di Fulvio Vassallo Paleologo
Durante il semestre di presidenza dell’Unione Europea nel 2014 l’Italia proponeva il cd. Processo di Khartoum, per esternalizzare la lotta contro l’immigrazione “irregolare“. In base a questo accordo i governi africani coinvolti, e tra questi il Sudan, si impegnavano a collaborare con le autorità italiane nelle attività investigative per tracciare i trafficanti e contrastare le reti che permettevano il passaggio dei migranti, attraverso il bacino del lago Chad, in Niger ed in Libia, e poi verso il Mediterraneo.
Nel mese di agosto 2016 l’Italia concludeva con il Sudan un Memorandum d’intesa con il dittatore Bashir, indagato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità. Obiettivo degli accordi era contrastare le partenze dei migranti irregolari,i n realtà profughi in fuga, molti provenienti dall’Eritrea, diretti verso l’Europa, per stabilire una collaborazione di polizia nella caccia ai trafficanti che dal Sudan, in quel periodo, riuscivano a controllare la rotta libica. Un esempio paradigmatico di come si può legittimare una dittatura per tentare di arrestare il movimento dei migranti. Con i risultati che stiamo vedendo oggi, dalla Turchia all’Egitto ed alla Libia.
Nei mesi precedenti alla firma del Memorandum d’intesa, e non certo per una coincidenza occasionale, lo stesso Bashir intensificava l’espulsione ed il rimpatrio forzato di cittadini eritrei fino ad allora residenti in Sudan con regolare permesso di soggiorno o con lo status di rifugiato, in qualche caso con la scomparsa delle persone riportate in Eritrea, e comunque con una successiva detenzione arbitraria e con gravi violenze inflitte a tutti i profughi “restituiti” dal Sudan alla dittatura eritrea. Tra gli altri, alcuni pastori cristiani copti nella lista nera delle autorità eritree venivano restituiti al regime di Afewerky e scomparivano in carcere.
Poco prima del Memorandum d’intesa stipulato dal governo italiano con le autorità sudanesi il 3 agosto del 2016, nello stesso periodo preparatorio dell’intesa ,nel maggio del 2016, si verificavano già importanti effetti sul piano della collaborazione giudiziaria, alla quale partecipavano agenti dei servizi segreti inglesi. Un giovane eritreo, ritenuto capo di una pericolosa banda di trafficanti, veniva arrestato a Khartoum, con il concorso di agenti italiani ed inglesi, e dopo qualche giorno di interrogatori, trasferito in Italia e qui sottoposto a processo a Palermo, dove veniva internato nel carcere di Pagliarelli.
Immediatamente, sulla stampa internazionale si diffondeva la notizia di un clamoroso scambio di persona, forse una manovra di persone vicine al vero trafficante, che sarebbe invece riuscito a fuggire nel frattempo in Uganda, come altri trafficanti che non si trovavano più al sicuro a Khartoum.
Una parte ben determinata dei mezzi di informazione, e la procura di Palermo insistevano tuttavia nel sostenere l’accusa contro il giovane eritreo ritenuto “Mered, il Generale”, il trafficante più importante che operava sulla rotta libica, mentre si cominciavano ad accumulare prove che minavano alle fondamenta l’ipotesi accusatoria formulata carico di un innocente.
Era il periodo nel quale tra la polizia sudanese ed il ministero dell’interno italiano si stringevano legami sempre più forti, nel più totale silenzio della stmpa italiana. Qualche mese dopo, nell’agosto del 2016, la collaborazione con le autorità sudanesi permetteva il rimpatrio forzato collettivo di alcune decine di migranti provenienti dal Sudan, bloccati a Ventimiglia, deportati nell’Hotspot di Taranto, e poi, altri a Torino, infine rimpatriati a Khartoum.
Sono note le conseguenze di quella operazione di rimpatrio collettivo, a seguito della quale alcuni cittadini sudanesi hanno presentato un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, altri si sono rivolti invece ai giudici interni che si devono ancora pronunciare. Dopo quel contestato volo di rimpatrio l’Italia si trovava costretta a sospendere gli altri voli di rimpatrio collettivo già programmati, in attesa di un pronunciamento della Corte di Strasburgo.
La collaborazione giudiziaria con le autorità sudanesi continuava intanto a produrre frutti avvelenati. Proseguiva infatti a Palermo il processo contro il giovane eritreo Mered, ritenuto “il Generale”,capo dei trafficanti che gestivano le vie di fuga degli eritrei e degli altri migranti che riuscivano ad allontanarsi dai loro paesi verso la Libia su rotte sempre più pericolose, e da qui speravano di potere raggiungere l’Europa.
Dopo una prima fase in Tribunale, il processo era trasferito- su richiesta della procura- in Corte di Assise. La sensazione durante le varie udienze, malgrado l’emersione di diverse prove che dimostravano lo scambio di persona, era che l’accusa volesse comunque dimostrare la colpevolezza dell’imputato trasferito dalla nostra polizia di stato dal Sudan in Italia, che si trovava nella gabbia riservata ai detenuti, come se la sua vera identità non fosse rilevante.
Dalle indagini difensive portate avanti dagli avvocati e dai periti della difesa si moltiplicavano le ragioni per ritenere che si trattasse di uno scambio di persona. In questi ultimi giorni è addirttura emerso come il vero trafficante Mered si trovi in Uganda, a piede libero, e che dunque un innocente è stato trattenuto in carcere da quasi due anni, mentre l’impianto probatorio a suo carico risultava sempre più indebolito.
La procura di Palermo, a caccia di ulteriori indizi che suffragassero le sue tesi, è giunta al punto di intercettare le comunicazioni del giornalista che più degli altri colleghi italiani aveva seguito il processo. Dava forse fastidio un giornalista che fin dal principio non aveva creduto nella colpevolezza dell’imputato e ne aveva scritto su importanti testate internazionali. Come se in Italia il diritto di cronaca fosse da mettere sotto controllo, ma soprattutto come se la presunzione di innocenza non esistesse più, come se in certi processi fosse possibile avvalersi di una sorta di presunzione di colpevolezza, come se la carcerazione preventiva potesse avere durata illimitata. E soprattutto come se i giornalisti fossero tanto pericolosi quanto i sospetti imputati di reato. Per fortuna la stampa estera più prestigiosa, come il Wall Street Journal continuava a seguire il caso.
Dalle indagini svolte dalla difesa risultava anche che le attività di ricerca del vero trafficante da parte di autorità di polizia di altri paesi europei sarebbero state rallentate da una scarsa collaborazione della procura di Palermo, che continua a non volere ammettere lo scambio di persona. Come riferisce il Post, la Televisione pubblica svedese (SVT) “sarebbe in possesso di un fascicolo che rivela come un’autorità di polizia europea sia a conoscenza del fatto che il vero trafficante è ancora in libertà e di come non riesca a convincere i pubblici ministeri italiani a emettere un nuovo mandato di cattura”.
Le diverse fasi del processo, seguite e registrate da Radio Radicale, malgrado l’accumularsi delle prove a discarico, dimostrano una crescente insistenza della procura sulla ipotesi accusatoria della colpevolezza dell’imputato presente in aula, mentre l’escussione dei testimoni ha confermato tutti i dubbi sull’identità dell’imputato presente in aula. Che alla fine di ogni udienza viene riportato nel carcere di Pagliarelli.
Colpisce l’atteggiamento della stampa nazionale. Dopo una iniziale enfatizzazione del caso, i più grandi media italiani hanno ridotto la loro attenzione, limitandosi magari a citare la stampa estera,via via che emergevano le prove dello scambio di persona, a differenza dei giornali stranieri che continuavano a seguire il caso con diligenza e professionalità. Sulla stampa locale, dopo una iniziale intensa attività comunicativa della procura, calava un velo di imbarazzo e nessun grande giornale nazionale più ha riferito delle più recenti acquisizioni probatorie che scagionano il giovane eritreo alla sbarra a Palermo. Si potrebbe davvero parlare di censura, non certo di trascuratezza, certo mancanza di indipendenza.
Sembra che si voglia pervenire comunque ad una sentenza di condanna, almeno in primo grado, per legittimare le attività di indagine compiute nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia con il Sudan. sarebbe forse più opportuno ammettere che si è trattato di un errore indotto dalla collaborazione con autorità deviate e non rispettose dei diritti umani, e passare ad una fase di maggiore collaborazione per arrestare finalmente il vero trafficante Mered ancora in libertà in Uganda.
Anche se si tratta di vicende molto diverse, si possono riscontrare analogie con i processi contro le Organizzazioni umanitarie alle quali sono state sequestrate le navi, la Juventa di Jugend Rettet, lo scorso anno ad agosto a Trapani, e la Open Arms, lo scorso marzo a Pozzallo. Dalle argomentazioni delle procure di Catania e di Ragusa, sembra che una condanna serva ad ogni costo, per legittimare i rapporti di collaborazione con le autorità “libiche”, in realtà con il Governo Serraj a Tripoli e con la sedicente Guardia costiera “libica” che vi corrisponde.
In entrambi i casi si cerca di legittimare rapporti di collaborazione con autorità governative che hanno ampiamente dimostrato di non sapere, o di non volere, garantire i diritti umani delle proprie popolazioni e dei migranti in transito sui loro territori. Ma si ha anche la spiacevole sensazione che l’azione penale ed il procedimento giudiziario finiscano per inquadrarsi nella finalità di perseguire una finalità politica e comunicativa che dovrebbe restare estranea alla giurisdizione, così come è prevista nella nostra Carta Costituzionale e nella Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo ( che afferma il principio del giusto processo).
Al di là dell’esito, comunque interlocutorio, delle singole vicende giudiziarie, riteniamo che sia possibile, e necessario, riflettere sulle modalità e sugli obiettivi dell’esercizio dell’azione penale in questi casi. Non si tratta di schierarsi dalla parte del “giustizialismo” o del “garantismo”, che nella più recente esperienza storica sono stati alternativamente utilizzati per legittimare svolte politiche e incidere sulle scelte elettorali. Occorre però valutare le conseguenze di proposte che rischiano di ratificare prassi giudiziarie che incidono pesantemente sui diritti fondamentali della persona. I processi di Palermo, di Trapani, di Catania e di Ragusa saranno un banco di prova dello stato di diritto nel nostro paese.
In settori importanti della magistratura, da anni in prima linea nell’impegno antimafia, che abbiamo sempre difeso contro gli attacchi provenienti dai poteri politici sotto inchiesta, vanno emergendo posizioni che rischiano di produrre pericolose fratture. Proposte che potrebbero accrescere lo scarto già profondo tra la Costituzione formale e la Costituzione materiale. Così abbiamo considerato con preoccupazione il programma politico suggerito dal Pubblico Ministero Di Matteo, che ripercorre linee operative che di fatto stanno per realizzarsi nella prassi giudiziaria quotidiana, prima ancora di essere approvate dal Parlamento. Secondo quanto riferito dalla stampa, al di là dei titoli sensazionalistici, si tratterebbe dei seguenti punti
- “Affievolimento” del sistema processuale accusatorio
- Rafforzamento e moltiplicazione esponenziale del potere di intercettazione telefonica ed ambientale.
- Abolizione di ogni vincolo temporale alle indagini del pm,
- Blocco della prescrizione dal momento della richiesta di rinvio a giudizio.
- Forte innalzamento delle pene edittali per i reati di maggiore allarme sociale.
- Certezza della pena intensa nel senso di eliminazione di ogni misura alternativa alla detenzione.
- Ed ancora, espansione drastica dei procedimenti di prevenzione personali e patrimoniali.
Se questi principi “riformatori” fossero applicati nei processi contro i migranti e contro coloro che li assistono per solidarietà, come sembra emergere da alcune posizioni della pubblica accusa nei processi di cui abbiamo prima parlato, si potrebbe arrivare a soluzioni gravemente inique. Riteniamo che il rapporto tra politica e giustizia non possa capovolgersi a seconda dello status e della nazionalità di coloro che siedono sul banco degli imputati, o delle finalità di politica migratoria del momento, anche per rispettare il fondamentale diritto di non subire discriminazioni. Tutti gli operatori di giustizia, una giustizia amministrata “in nome del popolo italiano”, dovrebbero rispettare rigorosamente i diritti di difesa (art. 24 della Costituzione), la presunzione di innocenza (art. 27 Cost.), ed i limiti alla carcerazione preventiva stabiliti dal Codice di Procedura penale. Senza che l’azione penale assurga a crisma di legittimazione e di garanzia di accordi internazionali o di politiche migratorie.
Dovremo sperimentare adesso gli effetti della riforma Orlando che ha inciso sul grado di appello e che presenta anche aspetti di dubbia costituzionalità. inncidendo sul rapporto tra accusa e difesa. E verifichiamo oggi come le sperimentazioni fatte sui migranti, come l’abolizione del grado di appello per i ricorsi contro i dinieghi delle istanze di protezione internazionali, spianino la strada per correlate riduzioni dei diritti di difesa di tutti, cittadini e stranieri. Si accentua la struttura gerarchica delle procure, la possibilità di utilizzazione delle intercettazioni, la natura politica dei controlli sull’attività dei giudici, e l’autonomia della polizia giudiziaria, sempre più legata all’esecutivo. Si ricava la conferma della attenuazione dei diritti di difesa già riscontrabile nella prassi dei procedimenti giudiziari in corso. Non sorprende che proprio in coincidenza con la campagna politica e giudiziaria contro le ONG si siano moltiplicate le attenzioni dei vertici politici verso i rappresentanti della pubblica accusa che maggiormente hanno saputo interpretare le posizioni di questo o di quell’altro schieramento.
Si è osservato (Persichetti) come ” se vogliamo veramente cambiare le cose dobbiamo sbarazzarci una volta per tutte dei continui richiami alla legalità, rimandare a casa i magistrati che si candidano in politica, disattivare le teorie dell’azione penale che propugnano l’interferenza, ovvero l’uso politico dell’attività giudiziaria, la supplenza giudiziaria della politica, per tornare a interrogare i fondamenti della società attuale, ovvero la legittimità del sistema politico, economico e sociale, perché non tutto ciò che è legale è giusto e non tutto ciò che è giusto è legale.
E’ rimettendo in discussione la legittimità del sistema che si può ripartire. L’ideologia della legalità, come si è ben visto in tutti questi anni, ha avuto soltanto una funzione conservativa. Abbiamo bisogno di interrogativi radicali, di una critica senza remore che rimetta al centro l’autodeterminazione e l’autogoverno, oltre al diritto di resistenza nei conflitti sociali e la legittimità di pratiche che prefigurano livelli più avanzati di democrazia. C’è bisogno di una nuova legittimità che fondi una società nuova non di una legalità che preservi ciò che è vecchio.
In tempi di populismo dilagante, e di sentenze annunciate sulle prime pagine dei giornali, come si è già verificato nel processo Mered, e come si sta pure verificando nei processi contro le ONG “colpevoli” di salvataggio in acque internazionali e di ricerca di un porto sicuro di sbarco, affidiamo al lettore alcuni brani della riflessione di un maestro, Luigi Ferrajoli. Una lettura che invitiamo ad approfondire nella sua interezza. Per aprire, e non certo per chiudere, una fase di verifica dei rapporti tra politica e magistratura, che proseguirà a ridosso delle vicende processuali che abbiamo qui descritto e che continueremo a seguire.