Stefano Galieni
C’era già stato, la notte di Natale del 1996, il naufragio della Johan, al largo di Porto Palo, dove morirono 289 vittime accertate, ma quanto accaduto il 27 marzo del 1997 (Governo Prodi), con l’affondamento della Kater I Rades nel Canale di Otranto, segnò un punto di non ritorno nella costruzione della “fortezza Europa”. Una storia su cui riflettere oggi, per evidenziare come quanto accade da ormai oltre 20 anni non possa essere catalogato sotto la voce “emergenza”. La cronaca è brutale: la motovedetta albanese con a bordo circa 140 persone, soprattutto donne e bambini in fuga dalla guerra civile in corso in Albania, venne speronata da una corvetta militare italiana, la Sibilla, di pattuglia per impedire l’ingresso nelle acque territoriali nostrane. L’imbarcazione albanese, già vecchia e malmessa, affondò rapidamente. 81 i morti recuperati, 34 i sopravvissuti, gli altri ufficialmente dispersi. Il mare era a forza 5. La Sibilla si era avvicinata alla Kater I Rades per intimare, con il megafono, di ritornare in Albania, poi, invece di tenersi, date le condizioni del mare, ad almeno 100 metri dall’imbarcazione, la speronò, difficile capire se intenzionalmente o meno. Fatto sta che solo al comandante della Sibilla fu inflitta una condanna di due anni, a chi guidava la Kater tre anni e mezzo, con buona pace della giustizia. Ovviamente nessuno dei responsabili del governo italiano, in quanto mandante, venne mai perseguito. Il parallelismo con quanto accade in questi mesi sul “fronte libico” è impressionante. L’Albania di allora, governata dal liberista Sali Berisha, era sul baratro provocato dal fallimento delle cosiddette Piramidi Finanziarie e larga parte della popolazione si stava ribellando al presidente, tanto da portare alla dichiarazione dello stato di emergenza.
Il governo italiano (di centro sinistra) e quello albanese si erano accordati per interventi di respingimento e dissuasione degli albanesi in fuga. Così come per l’attuale MoU con la Libia di Serraj, il parlamento non aveva dato l’assenso a tale accordo né erano note le regole di ingaggio dei militari impegnati nelle operazioni. La Lega Nord dell’allora secessionista Bossi non aveva più la presidenza della Camera, ma martellava quotidianamente chiedendo che si cominciasse a “sparare sui profughi”. Lentamente, a “Roma Ladrona” si andava sostituendo il “guai ai clandestini”. Per il naufragio, come per i tanti avvenuti da cinque anni in qua nel Mediterraneo centrale, ci fu un continuo rimpallo di responsabilità. A quei tempi non esistevano ancora agenzie come Frontex e missioni come Eunavfor Med, il processo di costruzione dell’UE non aveva avuto l’accelerazione monetaria e i poteri di Commissione e Consiglio non erano così ampi, quindi tutta la gestione ricadeva sulle autorità italiane. Su spinta dell’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, il governo aveva varato una settimana prima un decreto legge con cui si dichiarava lo stato di emergenza a causa della presenza dei profughi albanesi, e circa 300 di essi, ritenuti “indesiderati”, vennero espulsi in pochi giorni. Lo stesso decreto di emergenza che aveva messo in moto il meccanismo del blocco navale. A questo decreto ne subentrò un altro dal titolo pomposo di “partecipazione italiana alle iniziative internazionali in favore dell’Albania“, convertito in legge a giugno. In mezzo c’era stata la strage ormai ricordata come “del Venerdì Santo”. Come non pensare a quanto prodotto dall’inquilino del Viminale Marco Minniti, appartenente da sempre allo stesso partito del senatore a vita Giorgio Napolitano, che ebbe pochi mesi fa a dichiarare che gli sbarchi stavano “mettendo a rischio la tenuta democratica del paese”, giustificando in tal modo gli accordi con un governo come quello libico, non solo simile, nella sua composizione criminale, all’allora corrispondente albanese, ma ancor meno in grado di controllare direttamente il territorio amministrato, se non ricevendo finanziamenti per milizie alleate. Oggi gli sbarchi dalla Libia sono diminuiti, per ragioni ignobili che spesso abbiamo denunciato da questo spazio, ma occorre un altro terrore, e quindi vai con la minaccia jahdista, che ha tutto il sapore di quei meccanismi ad orologeria che tanto funzionano nella politica italiana. E se vent’anni fa c’era l’ex presidente della Camera Irene Pivetti a chiedere di “buttare a mare gli albanesi“, oggi il nuovo leader leghista Salvini non è da meno, quando urla “sospendiamo tutti gli sbarchi“!
Tornando al marzo 1997, il decreto legge in questione consentì di erigere un muro che partiva dai porti di Durazzo e di Valona e arrivava alle coste ioniche per interdire la navigazione, senza aver ricevuto alcun mandato parlamentare. Allora nella maggioranza si opposero Rifondazione Comunista e i Verdi (oggi non più presenti in parlamento, ma all’epoca nella maggioranza). L’Unchr dichiarò nettamente la propria ostilità verso le scelte politiche italiane che violavano il principio di non refoulement (erano tempi in cui ancora aveva valore concreto). In risposta all’atteggiamento dell’Onu, il governo italiano negò addirittura l’esistenza di un blocco navale. Oggi quel pudore è caduto, e tanto le forze di destra quanto quelle di un sedicente centro sinistra rivendicano con orgoglio le politiche attuate, che si traducono in veri e propri crimini. Con la differenza che in Albania si rimandavano cittadini albanesi che certamente in alcuni casi subivano azioni repressive dal governo per emigrazione clandestina, ma non rischiavano quanto rischia oggi chi viene imprigionato in Libia provenendo dai paesi dell’Africa Sub Sahariana. C’è maggiore spregiudicatezza nelle azioni, avendo ormai sdoganato e reso “danni collaterali” le stragi nel mare che oggi neanche fanno più notizia.
L’affondamento della Kater I Rades di fatto aprì la strada ad un approccio più marcatamente repressivo dell’immigrazione in Italia. La legge “Turco Napolitano” con i suoi centri i detenzione sarebbe stata emanata un anno dopo, ma già nelle scelte politiche e militari si stavano sperimentando quei rimpatri forzati che marchieranno per sempre la storia dell’odierna UE. Un approccio che di fatto occhieggiava alla destra che con coerenza, giunta nel 2001 al governo, inasprì il testo promulgato tre anni prima con emendamenti e tagli il cui effetto è ancora legge dello Stato: la “Bossi Fini”. Parallelamente si aprì la strada agli accordi bilaterali che prevedevano in cambio di aiuti economici la disponibilità degli Stati contraenti a riprendersi i propri fuggitivi. Dei tanti cittadini albanesi scappati dopo il crollo del regime comunista, una parte consistente è rimasta in Italia e la pericolosità sociale con cui erano generalmente marchiati è pressoché scomparsa, sostituita dal “pericolo africano o musulmano”. Una parte ha preso anche la cittadinanza italiana, mentre imolti/e dei nati in questo paese sono tornati in Albania e lavorano in stretto rapporto con l’Italia, dall’import-export, al turismo, ai tanti call center di aziende internazionali soprattutto legate alla telefonia. E tante sono le aziende italiane che hanno preferito trasferirsi nel “Paese delle Aquile”, dove il costo del lavoro è più basso, le tasse anche, e soprattutto non si è soggetti ai vincoli UE. C’è da aspettarsi che questa circolarità si espanda sempre di più e raggiunga in maniera significativa anche paesi da cui oggi unicamente si fugge. La frase oscena “aiutiamoli a casa loro” perderà inevitabilmente sempre più senso perché vincerà, nonostante la dilagante xenofobia, la logica secondo cui “la mia casa è dove sono”. Ma ricordare oggi quella nave è necessario. Nel gennaio 2012 – il relitto era già stato da tempo recuperato – uno scultore greco decise di farlo divenire un’opera d’arte dedicata a chi continua ancora a viaggiare. È ad Otranto, ed è servito anche, almeno simbolicamente, a chiedere perdono al popolo albanese. Scuse che non sono mai giunte dalle autorità italiane. Vanno menzionate a tal proposito non solo la pochezza dell’allora ministro dell’Interno italiano – primo del vecchio PCI a ricoprire tale carica – ma al pari l’ipocrisia sguaiata di tal Silvio Berlusconi che, allora all’opposizione, ebbe la spudoratezza di andare a piangere al porto di Otranto per le vittime: stiamo parlando della stessa persona che in quest’ultima campagna elettorale ha promesso di espellere 600 mila clandestini. A quante finte lacrime ci hanno abituato centro destra e centro sinistra…