Carta dei diritti fondamemtali dell’Unione Europea), le prassi confermano fino ad oggi che questi obblighi non possono che ricadere sul paese che ospita le missioni.
La possibilità di sbarco dei naufraghi nel “porto più vicino”, riconosciuta dalle Convenzioni internazionali nel caso dei mercantili, per completare più rapidamente le operazioni SAR nelle quali si trovano coinvolti i mezzi commerciali, non può prevalere sulle norme che tutelano la vita, la dignità ed i corpi delle persone. Quale che sia la finalizzazione della missione internazionale (Frontex o Eunavfor Med) nella quale una nave si trovi impegnata, se scatta l’evento SAR, ricorre l’obbligo immediato di intervento, anche se nessuna autorità nazionale responsabile del coordinamento, collabora. Prima di tutto viene la salvaguardia della vita umana in mare, con la possibilità di chiedere protezione, poi si si discute sui conflitti di competenza, e non il contrario.
In base al Regolamento Frontex n.656 del 2014, “la cooperazione con i paesi terzi limitrofi è essenziale per impedire l’attraversamento non autorizzato delle frontiere, contrastare la criminalità transfrontaliera ed evitare la perdita di vite umane in mare. Conformemente al regolamento (CE) n. 2007/2004 e purché sia garantito il pieno rispetto dei diritti fondamentali dei migranti, l’Agenzia può cooperare con le autorità competenti di paesi terzi, in particolare per quanto riguarda l’analisi del rischio e la formazione, e dovrebbe agevolare la cooperazione operativa tra Stati membri e paesi terzi. Quando la cooperazione con i paesi terzi avviene nel territorio o nelle acque territoriali di tali paesi, gli Stati membri e l’Agenzia dovrebbero osservare norme e standard almeno equivalenti a quelli stabiliti dal diritto dell’Unione”.
Secondo il Regolamento n.656 del 2014, ( al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti.
Lo stesso Regolamento Frontex n.656 del 2014, (Considerando 12) “dovrebbe essere applicato nel pieno rispetto del principio di non respingimento quale definito nella Carta e quale interpretato dalla giurisprudenza della Corte e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Conformemente a tale principio, nessuno dovrebbe essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento”. Al Considerando 13 lo stesso Regolamento europeo aggiunge : “L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti inumani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto comportamenti in violazione del principio di non respingimento”. Quali garanzie esistono in Libia per i potenziali richiedenti asilo riportati a terra dopo essere stati intercettati in acque internazionali, dove fino a qualche settimana fa potevano essere soccorsi dalle navi delle ONG ?
Secondo l’art. 10 del Regolamento n.656 del 2014 gli Stati dell’Unione europea possono collaborare con paesi terzi che siano titolari di zone SAR riconosciute a livello internazionale, ma nel caso di mancata risposta, o di evidente impossibilità di salvaguardare la vita umana in mare, la dignità e l’accesso alla procedura di asilo a terra, per quanto osservato in precedenza, la responsabilità del coordinamento e della individuazione del porto di sbarco spetta alo stato che “ospita” l’operazione Frontex o Eunavfor Med, a prescindere dalla bandiera della nave europea chiamata eventualmente a realizzare l’intervento SAR ( ricerca e soccorso). Dunque in base al Regolamento n, 656 del 2014, o si ritiene che la Libia offra nella sua interezza luoghi sicuri di sbarco, circostanza esclusa anche di recente dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea, oppure l’Italia, paese ospitante delle missioni aeronavali europee non può rifiutarsi e deve indicare un luogo di sbarco sicuro nel suo territorio. Chiunque non ottemperi a questo precetto si può rendere responsabile di vari reati, a titolo omissivo, e delle loro possibili conseguenze mortali.
Gli esigui contingenti di persone soccorse in questo periodo nel Mediterraneo centrale (con un calo del 70 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno) sepppure con un aumento esponenziale delle vittime, non legittimano neppure l’attivazione dei meccanismi di solidarietà previsti dall’art.12 del Regolamento, che comunque non fanno alcun richiamo a modifiche temporanee dello stesso Regolamento Dublino, consistendo nel rinforzo delle unità e del personale dell’Agenzia, da impiegare a fini di contrasto dell’immigrazione irregolare e di controllo delle frontiere. Finalità che sarebbero pregiudicate, anche se in subordine al rischio di gravi perdite umane, ove gli stati ospitanti dovvessero ritardare la individuazione di un luogo di sbarco sicuro nel proprio territorio. Quando l’Unione europea ed i ministri dell’interno parlano di sicurezza e di rischi, purtroppo, si riferiscono ai confini ed alle barriere terrestri e marittime, non certo alla sicurezza di chi è costretto a migrare, transitando magari da un paese fallito come la Libia, o a quella di coloro che comunque, malgrado tutto, sono riusciti ad arrivare.
Il successivo Regolamento UE n. 1624 del 14 settembre 2016 relativo alla Guardia di frontiera e costiera europea che integra il precedente Regolamento UE su Frontex del 2014, non intacca il riconoscimento dei diritti fondamentali nelle operazioni di soccorso in mare, cercando invece di istituire una collaborazione multiagenzia, anche allo scopo di una analisi dei rischi per la sicurezza( in caso di arrivi più consistenti) e di dare maggiore effettività alle operazioni di identificazione (hotspot) e rimpatrio con accompagnamento forzato ( anche tramite voli congiunti).
Il Regolamento n.1624 del 2016 fa solo un riferimento alle operazioni di ricerca e soccorso per le persone in pericolo in mare, per confermare che sono ancora avviate e svolte a norma del regolamento (UE) n. 656/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio e del diritto internazionale, in situazioni che possono verificarsi nel corso di operazioni di sorveglianza delle frontiere in mare. E’ prevista la possibilità di azioni congiunte per la sorveglianza delle frontiere esterne, terrestri o marittime. Secondo l’art.21.4 del Regolamento, “nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze, i membri delle squadre rispettano pienamente i diritti fondamentali, compreso l’accesso alle procedure di asilo, e la dignità umana. Qualsiasi misura che essi adottino nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze deve essere proporzionata agli obiettivi perseguiti dalla misura stessa. Nello svolgimento dei loro compiti e nell’esercizio delle loro competenze essi non discriminano le persone in base al sesso, alla razza o all’origine etnica, alla religione o alle convinzioni personali, alla disabilità, all’età o all’orientamento sessuale”.
Come prevede l’art.34 del Regolamento n.1624 del 2016, “la guardia di frontiera e costiera europea garantisce la tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione dei suoi compiti a norma del presente regolamento in conformità del pertinente diritto dell’Unione, in particolare la Carta, il diritto internazionale pertinente, compresi la Convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiati e il suo protocollo del 1967, così come degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non respingimento”. Nell’esecuzione dei suoi compiti, la guardia di frontiera e costiera europea provvede affinché nessuno sia sbarcato, obbligato a entrare o condotto in un paese, o altrimenti consegnato o riconsegnato alle autorità dello stesso, in violazione del principio di non respingimento, o in un paese nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio.
In base all’art. 54 del Regolamento n.1624 del 2016, ” per quanto attiene alle sue attività e nella misura necessaria per l’espletamento dei suoi compiti, l’Agenzia agevola e incoraggia la cooperazione tecnica e operativa tra Stati membri e paesi terzi nel quadro della politica dell’Unione in materia di relazioni esterne, in particolare con riferimento alla protezione dei diritti fondamentali e al principio di non respingimento. L’Agenzia e gli Stati membri osservano il diritto dell’Unione, tra cui norme e standard che fanno parte dell’acquis dell’Unione, anche quando la cooperazione con i paesi terzi avviene nel territorio di detti paesi. L’instaurazione di una cooperazione con i paesi terzi consente di promuovere norme europee in materia di gestione delle frontiere e di rimpatrio.
La Guardia di frontiera e di costiera europea non può dunque sbarcare in Africa alcun naufrago soccorso in acque internazionali riconsegnandolo alle autorità libiche, nè può avere accesso ai porti libici, eventualmente indicati da autorità SAR, alle medesime finalità di sbarco in un porto sicuro. L’unica autorità statale competente ad indicare il luogo di sbarco, garantendo un POS ( place of safety) è quella del paese ospitante la missione europea, che nel caso delle missioni Themis di Frontex e Sophia di Eunavfor MED è l’Italia.
Con Themis, missione Frontex fortemente voluta da Minniti, ed adesso “a disposizione di Salvini”, avrebbe avuto termine la sorveglianza nell’area di 138 miglia dalla Sicilia parzialmente sovrapposta alla zona Sar maltese, affidata all’Italia sia per il coordinamento dei soccorsi sia per l’accoglienza in propri Pos . Secondo alcuni, con l’avvio dell’Operazione Themis di Frontex, sarebbe addirittura “decaduto” l’obbligo dell’Italia di indicare alle unità di Frontex un porto sicuro di sbarco sul proprio territorio, ma le prassi non sono cambiate in passato, anche se gli interventi sono stati meno frequenti a fronte del grande calo degli arrivi, diminuiti di oltre il 70 per cento rispetto all’anno precedente. Anche chi in ambienti militari osserva che sarebbe “decaduto l’automatico trasporto in Italia dei migranti recuperati in mare, da noi accettato sin dal 2014, rileva però che “le deroghe appaiono tuttavia poca cosa rispetto ai principi di solidarietà che dovrebbero governare anche il Sar. Vani sono i nostri tentativi di spostare l’attenzione dell’ Ue dalla sicurezza delle frontiere marittime a quella del salvataggio. In attesa che si approvi la riforma del sistema di Dublino la partita va per ora giocata attraverso accordi Sar tra noi e i vicini.” La “partita” per una vera riforma del sistema Dublino, che si allontana giorno dopo giorno non può essere giocata chiudendo i porti ed allontanando le Ong, dunque ancora una volta sulla pelle dei migranti.
La recente istituzione di una zona SAR libica, intervenuta dopo la notificazione all’IMO di Londra da parte delle autorità del governo di Tripoli si scontra con il dato ineludibile che attualmente, su un tratto di costa di almeno 1000 chilometri da sorvegliare, il governo di Tripoli, che neppure controlla l’intera Tripolitania, dispone soltanto di tre motovedette di media grandezza, oltre alcuni gommoni. Mezzi concepiti per intercettare e minacciare, non per soccorrere, privi come sono delle necessarie dotazioni di sicurezza per attività SAR (Search and rescue). Le fotografie, recenti e meno recenti, dei soccorsi operati dai libici rendono molto bene la situazione reale.
Quanto previsto adesso dal recente decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri, non modificherà in modo sostanziale la situazione, trattandosi della cessione ai libici di due imbarcazioni di altura della lunghezza di circa 30 metri, che nella maggiore ipotesi di capienza potranno salvare 100 persone, mentre sui gommoni sovraccarichi che partono dalla Libia, spesso contemporaneamente, si contano fino a 120-140 persone. Per non parlare dei livelli di corruzione sistemica che ancora si riscontrano tra le milizie che controllano i porti da cui escono i mezzi della cd. Guardia costiera libica o direttamente imbarcate in mare. Per controllare e bloccare i gommoni diretti verso nord, ma anche per ricercare o sorvegliare l’ingente contrabbando di petrolio dalla Libia verso Malta e il resto dell’Unione Europea.
Eppure malgrado tutto questo, ed una situazione assolutamente instabile, persino a Tripoli, si rispolverano gli accordi del 2008 tra Berlusconi e Gheddafi, citati del resto anche nel Memorandum d’intesa tra governo italiano ed autorità di Tripoli, sottoscritto il 2 febbraio 2017. Accordi preceduti da un Protocollo operativo che anticipava già nel 2007 ( governo Prodi) quanto si vorrebbe completare oggi. Ma ora si fa balenare la possibilità che ai libici (di Tripoli) oltre alle motovedette, arrivino cinque miliardi di euro, solatnto dall’italia, e dunque a carico dei contribuenti, perchè l’Unione Europea, con il fantomatico Africa Trust, ha già fatto sapere che non verserà più di qualche decina di milioni di euro.
Anche gli attuali stanziamenti di spesa decisi dal governo italiano sono irrisori. Le altre dieci “motovedette” promesse alla Guardia costiera “libica” sono piccoli motoscafi adatti per la navigazione costiera, con una capacità di carico limitata, in caso di soccorso, a qualche decina di persone, dunque del tutto insufficienti per garantire effettive attività SAR (ricerca e soccorso) nella vasta zona che viene adesso riconosciuta sulla carta alla loro competenza. Non si può dunque ritenere che la notifica della zona sar “libica” all’IMO corrisponda ad un sostanziale disimpegno delle autorità SAR confinanti, dunque le autorità maltesi, ed in primo luogo, sulla base delle prassi consolidate nei rapporti con la Valletta, quelle italiane. Sono comunque le autorità italiane che rimangono allo stato le uniche che coordinano le operazioni delle navi delle missioni europee, come è avvenuto da ultimo con lo sbarco a Messina del 7 luglio scorso.
Nonostante l’avvicendamento del comando dell’Operazione Eunavfor Med, l’operazione rimane “ospitata” nei porti italiani. Non potrebbe svolgere altrimenti le sue missioni a nord della costa libica. Il 31 agosto 2017, a bordo della nave anfibia San Giusto ormeggiata a Taranto, alla presenza del ministro della Difesa italiano, Roberta Pinotti, del ministro della Difesa spagnolo, Maria Dolores de Cospedal Garcia, del comandante dell’operazione, ammiraglio Enrico Credendino, il contrammiraglio Andrea Romani ha ceduto l’incarico di force commander dell’operazione Sophia al contrammiraglio della Marina spagnola Javier Moreno.
L’Italia rimane dunque “paese ospitante” della missione Sophia di Eunavfor Med, che si avvale stabilmente delle basi della Marina militare a Taranto, ad Augusta ed a Messina. I numeri parlano chiaro, nel 2017 ben 130.000 persone sono state soccorse nelle acque che oggi vengono ritenute ricadere nella zona SAR “libica” da mezzi militari, privati e commerciali “sotto il coordinamento” della centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC di Roma). Anche se le partenze dalla Libia sono calate del 70 per cento, si può ritenere che i libici potranno provvedere con i mezzi che si ritrovano a soccorrere almeno 50.000 persone quest’anno ? E se anche questo avvenisse, che fine farebbero queste persone riportate in Libia, dal momento che OIM ed UNHCR riescono a evacuare dai centri di detenzione di quel paese, in un anno, appena qualche migliaio di persone ” in condizioni particolari di vulnerabilità, come minori non accompagnati e donne con bambini piccoli ? E tutti gli altri che fine faranno? Si vuole fare finalmente una valutazione delle conseguenze mortali dell’allontanamento delle ONG ?
Se l’Italia volesse dismettere la propria qualità di “paese ospitante” delle operazioni Frontex ed Eunavfor Med nel Mediterraneo centrale, oltre all’ennesimo prevedibile scontro con Malta, potrebbe andare incontro ad una procedura di infrazione a livello di Corte di Giustizia dell’Unione europea. Non tanto e non solo perchè attenterebbe alla vita delle persone a rischio di naufragio nell’area di operatività delle missioni europee, ma anche perchè questa sua scelta intaccherebbe il perseguimento delle finalità di controllo delle frontiere e di contrasto dell’immigrazione irregolare, imposto con valore normativo inderogabile dai due Regolamenti appena richiamati e da precisi deliberati delle Nazioni Unite ( in particolare 2146 (2014) e 2362 (2017) del Consiglio di sicurezza dell’ONU) . Gli accordi bilaterali non possono derogare i trattati internazionali sottoscritti a livello di Nazioni Unite o di Consiglio d’Europa.
Non contento di questo ennesimo stop che arriva da Bruxelles, sempre utile comunque ad alimentare il becero populismo nazionalista che sta dilagando in Italia, moltiplicando i consensi della lega, Salvini adesso si prepara al prossimo vertice di ministri dell’interno, gli uomini forti dei governi europei, riuniti ad Innsbruck Il primo Consiglio informale della presidenza austriaca. Il ministro dell’interno, ma nella qualità di vicepresidente del Consiglio spesso in sovrapposizione agli altri ministri, ritiene di potere sfruttare una emergenza, per riaprire la trattativa sl Regolamento Dublino rinegoziando i porti di sbarco delle missioni internazionali. Tra gli altri obiettivi, la costruzione di un asse di partiti populisti in Europa, anche in vista del rinnovo del Parlamento europeo il prossimo anno.
Adesso Salvini minaccia: “Dopo aver fermato le navi delle Ong, giovedì (12 luglio) porterò al tavolo europeo di Innsbruck la richiesta italiana di bloccare l’arrivo nei porti italiani delle navi delle missioni internazionali attualmente presenti nel Mediterraneo. Purtroppo i governi italiani degli ultimi 5 anni avevano sottoscritto accordi (in cambio di cosa?) perchè tutte queste navi scaricassero gli immigrati in Italia, col nostro governo la musica è cambiata e cambierà”. Immediata la protesta del ministro della difesa Trenta, responsabile della Marina militare, che questa volta lamenta l’ennesima invasione di campo da parte dell’onnipresente ministro dell’interno. Il ruolo di vicepremier non puà consentire a nessuno di scardinare le competenze ministeriali, ed il principio di collegialità del governo, stabiliti dalla Costituzione italiana.
Evidente il tentativo di coinvolgere in questo tentativo, giocato tutto sulla criminalizzazione delle ONG e sull’abbandono programmato di centinaia di migranti in acque internazionali, le grandi navi militari delle missioni Frontex ed Eunavfor Med in operazioni di “riconsegna” dei naufraghi ai libici, direttamente in mare, oppure a terra. Un tentativo che non è ancora riuscito. Anzi un rappresentante della Commissione Europea ha ricordato a Salvini che le vigenti normative europee vietano alle navi delle missioni europee ( incluse quelle italiane) la riconsegna ai libici, diretta, o indiretta, dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo Centrale. Ed è per questa ragione che, dopo avere rifiutato il cooordinamento, le autorità italiane hanno indicato Messina, come porto sicuro di sbarco ad una nave della missione Eunavfor Med che aveva svolto la sua attività di soccorso in quella che dal 28 giugno si vuole definire come “zona Sar libica”, ma nella quale i libici di Tripoli e la Guardia costiera che vi fa rifernimento, non è evidentemente in grado di intervenire. Come denunciato in diverse occasioni dai comandanti delle navi delle ONG che per questa ragione sono diventati nemici da eliminare al più presto. Come si sta cercando di fare, con motivazioni sempre più pretestuose a Malta.
Siamo di fronte all’ennesima tattica elettorale di un ministro dell’interno che continua ad operare come il capo di un partito, ed al tempo stesso come il padrone dell’intero governo, una tattica già sperimentata, e fallita, alla vigilia del Consiglio Europeo del 28 e del 29 giugno scorsi. Si individua un bersaglio, prima le ONG, adesso le missioni europee, di fatto accomunate nell’accusa, già rivolta a Mare Nostrum, e poi anche a Frontex, di essere un fattore di attrazione (pull factor) rispetto alle partenze dei gommoni dalla Libia.
Si maschera in questo modo la incapacità di una vera politica capace di rispettare i diritti fondamentali delle persone, a partire dal diritto alla vita. Poi si spara una richiesta improponibile all’Unione europea, che in questa fase non riesce a decidere nulla per lo scontro tra i diversi nazionalismi, ed è comunque vincolata al rispetto dei Regolamenti e delle Direttive approvate negli anni scorsi. Infine si incassa il consenso elettorale, rimarcando che adesso in Europa sono costretti a discutere sulle proposte italiane, anche se in realtà i risultati che si portano a casa sono molto modesti, se non nulli, come dimostra il fallimento italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Seguito dallo stop repentino arrivato dall’Unione Europea sulla proposta italiana di utilizzare per i rimpatri fondi europei aventi una diversa destinazione.
Si lamenta di essere abbandonati dall’Unione Europea, ma poi si diventa strumento dell’unica proposta che i capi di governo riescono ad individuare, sulla pelle dei migranti intrappolati in Libia. Tutta la politica di Salvini, e purtroppo in precedenza anche buona parte di quella di Gentiloni e Minniti, punta sulla collaborazione con il governo di Tripoli e la Guardia costiera “libica” per bloccare le partenze,per lasciare ai libici gli interventi di intercettazione in acque internazionali, in una zona SAR costruita a tavolino e recentemente inserita nei data base dell’IMO ( Organizzazione internazionale del mare), in modo di aumentare il numero dei migranti bloccati in mare e confinati nei centri di detenzione in Libia, siano essi governativi o gestiti dalle milizie. Luoghi la cui disumanità è sottolineata ancora in questi giorni dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che però sta lavorando alacremente alla organizzazione di un grande “centro di accoglienza” a Tripoli. Anche se le prospettive di resettlement di coloro che verranno “accolti” in questa nuova struttura perchè riconosciuti meritevoli di protezione, si collocano nel Niger ed in altri paesi a sud della Libia. Con il sicuro risultato che, in assenza di paesi europei disposti ad accettarli attraverso corridoi umanitari, anche queste persone particolarmente vulnerabili, saranno costrette a rimettersi in viaggio nelle mani dei trafficanti.
Il disegno di Salvini, potremmo dire il suo manifesto elettorale, che continua ad agitare anche da ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio, è quello di delegare alla Guardia costiera libica veri e propri respingimenti collettivi, coordinati di concerto con la Marina italiana, come del resto avveniva già a partire dai primi mesi di quest’anno, con la missione Nauras di stanza a Tripoli e con il trasferimento della competenza di Sar Coordinator (MRCC) dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana di Roma ad una non meglio identificata Centrale operativa libica, o più spesso direttamente a singole unità della stessa Guardia costiera di Tripoli, che non si può certo definire “libica”. Per questo motivo le navi delle missioni europee presenti di fronte alla costa libica devono collaborare alle attività di intercettazione, ma non dovranno più sbarcare potenziali richiedenti asilo in Italia.
I governi europei, e quelli italiani, dal governo Gentiloni-Minniti al governo Salvini-Di Maio sono tutti responsabili di gravi crimini contro l’umanità, per le modalità disumane con cui hanno gestito i rapporti con le autorità di Tripoli e con la sedicente Guardia costiera “libica”. Lo ha già affermato una sentenza del Tribunale permanente dei Popoli, che nel dicembre del 2017 ha condannato sia l’Italia che l’Unione Europea per gli accordi con la Libia. Le decine di testimoni già ascoltati in quella occasione sono in continuo aumento, ed i loro racconri, anche di quelli che hanno conosciuto i respingimenti delegati alla Guardia costiera di Tripoli, sono sempre più terribili.
Che la Libia non offra porti sicuri di sbarco ( place of safety) lo hanno affermato successivamente sentenze dei giudici italiani, come a Ragusa ed a Palermo, e aggiornati rapporti delle Nazioni Unite e delle più grandi Organizzazioni non governative. Eppure per il governo italiano, ancora oggi, la nave irlandese che ha soccorso naufraghi in acque internazionali, in quella che viene ritenuta- senza averne i requisiti- come una zona SAR (Search and Rescue ) “libica”, avrebbe dovuto sbarcare i naufraghli in un porto della Tripolitania, o dirigere verso l’Irlanda. Se avesse davvero ceduto al trasferimento di competenze dalla centrale operativa italiana (MRCC) di Roma, ad una qualche autorità di coordinamento a Tripoli, lo sbocco necessitato dell’azione di soccorso sarebbe stato il respingimento di fatto delle persone verso la regione dalla quale erano fuggiti i migranti, venendo anche meno ai suoi compiti di “law enforcement“, di contrasto dei flussi migratori illegali, che, a differenza di Frontex, costituisce lo scopo principale della missione Eunavfor Med. Lo confermano in modo inconfutabile i documenti adottati a Bruxelles, probabilmente ignoti a Salvini, che nel suo periodo di parlamentare europeo si è distinto per le numerose assenze.
La direzione che sembra prendere l’Unione Europea, già emersa nel pre-vertice informale del 24 giugno, ed adesso consolidata nei documenti prodotti dalla presidenza austriaca, è quella di creare aree di sbarco “sicure” definite “piattaforme di sbarco” in Libia, sempre che sia possibile evitare di infrangere divieti sanciti dalle Convenzioni internazionali, che si cerca di aggirare favorendo gli accordi bilaterali tra alcunni paesi UE più esposti, come la Grecia e l’Italia, ed i paesi terzi dai quali si teme l’arrivo del maggior numeo di migranti, come la Turchia e la Libia, o quello che ne rimane.
In Europa nelle zone più vicine alle frontiere esterne, si vogliono creare nuovi Hotspot, non più finalizzati alla prima identificazione ed alla Relocation ( ormai fallita), come si prevedeva nel 2015, ma trasformati in centri di detenzione edi selezione per i migranti che sono immediatamente rimpatriabili, o perchè privati del diritto di accedere alle procedure di protezione, oppure perchè denegati dopo un esame brevissimo, durato magari un paio di settimane, senza alcuna effettiva possibilità di ricorso. Si sta lavorando, a Bruxelles e nelle capitali europee, per trovare nuiove risorse per centri di detenzione nei paesi di primo ingresso e per i rimpatri con accompagnamento forzato ed i rimpatri volontari, che spesso sono l’unica alternativa ad una lunga detenzione. Tutto questo senza nessuna modifica sostanziale che scardini, come chiediamo da tempo, il criterio fondamentale del vigente Regolamento Dublino, la competenza del paese di primo ingresso per l’esame e l’accoglienza dei richidenti asilo. Un criterio che danneggia soprattutto l’Italia per effetto del quale nei prossimi mesi verranno fatti rientrare nel nostro paese decine di migliaia di richiedenti asilo denegati in Austria, in Germania, in Francia, in Olanda, in Svezia. Anche da quei paesi con cui la lega di Salvini cerca di costruire una lega europea delle leghe. Una mistione di nazionalismi che porterà allo scontro, tutti contro tutti, nel cuore dell’Europa, e potrebbe mettere a rischio anche la libertà di circolazione Schengen e a quel punto la stessa sopravvivenza dell’Unione Europea. Per non parlare delle migliaia di morti e dispersi che queste politiche produrranno giorno dopo giorno, Non ne parliamo ancora qui, ma li ricorderemo con le nostre azioni quotidiane.