di Fulvio Vassallo Paleologo
1.La Circolare del 4 luglio scorso, inviata dal ministro dell’interno Matteo Salvini ai Prefetti al Presidente della Commissione Nazionale per il diritto di asilo, ai Presidenti delle Commissioni territoriali, e per conoscenza, tra gli altri, al Capo della polizia ed al Capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, avente ad oggetto ” il riconoscimento della protezione internazionale e la tutela umanitaria”, costituisce un atto di indirizzo che deve essere valutato, oltre che alla stregua dei precedenti giurisprudenziali, citati solo in parte, alla luce del dettato costituzionale e del complessivo quadro normativo inerente la richiesta di protezione umanitaria. Si tratta di una materia nella quale si riscontrano numerosi interventi della giurisprudenza di merito che ribaltano decisioni di diniego delle Commissioni territoriali, dando particolare rilievo ai percorsi di integrazione seguti in Italia ed ai trattamenti inumani o degradanti subiti nei paesi di transito, in particolare in Libia.
Si deve ricordare che il più recente Decreto legislativo 22 dicembre 2017, n.220, non ha modificato quanto previsto dal precedente D.Lgs. n.25 del 2008 ( integrato dal D.Lgs n.142 del 2015), secondo cui (articolo 4) le Commissioni territoriali, come le loro sezioni, operano con “indipendenza di giudizio e di valutazione”. Indipendenza di giudizio e di valutazione che è rafforzata e garantita dalla presenza in ciascuna Commissione territoriale di un membro rappresentante dell’UNHCR. Le posizioni dell’Alto Commissariato non devono concidere per forza con quelle del governo che ha ispirato la circolare, anche sui “parametri” per valutare le richieste di protezione. Non è peraltro possibile che il contributo dell’Alto Commissariato per i rifugiati possa limitarsi al riconoscimento dei casi di protezione internazionale, risultando essenziale anche nei casi di protezione umanitaria il voto dell’esponente delle Nazioni Unite. L’indipendenza di giudizio e di valutazione della Commissione dovrà essere dunque garantita in ogni caso anche dalla presenza e dalle scelte del membro UNHCR componente della Commissione territoriale. Si deve anche aggiungere che la formazione e l’aggiornamento di tutto il personale delle Commissioni territoriali, soprattutto di quello di più recente assunzione in base ad un bando del ministero dell’interno dello scorso anno, è stato e continua ad essere curato da funzionari dell’UNHCR.
Nel caso del richiamo ad una maggiore tempestività del lavoro delle Commisioni, problema legato come è noto anche ai tempi di inoltro delle pratiche da parte delle questure, si tratta di un mero richiamo che da tempo si ripete, con gli esiti che vediamo. Esiti che sono fortemente condizionati dalle dotazioni di organico che adesso dovrebbero essere adeguate sulla base dell’assunzione di alcune centinaia di nuovi componenti (le commissioni territoriali) selezionati nel settembre dello scorso anno.
La tutela rafforzata per le donne in stato di gravidanza, e per i minori non accompagnati, sulla quale si è molto insistito a livello mediatico, non rappresenta altro che una ripetizione di quanto già previsto dalla vigente legislazione italiana e dalla normativa internazionale. Ma non è questa la finalità principale dell’iniziativa del ministero dell’interno sul riconoscimento (ed il rinnovo) della protezione umanitaria. Si deve semmai ricordare che ai sensi dell’art.17 del Decreto legislativo n.142 del 2015, oltre alle donne in stato di gravidanza ed ai minori non accompagnati, sono ritenuti soggetti vulnerabili anche ” i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le vittime della tratta di esseri umani, le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, le persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legata all’orientamento sessuale o all’identità di genere, le vittime di mutilazioni genitali”. E come “soggetti vulnerabili” tali persone vanno considerate in tutte le fasi della procedura per il riconoscimento di uno status di protezione. I casi decisi dalla giurisprudenza di merito vanno anche oltre quanto affermato dalla Corte di Cassazione, come avverrà ancora in futuro. Salva la possibilità di tutte le parti di ricorrere fino al giudice di legittimità, nessun ministro e nessuna giurisdizione superiore possono intaccare la autonomia di giudizio del singolo giudice. Nel nostro paese non esiste ancora un effetto vincolante delle giurisdizioni superiori, anche se tutte le autorità giudicanti sono tenute a rispettare in modo rigoroso l’obbligo di motivazione.
2. Le ragioni dell’intervento del ministro per mezzo di una specifica circolare si legano alla considerazione di Salvini secondo cui il riconoscimento della protezione umanitaria, prevista dall’art. 5.6 del Testo Unico sull’immigrazione n. 286/98, e il suo rinnovo “generalizzato”, a detta della stessa circolare, implicherebbero il riconoscimento di uno status di soggiorno legale a persone che non avrebbero titolo alla protezione internazionale ( e questa è una considerazione ovvia) ” con consequenziali problematiche sociali che, nel quotidiano, involgono anche motivi di sicurezza”.
Appare ben strano, e sembra ricorrere una evidente carenza di motivazione del provvedimento, sostenere che il riconoscimento di un diritto ( quello alla protezione umanitaria) previsto dalla legislazione vigente nell’alveo del dettato costituzionale ( articolo 10 comma 3 della Costituzione) possa determinare problematiche sociali che “involgono motivi di sicurezza”. Affermazione che corrisponde ad una precisa posizione politica, ma che nella circolare non viene motivata in alcun modo. Che nesso intercorre tra l’applicazione di un istituto previsto dalla legge, la protezione umanitaria, ed i “motivi di sicurezza” ?
La circolare contiene “parametri ai quali va necessariamente ancorata ogni valutazione per il riconoscimento delle diverse forme di protezione, non potendo la stessa essere limitata ad una mera constatazione di criticità benchè evidenti e circostanziate”. I parametri per il riconoscimento degli status di protezione sono previsti dalla legge e non posono discendere da una circolare del ministro dell’interno. Lo vieta espressamente la “riserva di legge” prevista in materia di condizione giuridica dello straniero dall’art. 10 della Costituzione italiana.
Questi “parametri” vengono ricavati dall’unico precedente giurisprudenziale che si cita ( la nota sentenza della Cassazione n.4455 del 23 febbraio 2018) in base alla quale i “seri motivi” previsti dalla normativa nazionale per il riconoscimento della protezione umanitaria ( art. 5 comma 6 del Testo Unico n.286 del 1998) sarebbero “tpizzati dalla ratio di tutelare situazioni di vulnerabilità, calate in concreto nella complessiva condizione del richiedente, emergente sia da indici soggettivi che oggettivi”, senza che “nessuna singola circostanza possa di per sè, in via esclusiva, costituire il presupposto per l’attribuzione del beneficio”. Si aggiunge poi quanto afferma la sentenza n. 4455/2018 della Cassazione, secondo cui ” l’accertamento della situazione oggettiva del paese di origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere”. Un criterio che è stato già adottato dai giudici di merito. Che però fanno costantemente richiamo ai principi costituzionali ed agli obblighi di fonte internazionale evocati dall’art. 5. 6 del T.U. n. 286 del 1998, che la circolare sembra invece ignorare.
Come osserva Chiara Favilli, in una nota di commento alla sentenza, la decisione della Cassazione n. 4455/2018 afferma ” che l’integrazione sociale è uno dei motivi che concorrono a determinare la situazione di vulnerabilità personale rilevante ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in sintonia, sotto questo profilo, con la sentenza impugnata della Corte d’appello di Bari. Il motivo dell’accoglimento del ricorso non è, dunque, l’astratta idoneità dell’integrazione sociale ad integrare la fattispecie aperta di cui all’art. 5, comma 6, TU 286/1998, bensì la carenza dell’impianto argomentativo e dell’indagine individualizzata che, invece, secondo la Corte devono essere presenti al fine del riconoscimento della vulnerabilità nel caso concreto”.
Si ha in sostanza l’impressione che la circolare adottata dal Ministero dell’interno capovolga la portata effettiva di quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la estrapolazione di una parte soltanto del “dictum” del Supremo Collegio, in quanto i giudici di legittimità sottolineavano, oltre al requisito della integrazione sociale, la necessità che il ricorrente provasse una situazione di una possibile compromissione dei propri diritti nel paese di origine in caso di rientro. Tale prova deve essere fornita nel caso concreto, ma questo non comporta lo svuotamento della protezione umanitaria, fino alla dimostrazione della ricorrenza dei requisiti richiesti per il riconoscimento dello status di asilo o di protezione sussidiaria.
Come ricorda Chiara Favilli, la Corte chiaramente afferma che la condizione di vulnerabilità può dipendere anche «dalla mancanza di condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa». Quindi non solo una situazione di instabilità politico-sociale che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale ma «anche un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute» oppure «può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti di impoverimento radicale riguardante la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’intero del Paese d’origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili)».
Per il riconoscimento ( ed aggiungerei il rinnovo) della protezione umanitaria, secondo la Corte di Cassazione, dunque, occorre provare nel caso concreto “una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili» ai quali il richiedente sarebbe esposto se la sua domanda fosse respinta e se fosse sottoposto ad una procedura di allontanamento forzato. Questa vulnerabilità non si può ridurre alla situazione di minori non accompagnati e donne in stato di gravidanza, ma riguarda tutte le persone che corrano il rischio di subire violazioni gravi ( i seri motivi) dei propri diritti fondamentali, quali sono riconosciuti dal nostro testo costituzionale e dalle Convenzioni internazionali, a partire dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diiritti dell’Uomo. Qualunque bilanciamento di opposti interessi dovrà tenere conto in ogni caso non solo del valore assoluto ed inderogabile del diritto alla vita ed a non subire torture o trattamenti inumani o degradanti, ma anche della possibile violazione dei diritti fondamentali che garantiscono la dignità della persona come tale ed il diritto ad una esistenza libera e non soggetta alla corruzione sistemica, ed all’arbitrio della polizia o di gruppi armati non statali.
3. Occorre poi ricordare che oltre al requisito della integrazione sociale, sentenze sempre più frequenti richiamano come base per il riconoscimento della protezione umanitaria le violenze, consistenti anche nel digiuno prolungato, e gli abusi ( anche sessuali o per violenza di genere) ai quali i richiedenti protezione sono stati sottoposti non solo nel paese di origine, ma nel paese di transito, in particolare in Libia, o nei paesi ai suoi confini ( Sudan, Niger, Chad).
Si tratta di condizioni di riconoscimento di uno status di protezione umanitaria che possono trovare diretto fondamento, oltre che nell’art. 10 della Costituzione e dunque alla stregua dell’art.5.6 del T.U. n.286 del 1998, anche nell’art. 32 della stessa Costituzione ( diritto alla salute), e non soltanto nel diritto alla libertà personale o all’integrazione sociale, nei termini prima considerati nella sentenza della Corte di Cassazione richiamata dalla circolare ministeriale. Non appare neanche trascurabile la situazione di grave disagio mentale nella quale si trovano molti richiedenti asilo, per effetto del prolungato trattenimento nei centri di detenzione in Libia, e talora per le circostanze drammatiche di naufragi in mare aperto. Lasciare queste persone senza uno status legale certo, e non potendosi certo ipotizzare un loro rimpatrio forzato di massa, significa creare situazioni di irregolarità e di enorme vulnerabilità, anche nel nostro paese, che dovrebbero allarmare tutti.
La parte centrale della circolare adottata il 4 luglio scorso dal ministero del’interno sembrebbe tende invece ad utiilizzare un singolo precedente giurisrudenziale, peraltro letto in modo parziale ed evidentemente tendenzioso, per subordinare il riconoscimento di uno status di protezione umanitaria ad una condizione specifica di vulnerabilità da provare nel paese di origine del richiedente. La circolare orienta in questo modo verso interpretazioni restrittive che svalutino la condizione di vulnerabilità effetto delle sevizie subite nel corso del transito in Libia, casi che ricorrono per molti migranti che giungono da quel paese. Almeno se si rimane sul piano dei rapporti internazionali delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali, che confermano come le torture e gli abusi all’interno dei diversi centri di detenzione ( governativi ed informali), ed anche al loro esterno ( con fenomeni sempre più gravi di commercio di esseri umani), continuino ancora oggi, e non sono certo frutto di una “retorica della tortura”, come qualcuno ha affermato. Ma qui si può prevedere che la circolare ministeriale produrrà una crescita assai consistente del contenzioso, che gli avvocati dovranno calibrare sempre, anche alla luce delle necessarie documentazioni mediche, sulle specifiche circostanze che hanno riguardato il singolo ricorrente. I testimoni degli abusi subiti in Libia e dalla sedicente guardia costiera “libica”, che libica non è, sono sempre più numerosi.
La circolare Salvini sulla protezione umanitaria sembra anticipare la cancellazione dell’istituto della protezione umanitaria dal nostro ordinamento, attraverso un suo progressivo svuotamento, pure richiesto da una parte politica. E forse anche in vista la introduzione di una lista vincolante di “paesi terzi ritenuti sicuri”, in modo da respingere in blocco tutte le domande di protezione provenienti da cittadini appartenenti a questi paesi. E trasformare i richiedenti protezione umanitaria denegati in immigrati irregolari da espellere. Occorre però ricordare che la normativa italiana sulla protezione umanitaria è una diretta espressione del principio costituzionale affermato dall’art.10.3 della Costituzione italiana.
Come si è osservato (Tria), se si dovesse arivare per via amministrativa, o financo per via legislativa, allo svuotamento dell’istituto della protezione umanitaria, si potrebbe ben ricorrere, come si faceva in passato, all’applicazione diretta del dettato costituzionale, fin qui richiamato espressamente dall’art. 5. 6 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998. Tale richiamo appare di ampia applicazione ben al di là dei divieti di respingimento ed espulsione previsti oggi dall’art. 19 del vigente testo Unico. Si rileva infatti che “in base al consolidato orientamento della Corte di Cassazione − affermatosi a partire da Cass., 26 giugno 2012, n. 10686 − si è esclusa la sopravvivenza di margini residuali di diretta applicazione della suddetta norma costituzionale sul presupposto che il diritto di asilo si deve considerare interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario. È, pertanto, evidente che se, in ipotesi, tale assetto normativo venisse modificato in senso restrittivo – ad esempio con riguardo alla protezione umanitaria – si riespanderebbe l’ambito di diretta applicabilità della indicata disposizione costituzionale” (Tria).
Prima di arrivare a ricorsi alle corti superiori, su singole cause pilota, sarà compito degli avvocati ed in genere di tutti gli operatori legali che assistono i richiedenti asilo, diffondere informazione e formazione a livello periferico, e promuovere tutte le istanze di ricorso praticabili, già in ambito territoriale, per dare effettiva attuazione ai diritti di difesa affermati per “tutti” dall’art. 24 della Costituzione italiana. Dopo le recenti modifiche del rito processuale sui ricorsi contro i dinieghi adottati dalle Commissioni territoriali, sarà sempre più importante il ruolo della giurisdizione, soprattutto per garantire il pieno rispetto del principio del contraddittorio, ed un esercizio indipendente dei poteri di accertamento e di impulso di ufficio previsti in capo ai giudici dalla vigente normativa.