di Fulvio Vassallo Paleologo
Se una sicura linea di continuità si può tracciare tra l governo Ggentiloni ed il nuovo governo che sta nascendo sulla base di un contratto “privatistico” tra Lega e Movimento Cinque stelle, questa linea può essere individuata nel coinvolgimento di paesi terzi che non rispettano i diritti fondamentali della persona nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare. Una direzione segnata anche dai vertici del Consiglio Europeo di Bruxelles. Una materia nella quale il governo Renzi prima ed il governo Gentiloni dopo, hanno stipulato accordi con paesi in mano a regimi militari, come il Sudan, o in avanzato stato di decomposizione, come la Libia, che oggi molti definiscono come uno stato fallito. Accordi che hanno avuto la loro applicazione con espulsioni colletive, nel caso del Sudan, per adesso sospese dopo una serie di ricorsi alla giustizia internazionale, e di respngimenti delegati alla Guardia costiera libica, che invece si vanno intensificando dopo la eliminazione o l’allontanamento delle ONG che erano impegnate nelle attività di soccorso nelle acque del Mediterraneo Centrale.
E’ sfuggito forse alla maggior parte dell’opinione pubblica, quanto i processi penali siano stati considerati come uno strumento effettivo di contrasto dell’immigrazione irregolare, una sorta di rimedio legale per ridurre il numero delle persone che potevano raggiungere le coste italiane, un mezzo idoneo a colpire ed a debellare le reti di trafficanti che continuano a costituire l’unica concreta possibilità di ingresso in Europa, per le persone che fuggono dai loro paesi non solo perchè perseguitati individualmente, ma come vittime di violenze generalizzate, di una corruzione dilagante e di una povertà tanto estrema da mettere a rischio lo stesso diritto alla vita. Alle persone intrappolate in Libia non si è offerta altra alternativa che affidarsi ai trafficanti, in assenza di ogni via legale di ingresso in Europa. La Libia non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ed anche chi ottiene un riconoscimento da parte dell’UNHCR non ha diritto di soggiorno nè effettive garanzie di sopravvivenza. Lo confermano ancora quest’anno gli ultimi rapporti delle missioni UNSMIL delle Nazioni Unite. Per questi motivi la Libia non può essere ritenuto “un luogo sicuro di sbarco” o un “paese terzo sicuro” con il quale negoziare accordi di respingimento o di riammissione. Chi ha fatto gli accordi con la cd. Guardia costiera libica doveva sapere con ci stava trattando il blocco in mare e la riconduzione a terra di persone che per effetto di quelle intese sarebbero andate incontro ad altri abusi ed estorsioni.
Il netto calo degli arrivi in Italia nell’ultimo anno ( in particolare dal mese di luglio del 2017), confermato ancora quest’anno, mentre aumentano in percentuale le vittime, non appare però riconducibile allo smantellamento delle reti criminali e del sistema della corruzione istituzionale, quanto piuttosto ad accordi che hanno riversato una notevole quantità di denaro su quegli stessi gruppi che fino a ieri controllavano le rotte migratorie. Con un ruolo subalterno delle agenzie delle Nazioni Unite, come l’OIM impegnato nel rimpatriare ( rimpatrio volontario) alcune decine di migliaia di migranti segregati nei centri di detenzione “governativi” sotto il controllo delle milizie fedeli alle autorità di Tripoli, e come l‘UNHCR, che nell’ultimo anno di attività in Libia ha individuato e trasferito verso altri paesi ( principalmente il Niger) alcune centinaia di persone, in totale nel 2017 dovrebbero essere non più di 1500 migranti “particolarmente vulnerabili”.
I processi penali intentati in Italia contro i cd. scafisti si sono conclusi sempre più spesso con lievi condanne o con l’assoluzione degli imputati perchè ritenuti “scafisti per forza“, ma non hanno mai portato alla individuazione ed allo smantellamento delle reti criminali che continuavano comunque a fare partire i migranti ed a farli transitare dalla Libia, snodo ormai di tutte le rotte verso l’Europa.
Nella quasi totalità dei casi è mancata la collaborazione dei paesi di origine e transito, non solo nell’accettare i rimpatri forzati, ma anche nel prestare assistenza alle indagini giudiziarie e nel concedere le rogatorie necessarie per poirtare a compimento i procedimenti penali aperti in Italia. Gli stessi paesi, come il Sudan, che concludevano accordi di collaborazione con le autorità italiane, nell’ambito del cd. Processo di Khartoum, e che pure avevano inviato loro agenti di polizia in Italia per corsi di addestramento ed attività di monitoraggio si rifiutavano di concedere poi l’autorizzazione a deporre a quelle stesse forze di polizia quando venivano richieste le rogatorie internazionali.
Sui mezzi di informazione italiani tuttavia sembrava che quella collaborazione fosse efficace, ed alcuni processi diventavano quasi un simbolo dell’efficacia delle attività di contrasto che le autorità italiane erano capaci di realizzare nei confronti delle reti criminali presenti in Africa. In altri casi si taceva che in Libia, mancava persino una autorità politica ed un sistema giudiziario “nazionale”, e che i signori del traffico entravano direttamente in rapporto con le milizie o ne facevano organicamente parte.
Mentre a Milano la Corte di Assise accertava la gravità degli abusi subiti dai migranti in Libia, segnatamente nel centro di detenzione di Bani Walid, ed in altre analoghe strutture, a Palermo si svolgeva il processo contro un uomo che era stato arrestato nel 2016 in Sudan,a Khartoum, in collaborazione con i servizi segreti inglesi e con le autorità di polizia sudanesi, che veniva ritenuto il capo dei trafficanti che favorivano l’arrivo in Europa di migliaia di giovani eritrei in fuga dal regime dittatoriale di Afewerky.
Durante lo svolgimento del processo, di udienza in udienza, emergeva però come fosse probabile che si trattasse di uno “scambio di persona” e come il vero trafficante fosse ancora a piede libero in Uganda, mentre in Italia per due anni restava in cella una persona che sempre più verosimilmente era un innocente, che magari aveva anche contattato le reti dei trafficanti, ma al solo scopo di fuggire verso la salvezza in Europa. Vedremo adesso se le autorità sudanesi risponderanno alla ennesima di richiesta di assistenza giudiziaria. In ogni caso, gli abusi in Sudan ai danni dei migranti continuano ancora oggi con una vasta corruzione delle forze di polizia.
Siamo in un momento di transizione politica e di grande confusione istituzionale, mentre l’opinione pubblica privilegia categorie valutative semplificate, anche dal punto di vista legale, o in aperta violazione del dettato costituzionale, in nome di un populismo devastante. Di certo i diritti di difesa, come il principio del giusto processo, dovrebbero valere per tutti, e se un innocente fosse veramente sotto processo, la sua vicenda non si potrebbe chiudere con una espulsione. I limiti per la carcerazione preventiva dovrebbero valere per tutti, allo stesso modo come previsto dalla legge, indipendentemente dalla nazionalità degli imputati. Ed anche il diritto di cronaca va salvaguardato senza limitazioni che non siano finalizzate alla tutela della privacy e dei diritti fondamentali delle persone.
Non si può certo attendere che stati governati da regimi militari, come il Sudan, che si avvalgono anche delle peggiori milizie per organizzare le unità antimmigrazione, collaborino effettivamente con le autorità italiane nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità di crimini transnazionali. Analogamente non si vede quale contributo possa venire in questa stessa direzione da autorità di un “paese fallito” come la Libia, che andrebbe riunificato e dotato almeno di un sistema giudiziario nazionale prima di potere essere considerato come un partner delle politiche europee di contrasto dell’immigrazione irregolare.
Possiamo solatnto continuare a svolgere una attività di testimonianza civica, nell’auspicio che gli organi istituzionali italiani, anche in vista dei nuovi indirizzi che potrebbero provenire dall’esecutivo,in particolare dal ministero dell’interno e dal ministero della giustizia, si mantengano nell’ambito del più rigido rispetto del dettato costituzionale. Ci vorranno anni probabhilmente perchè la domanda di verità e giustizia che ancora proviene dai settori della società più vicini alla solidarietà ed all’accoglienza possa ritrovare rappresentanza politica e consenso sociale.
La situazione attuale accresce enormemente la responsabilità della giurisdizione, che non può essere strumento di un disegno politico, di accordi bilaterali o di rapporti internazionali basati sulla differenziazione del valore della persona umana, nei paesi di origine e transito, ma anche in Italia, davanti alla legge. Speriamo che anche nell’accertamento dei fatti e nello svolgimento dei processi prevalga quel senso di responsabilità e quella indipendenza che sarebbero necessari per fugare ogni dubbio di strumentalizzazione.