Ong e obblighi di soccorso. Inchieste archiviate e condanne anticipate sui giornali.

di Fulvio Vassallo Paleologo

Secondo quanto si apprende dal quotidiano La Repubblica” il giudice delle indagini preliminari di Palermo, accogliendo la richiesta della competente Direzione distrettuale antimafia, ha archiviato l’lndagine avviata lo scorso anno su alcune organizzazioni non governative, escludendo legami tra le stesse organizzazioni e i trafficanti di esseri umani libici e la sussistenza di un qualsiasi reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Tra le associazioni indagate, la Open Arms e la Sea Watch. La decisione dei giudici palermitani, seppure offra qualche aspetto parzialmente oscuro, proveniente probabilmente dalle attività di indagine svolte dalla polizia giudiziaria, appare molto chiara nel delineare la legalità delle attività delle ONG che fanno soccorso in mare.

“Per il procuratore aggiunto Marzia Sabella, i sostituti Geri Ferrara, Claudio Camilleri e Renza Cescon, “non deve stupire” che la Ong “abbia preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane: ciò rappresenta, anzi, una conseguenza logica e una corretta gestione delle operazioni di salvataggio”.  “Secondo la convenzione Sar siglata ad Amburgo nel 1979 – hanno affermato i magistrati – le operazioni Sar di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in luogo sicuro. Questa nozione comprende necessariamente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Argomenti decisivi e assorbenti al fine della confutazione risultano essere da un lato l’effettività del soccorso e, dall’altro, l’assoluta mancanza di cooperazione dello Stato di Malta nella gestione dei predetti eventi Sar”.

Per il giudice delle indagini preliminari che ha accolto la richiesta dei procuratori della DDA di Palermo, ne consegue che il porto più vicino, allora, “non dovrà individuarsi esclusivamente avuto riguardo alla posizione geografica, ma dovrà invece essere necessariamente quello che assicurerà il rispetto dei predetti diritti. Quindi non deve stupire che Sea Watch abbia preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane: ciò rappresenta, anzi, la conseguenza logica di quanto sopra esposto e una corretta gestione delle operazioni di salvataggio”.

La decisione di archiviazione dei giudici palermitani richiama espressamente la precedente decisione (del GIP e) del Tribunale di Ragusa,  che hanno confermato il dissequestro della nave Open Arms, dopo il blocco a Pozzallo imposto, lo scorso marzo, dalla Procura di Catania.  Per il Tribunale di Ragusa, «nella vicenda in esame nessun elemento consente di ravvisare il ricorrere di cointeressenze o di accordi tra l’equipaggio della motonave Open Arms e l’organizzazione – verosimilmente libica – autrice dell’illecito trasporti di migranti».

Nel recente provvedimento del GIP di Palermo si conferma dunque l’esclusione di qualsiasi ipotesi di associazione a delinque finalizzata all’introduzione in Italia di immigrati irregolari, come peraltro si era espresso in precedenza, sia pure in una fase cautelare di convalida del sequestro preventivo della nave Open Arms, il Giudice delle indagini prelimiari di Catania, con una decisione che aveva fatto chiarezza sul coordinamento “sostanziale” da parte dell’Italia in ordine alle attività di ricerca e soccorso svolte dalle unità navali riconducibili alla Guardia costiera di Tripoli, che non ha competenze operative su tutto il mar Libico.

Negli stessi giorni in cui si comincia a verificare la effettiva portata del castello accusatorio proposto ai magistrati siciliani dai servizi di informazione, dalla Guardia di finanza, da agenti sotto copertura, come nel caso della nave umanitaria Juventa sequestrata dallo scorso anno, e probabilmente da qualche trafficante “pentito”, si assiste al rilancio mediatico delle accuse contro le ONG. Un attacco enfatizzato dai titoli dei giornali, subito seguito da un comunicato dell’ammiraglio Credendino, già a capo della missione europea Eunavfor Med. Le ONG sarebbero responsabili dell’incremento degli arrivi in Italia negli anni 2016 e 2017, esattamente la stessa accusa mossa da Frontex e da alcuni ambienti delle destre europee, sulla base della quale nel dicembre 2014 veniva ritirata la missione Mare Nostrum, con un aumento esponenziale di vittime nei primi quattro mesi del 2015.

In una dicharazione resa all’AGI il 19 giugno, Credendino afferma che “Indubbiamente una presenza massiccia di navi delle Ong vicino alle acque territoriali libiche, come si e” verificata in passato, puo” essere un incentivo per gli scafisti, per i trafficanti di esseri umani, quindi e’ necessario che tutti seguano le regole che vengono stabilite a livello politico e che tutti lavorino per salvaguardare la vita umana, che non si fa solo facendo i soccorsi in mare, ma combattendo i criminali ed evitando che questi siano incentivati a far partire i migranti”. Insomma la riproposizione della vecchia teoria del “pull factor”, fattore di attrazione, che vedrebbe convergere gli interessi dei trafficanti e quelli delle ONG che fanno soccorso in mare. Da qui alla criminalizzazione delle attività di soccorso in mare svolte dalle ONG il passo è breve, e sui giornali già ampiamente compiuto. Si vedrà  anche davanti le corti internazionali quanto reggerà questa ricostruzione delle responsabilità nelle operazioni di ricerca e soccorso nelle acque internazionali a nord della costa libica.

Se gli stati prima, e poi il direttore di Frontex, non avessero ritirato già nel corso del 2015 le navi che operavano “law enforcement” nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, le ONG non si sarebbero mai impegnate in attività tanto rischiose e dispendiose. Se non fossero intervenute le navi umanitarie, decine di migliaia di persone che sono state soccorse e condotte in un porto sicuro, sarebbero finite in fondo al mare, o avrebbero fatto ritorno nei lager libici nei quali si era, e si rimane esposti, alle più feroci torture, sia nei centri cd. governativi, che in quelli gestiti dalle milizie.

I rapporti dell’UNSMIL, e le testimonianze dei migranti arrivati di recente, i loro corpi martoriati, confermano come la Libia continui ad essere un paese “fallito” in uno stato continuo di belligeranza, dove le bande di miliziani la fanno da padroni, commerciando armi, petrolio ed esseri umani. Da ultimo, gli attacchi sistematici ai pozzi petroliferi hanno gravemente intaccato le capacità estrattive affidate alla compagnia di stato NOC che in alcune regioni è consorziata con l’ENI ( anche a Mellitah e Zawia (da dove partono molti gommoni della disperazione). In quei territori i poteri dei trafficanti sono rimasti senza alcun contrasto, e le vite delle persone che sono nelle loro mani valgono sempre meno. Che ruolo hanno in questa fase le attività di monitoraggio nelle quali sono coinvolte autorità “libiche” ?

Non è facile replicare con argomenti strettamente giuridici alle argomentazioni “politiche” che rilancia adesso il Procuratore di Catania.  Che appena tre mesi fa basava le sue accuse contro Open Arms sulla mancata richiesta di ingresso a Malta, ed adesso sembra prendere atto della certa e confermata indisponibilità delle autorità di La Valletta a prendere in carico i migranti soccorsi in acque internazionali a nord della Libia. Quando la Procura di Catania adotterà altri provedimenti ci sarà tempo e luogo per valutarli nel merito e nella forma, alla luce delle indagini difensive che si potranno comunque svolgere. Per adeso restiamo sul piano di una riflessione “politica” sulle dichiarazioni “politiche” del procuratore di Catania, nel pieno rispetto delle attività di indagine ancora in corso.

La recente creazione, potremmo dire “estorta”, all’IMO di una zona SAR libica, con tanto di Centrale di coordinamento (MRCC) come in tutte le nazioni del mondo, non appare seria e credibile, a fronte dela frammentazione territoriale del paese e della pluralità di forze che ne controllano le coste, alcune delle quali finite nel mirino della Corte Penale internazionale. La Libia che firmò l’adesione all’Imo nel 2005 non ha continuità geografica e politica con la Libia che oggi si vuole indicare come paese responsabile delle atività di ricerca e soccoorso al di fuori delle acque territoriali, in alto mare.  Il valore e la forza cogente delle Convenzioni internazionali di diritto del mare ed a garanzia dei diritti fondamentali della persona, da interpretare congiuntamente, come adesso ribadisce la giurisprudenza, rimangono intatte. Le responsabilità di ricerca e soccorso non possono essere abbandonate a paesi che non sono in grado di offrire porti sicuri, come, nel caso della Libia, ha accertato anche il Tribunale di Ragusa. Le operazioni di soccorso si devono concludere in un porto sicuro (Place of safety- POS) nel più breve tempo possibile, senza dilazioni che tradiscono un chiaro scopo dissuasivo. Appare disumano trattenere a bordo delle navi di soccorso per giorni e giorni persone che sono scampate a tragedie terribili ed hanno visto morire i loro compagni di viaggio, come nel caso dei migranti soccorsi dalla nave americana Trenton, che soltanto oggi, dopo vari trasbordi, toccheranno terra a Pozzallo. Le navi non possono essere considerate luoghi sicuri di sbarco.

L’idea di aprire Hotspot o centri di raccolta in Libia, magari sotto la supervisione formale di qualche ONG embedded o dell’UNHCR, si scontra con la dinamica dei conflitti ancora in corso in Libia, dove manca una autorità statale generalmente riconosciuta.  Ben difficilmente potrà andare oltre l’ennesimo foraggiamento delle millizie locali, oppure si rimarrà ancora una volta a livello di annuncio-richiesta per incontrare il favore dell’opinione pubblica oggi prevalente. In un anno l’UNHCR è riuscito a tirare fuori dai centri di detenzione appena un migliaio di persone, e sono circa ventimila quelli riportati nei paesi di origine, evacuati dai lager libici, con le operazioni di rimpatrio assistito finanziate dall’OIM. E gli altri 700.000 immigrati presenti in Libia, molti potenziali richiedenti asilo, cosa dovranno attendere ancora ? In Libia si muore tutti i giorni, a mare, una volta sola, come dicono i migranti.

Le esperienze delle attività SAR in acque internazionali, a nord della costa libica, di questi giorni, raccontate dai migranti e confermate da rilievi documentali e rapporti ufficiali, confermano il tentativo di disimpegno della Guardia costiera italiana e della sua Centrale di coordinamento (IMRCC). Una ritirata imposta questa volta dal ministero dell’interno italiano, che potrebbe portare ad altre terribili stragi come quella dell’11 ottobre 2013, sulla quale è ancora aperto un processo penale davanti al Tribunale di Roma. Ma intanto sono tante le vittime che si vanno accumulando in fondo al mare in questo primo semestre dell’anno, caratterizzato da un forte calo degli arrivi, ma da una crescita esponenziale, un raddoppio in termini percentuali, delle vittime, morti e soprattutto dispersi abbandonati in mare, di cui nessuno saprà mai nulla.Nonostante il numero assoluto delle morti in mare sia diminuito, rispetto al numero degli arrivi la percentuale dei dispersi è in aumento: dal 2,5% del 2017 al 4% del 2018. Cosa è successo davvero in occasione degli ultimi interventi di soccorso delegati alla Guardia costiera libica, sembrerebbe sotto gli occhi di mezzi militari italiani, ormai che le ONG sono state allontanate ?

L’allontanamento delle navi umanitarie, prodotto anche da una dilazione eccessiva dei tempi necessari per la indicazione di un porto sicuro di sbarco da parte del ministero dell’interno, dopo il caso Aquarius, subito rimosso dai media, sta diradando la capacità di risposta agli eventi di soccorso, eventi che oggi vengono segnalati quasi esclusivamente da mezzi aerei delle missioni europee (Eunavfor Med) o italiane ( Mare Sicuro). Eventi di soccorso segnalati dalla Marina italiana anche alla Guardia costiera libica, che però non appare particolarmente tempestiva negli interventi. Come non appare tempestivo il ministero dell’interno italiano nella indicazione di un porto sicuro di sbarco.

La visita di Salvini in Libia sembra preludere, in continuità con la politica di Minniti, ad un ulteriore inasprimento della collaborazione con la Guardia costiera libica, e in genere con le autorità di Tripoli, proprio come evocato anche di recente dalla Procura di Catania, che si è cimentata anche in considerazioni di politica estera al fine di attribuire intenti collusivi alle ONG. Del resto il momento è favorevole per una criminalizzazione della solidarietà e per una esternalizzazione delle attività di contrasto dell’immigrazione cd. “illegale”. Poi, dove vanno a finire le persone intrappolate in Libia, o respinte a mare dai mezzi della Guardia costiera di Tripoli, sembra non importi proprio a nessuno.

Non è certo Minniti che può farsi oggi sostentitore di un rinnovato patto tra ONG e istituzioni, dopo che ha creato tutte le premesse per gli attacchi che hanno deteriorato quasi completamente un assetto di navi solidali, coordinate dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana, che salvava migliaia di vite, altrimenti abbandonate dagli stati europei. Se occorre modificare le regole del Regolamento Dublino, ed occorre, la trattativa non si può portare avanti sulla pelle di qualche migliaio di naufraghi ai quali si rifiuta un porto di sbarco sicuro.

Non sono le organizzazioni non governative a favorire i trafficanti, ma quei governi che concludono accordi con milizie e comandanti di assetti navali che non garantiscono il rispetto dei diritti della persona e che trattano come pacchi, uomini, donne e bambini, da piazzare al migliore offerente. Perr debellare veramente le organzzazioni criminali occorrono controlli di legalità nei paesi di transito, politiche di ingresso legale controllato, e un pieno riconoscimento del diritto di chiedere protezione ( anche umanitaria), una volta che si raggiunga il territorio italiano. Senza altri passi nella direzione di una esternalizzazione dello stesso diritto di chiedere asilo in paesi di transito come ll Niger.

Se alternative ai trafficanti vanno offerte ai migranti intrappolati in Libia, e vanno offerte, queste possono venire soltanto dalla riconciliazione delle parti in lotta, nella pacificazione tra le milizie in conflitto, nella ricostituzione dell’unità statale della Libia, paese dove prima i migranti andavano per lavorare, e non soltanto per passare in Europa. Questa pacificazione non verrà certo dal foraggiamento delle contrapposte millizie, con una divisione ricorrente dell’Unione Europea. Francia ed Italia hanno da tempo dimostrato di essere portatori di aspirazioni di controllo sull’approvigionamento delle risorse e sulle forniture militari, che hanno alimentato un conflitto interno che oggi sembra davvero insanabile, con tutte le conseguenze che ne derivano sul terreno.

Alla magistratura rimane, o dovrebbe rimanere, al di là delle esternazioni mediatiche, il compito di accertare responsabilità penali individuali, e di orientare il legislatore verso l’adozione di misure e di accordi che effettivamente riescano a contrastare i trafficanti, a partire dai territori di origine e transito, senza ricadere sui corpi delle vittime. Le proposte emerse in un recente convegno a Catania, proposte di natura politica e di riforma legislativa, come la introduzione di un reato di “concorso esterno” nell’associazione per delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani, al di là della necessità dell’intervento legislativo per dare efficacia ad una previsione della Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale, richiederebbero una bonifica completa delle relazioni tra l’autorità giudiziaria italiana e le autorità giudiziarie e di polizia dei paesi di transito, nei quali purtroppo continuano a dominare regimi militari o governi ampiamente corrotti ad ogni livello. Le maglie di discrezionalità dell’autorità giudiziaria non possono estendersi in ogni caso oltre la portata del principio di legalità che domina la materia del diritto penale e che è coperto da una rigorosa garanzia costituzionale.

Ancora una volta non si può ritenere che problemi di grande rilevanza per i rapporti internazionali e per la democrazia interna di un paese, come tutte le questioni che riguarano l’immigrazione e l’asilo, possano essere risolti con il ricorso alla leva del diritto penale, un errore già fatto in passato, che oggi rischia di riprodursi di nuovo. I titoli dei giornali non possono costituire i nuovi patiboli sui quali sacrificare i pretesi nemici interni e di fronte ai quali, per acquistare consensi, scaricare la rabbia sociale e l’odio razziale sempre più diffusi.