di Fulvio Vassallo Paleologo
Il 21 febbraio di quest’anno veniva pubblicato un Rapporto delle Nazioni Unite che documentava le gravi violazioni dei diritti umani subite in Libia dai migranti e anche da alcune popolazioni libiche, malgrado i tentativi della comunità internazionale e del governo di Tripoli di giungere ad una riunificazione del paese e ad un controllo effettivo delle numerose milizie armate che se ne contendono il controllo.
Nel Rapporto si sottolineva come ” UNSMIL/OHCHR found that migrants in Libya facegross human rights violationsand abuses, both in and outside detention.Perpetrators include State officials, armed groups,smugglers, traffickers and other criminal gangs. State institutions remain weak and, in some instances, the authorities were unable or unwilling to ensure effective protection for migrants”.
Il Rapporto metteva bene in evidenza come gli abusi ai danni dei migranti fossero perpetrati non solo nei cd. centri “informali” gestiti direttamente dalle milizie, ma anche nei cd. centri governativi, in alcuni dei quali peraltro si effettuano visite periodiche da parte dell’UNHCR e dell’OIM. In tre di questi centri, in questi mesi dovrebbero essere anche presenti alcune Organizzazioni non governative convenzionate con il ministero degli esteri italiano.
Secondo quanto riferito dal Rapporto ONU pubblicato lo scorso febbraio, ” In 2017, UNSMIL/OHCHR visited nine detention centres managed by the Department for Combating Illegal Migration, in Tripoli, Gharyan, Misrata and Surman, and observed inhuman conditions. Detainees were often crammed into hangars with appalling sanitary conditions, little space to lie down, and no or extremely limited access to light, ventilation or appropriate hygiene facilities. Most were denied outdoor time and were not provided with any means to communicate with their families. UNSMIL/OHCHR also received numerous and consistent reports of torture, including beatings, electric shocks and sexual violence, and of forced labour of detainees. At 31 October, nearly 20,000 migrants weredetained in facilities run by the Department f or Combating Illegal Migration in western Libya”.
Il Rapporto conferma come altri abusi ai danni dei migranti siano commessi da esponenti della cd. “Guardia costiera libica”, la stessa alla quale il governo italiano dallo scorso anno delega responsabilità di coordinamento delle attività SAR, di ricerca e salvataggio in acque internazionali, a seguito del Memorandum d’intesa firmato con il governo Serraj il 2 febbraio 2017 e delle successive intese operative, sfociate poi in un Codice di condotta, privo di alcun valore normativo, ma imposto alle ONG a partire dal mese di agosto dello stesso anno. Secondo i libici anche le ONG dovrebbero operare alle loro dipendenze in operazioni congiunte che si dovrebbero concludere con lo sbarco dei migranti a Tripoli. Ma i migranti sbarcati nelle ultime settimane di quest’anno confermano la prosecuzione dei trattamenti inumani o degradanti ai loro danni dopo lo sbarco.

UNSMIL/OHCHR documented the use of firearms, physical violence and threatening language by coastguard officials during search-and-rescue operations in Libyan and
international waters. For instance, on 10 May, a Libyan Coast Guard patrol boat intervenedin an ongoing rescue operation of some 500 people in a wooden vessel run by the Germannon-governmental organization Sea-Watch, some 20 nautical miles from Libyan shores. According to testimonies by the rescue crew and survivors, members of the Coast Guard pointed their firearms at the migrants, threatened them, and rammed into their wooden boattwice. Survivors were taken to centres run by the Department for Combating Illegal Migration, where some were subjected to torture or ill-treatment. In a similar incident, on 6 November, some 28 nautical miles from Libyan shores, members of the Libyan Coast Guard reportedly beat migrants with a rope as they boarded, threatened Sea-Watch rescuers and instructed them to leave the location. The Coast Guard reportedly engaged in reckless behaviour during search-and-rescue operations and d
id not provide life jackets, further endangering the lives of people in distress at sea.

Non esiste una “gara” tra le ONG e la cd. guardia costiera libica per raggiungere prima i migranti in situazione di
distress in alto mare. Una situazione che non si può accertare a vista, dall’alto, ma che ricorre sempre nel caso di imbarcazioni sovraccariche e prive di qualsiasi dotazione di sicurezza, specie se a notevole distanza dalla costa. Si tratta dunque di ribadire il rispetto rigoroso delle Convenzioni internazionali che impongono i soccorsi più solleciti,
quando vi sia la mancanza delle condizioni di sicurezza, anche prima che le persone finiscano in mare. Come invece sembra ritenere la Marina militare italiana.

Tanto gli accordi bilaterali ed i Memorandum d’intesa, quanto le intese operative che ne conseguono, come i codici di condotta per le attività SAR imposti (soltanto) alle ONG, che su base puramente fattuale si cerca di legittimare, possono risultare nulli se violano norme cogenti di diritto sovranazionale. La Libia non è un “paese terzo sicuro”. Se si corre un rischio di violazioni del diritto alla vita o della dignità umana, come del divieto di subire trattamenti inumani o degradanti, non sono consentite valutazioni ponderate o bilanciamento di opposti interessi. Si tratta di valori assoluti che possono essere difesi davanti ai giudici interni, ed in difetto di tutela, davanti alle giurisdizioni internazionali. La Libia ha aderito alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati il 22 dicembre 2008. La Convenzione era già stata ratificata dall’ Italia nel 1974 ed è quindi applicabile nei rapporti tra i due stati, sempre che si ammetta la continuità politica tra la Libia “unitaria” di Gheddafi e l’attuale governo di Tripoli.

In base all’art. 53 della Convenzione di Vienna, titolato “Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)”, è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della stessa Convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. E’ bene ricordare che per Trattato internazionale si intende qualunque “accordo internazionale concluso per iscritto tra Stati e regolato dal diritto internazionale, che sia costituito da un solo strumento o da due o più strumenti connessi, qualunque ne sia la particolare denominazione”. Pur nella incertezza insita nella individuazione del cd. jus cogens, si può ritenere che costituiscano norme internazionali inderogabili dagli stati quelle che si ritrovano nella Carta dei diritti delle Nazioni Unite, tra gli altri il diritto alla vita ed alla dignità umana, oltre che il principio di leale collaborazione tra stati. In stretta connessione con i diritti fondamentali affermati dalla Carta delle Nazioni Unite, ritroviamo le Convenzioni e le prescrizioni normative e regolamentari che mirano alla tutela dei rifugiati (Convenzione di Ginevra del 1951) e a salvaguardia della vita umana in mare ( Convenzione UNCLOS del 1982). Altre disposizioni inderogabili sono poi contenute, a livello regionale, nella Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, firmata a Roma nel 1950, e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Carta delle Nazioni Unite richiama in premessa i diritti fondamentali dell’uomo, la dignità e il valore della persona umana. Tra le norme vincolanti che non possono essere derogate su base di accordi bilaterali si possono dunque individuare l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, gli articoli 2 e 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, di portata assoluta secondo la stessa giurisprudenza della CEDU, e le norme cogenti di diritto internazionale del mare (UNCLOS, SAR, SOLAS e SALVAGE) con riferimento agli obblighi imperativi degli stati di soccorrere con immediatezza e di predisporre i mezzi e il personale necessario per gli interventi di ricerca e salvataggio in mare. Tutti obblighi finalizzati alla salvaguardia della vita e della dignità umana. La Libia, ammesso che di ( unica) Libia si possa parlare ancora oggi, risulta firmataria soltanto della Convenzione UNCLOS e non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. l’UNHCR è tuttavia operativo in Libia, con personale locale, e con l’OIM, è presente in alcuni punti di sbarco, effettuando visite occasionali nei principali centri di detenzione, gestiti dal governo di Tripoli tramite la sua Unità speciale anti-immigrazione. l’Italia, invece, risulta firmataria, ed vi ha dato esecuzione, di tutte le Convenzioni internazionali appena citate e dei loro numerosi emendamenti. Si deve osservare al riguardo che se
l’obbligo di assicurare il rispetto delle norme internazionali grava sullo Stato nel suo complesso, l’obbligo di interpretazione conforme si impone a tutti gli organi dello Stato, di carattere legislativo, esecutivo e giudiziario (centrali e locali), ivi inclusi i giudici nazionali di ogni ordine e grado. Dalla violazione dei principi di diritto internazionale che salvaguardano la vita, la dignità e l’integrità fisica delle persone, commesse dai singoli stati o da loro rappresentanti, può inoltre derivare anche una precisa responsabilità individuale di chi ha concluso le intese o vi ha dato esecuzione,
una responsabilità tanto personale, che dello stato italiano, che si può fare valere davanti alla Corte penale internazionale. I tentativi di trasformare in reato le attività di ricerca e soccorso in alto mare svolto dagli operatori umanitari sta consentendo di fare emergere la dimensione autentica dei rapporti di collaborazione tra le autorità italiane, il governo di Tripoli e la guardia costiera “libica”.
Dai processi attualmente in corso contro le ONG, ritenute colpevoli di gravi reati legati all’agevolazione dell’ingresso di “clandestini”, risulta un chiaro ruolo di coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali affidato alla Guardia costiera “libica” da parte delle autorità italiane, e segnatamente della
Marina militare- Operazione Nauras- presente da mesi nel porto di Abu Sittah a Tripoli. Lo stesso porto dal quale vengono fatte partire le
motovedette tripoline, allertate dalle autorità italiane, che vanno ad intercettare in acque internazionali, spesso con ore di ritardo rispetto al primo allarme, le imbarcazioni cariche di migranti. Imbarcazioni che per il loro carico e per l’assenza delle più elementari dotazioni di sicurezza, secondo il Diritto internazionale sono da considerare immediatamente in una situazione di
distress, e dunque che
andrebbero soccorse con immediatezza, senza ordini di
stand by ai mezzi più vicini, come se si dovesse attendere l’arrivo dei libici.
E’ da questi ordini, e non certo dalla presenza delle ONG, che stanno derivando rischi sempre più gravi per la vita dei migranti intercettati in acque internazionali, spesso dopo segnalazioni provenienti da mezzi aerei in dotazione della Marina italiana.
Mentre rimane sempre più sfumata, e coperta dalle cortine fumogene del segreto militare, la presenza delle missioni europee Eunavfor Med e Themis di Frontex, sembra che la valenza degli
accordi e delle intese operative intercorse tra l’Italia e le autorità di Tripoli possa prevalere sul rispetto di consolidati principi di diritto internazionale, dettato dalle Convenzioni di diritto del mare ( UNCLOS, SAR, SOLAS, SAVAGE) e per quanto concerne il diritto umanitario dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
Risulta aggirata la
condanna ricevuta dall’Italia nel 2012 sul caso Hirsi Jamaa da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. In quella occasione i giudici di Strasburgo avevano affermato che gli accordi tra stati, come quelli consentiti in base alla Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale ( e Protocolli allegati), non potevano giustificare alcuna violazioni dei principi affermati dalla Convenzione EDU, o nei suoi Protocolli allegati, come il divieto di trattamenti inumani o degradanti (art.3) e il divieto di respingimenti collettivi ( Articolo 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU).
Gli stati e le organizzazioni internazionali hanno certamente il diritto di controllare le frontiere e di contrastare fenomeni illeciti come il traffico di esseri umani, la tratta di persone e il terrorismo internazionale. Rimane da chiedersi, anche in base allo statuto delle Nazioni Unite ed alle Convenzioni internazionali, se non anche in base alle Costituzioni nazionali, quanto questa potestà di controllo, che si è voluta adesso “esternalizzare” nei paesi terzi di transito, possa comprimere, o sopprimere del tutto,
diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita ed alla dignità umana, che spettano a persone che sono vittime e non certo complici di quei reati. Questione che si estende adesso anche ai
tentativi di criminalizzazione nei confronti di quegli operatori umanitari e di quelle organizzazioni non governative che prestano loro assistenza, in mare ed in terra.
Si pone dunque la questione della validità degli accordi tra stati e paesi terzi che non sono in grado di garantire il rispetto dei diritti umani, e nel caso del governo di riunificazione nazionale di Tripoli, neppure il pieno controllo delle acque territoriali e una efficiente organizzazione di ricerca e salvataggio. Sono queste le ragioni per le quali manca ancora il riconoscimento internazionale di una zona SAR libica. Sono già abbastanza eloquenti le immagini distribuite in rete sulle dotazioni di soccorso delle
motovedette libiche che intercettano migranti in acque internazionali a distanze sempre più elevate dalla costa, senza neppure disporre di salvagenti ed altri mezzi di galleggiamento idenei a garantire una effettiva salvaguardia della vita umana in mare. Come sono acclarate, anche in base al rapporto ONU che si citava in precedenza, le condizioni deplorevoli nelle quali sono trattenute le persone che vengono riportate a terra, malgrado la presenza di operatori dell’
UNHCR e dell’OIM in alcuni “
point of disembarkation”.
Quanto contribuisce la Marina italiana alle attività di intercettazione dei libici ?Al di là della sanzionabilità delle singole operazioni di blocco in mare, di sospensione delle attività di ricerca e soccorso già affidate alle ONG, attraverso ordini di
stand by, e dunque dell’intera catena di comando che presiede al coordinamento delle attività SAR, si deve porre la
questione della invalidità del Memorandum di intesa siglato tra Italia e governo di Tripoli il 2 febbraio 2017 per contrasto con norme di diritto internazionale cogente nella parte in cui prevede la possibilità di collaborare con autorità statali o parastatali
che non garantiscono il rispetto della vita, della dignità e dei diritti fondamentali delle persone affidate alla loro giurisdizione. Esistono già diverse
iniziative tendenti a fare dichiarare la nullità di questo accordo, e dei conseguenti protocolli operativi che ne sono derivati, a partire dal
Codice di condotta ideato lo scorso anno dal Ministero dell’interno italiano, e poi imposto alle ONG operative in attività di ricerca e salvataggio. Lo stesso Codice di condotta, peraltro, fa salve le disposizioni gerarchicamente superiori, del Diritto internazionale o del Diritto europeo cogente, come i
Regolamenti europei che disciplinano le attività di ricerca e soccorso delle operazioni gestite dall’agenzia Frontex ( in particolare occorre ricordare il Regolamento n. 656 del 2014).
Se le Convenzioni di diritto del mare prevedono accordi tra paesi confinati, quanto alle zone SAR di rispettiva competenza, soprattutto al fine di meglio cooordinare le attività di soccorso al fine di una
effettiva salvaguardia della vita umana in mare, non è lecito utilizzare siffatta previsione di accordi bilaterali per trasferire responsabilità di ricerca e salvataggio su paesi o su autorità che non rispettano i diritti fondamentali della persona e che non sono neppure dotati di quelle capacità di intervento in acque internazionali che,
in base ai canoni dell’IMO, riconosciuti anche dalla
Guardia costiera italiana, costituiscono la condizione minima necessaria per il riconoscimento di una zona SAR. Lo stesso ragionamento si impone per
Malta che pure ha una vastissima zona SAR nella quale però non effettua interventi di soccorso.Gli accordi bilaterali e le prassi operative dei singoli stati non possono modificare i criteri di valutazione dei requisiti tecnici previsti dall’IMO per il
riconoscimento delle zone SAR o per la valutazione della condizione di “
distress” dei mezzi da soccorrere, allo stesso modo si deve osservare che può assumere il carattere di un respingimento collettivo il trasferimento di una responsabilità di coordinamento SAR ad
autorità che non sono in grado di garantire una giurisdizione effettiva contro gli abusi e dunque un POS (
Place of safety) di sbarco. Una grave violazione dunque della Convenzione di Ginevra ( art. 33) e della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo ( art. 3) oltre che delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che solo la sparizione forzata delle vittime, ottenuta con la segregazione nei centri di detenzione libici, e la complicità degli attori internazionali che vi hanno accesso, hanno impedito di portare all’attenzione dei Tribunali internazionali.
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