di Fulvio Vassallo Paleologo
IN FATTO
Come emerge dalla prima Relazione presentata al Parlamento, il 15 dicembre 2015 l’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia concordava col Ministero dell’interno sulla individuazione del Garante Nazionale per i detenuti e le persone private della libertà personale, quale organismo di monitoraggio dei rimpatri forzati. Il Garante Nazionale italiano, nel realizzare il proprio mandato quale Autorità nazionale sul monitoraggio delle operazioni di rimpatrio forzato ai sensi della Direttiva 115/CE del 2008, effettua monitoraggi su differenti tipologie di operazioni, sia per quanto concerne le modalità organizzative e di trasporto, sia per quanto riguarda il numero complessivo dei cittadini stranieri, oggetto di un provvedimento di rimpatrio, coinvolti in una singola operazione. Il Garante può verificare, anche successivamente al rimpatrio, i provvedimenti di trattenimento e tutta la documentazione riguardante le persone da allontanare o già allontanate con accompagnamento forzato ( generalmente due operatori di polizia per ciascun migrante).
Secondo la Relazione inviata al Parlamento, “dal 2 maggio 2016 il Garante Nazionale riceve, regolarmente e con cadenza quotidiana, dalla Direzione centrale per l’immigrazione e la Polizia di frontiera del Dipartimento della pubblica sicurezza i ‘telegrammi’ relativi alle operazioni di rimpatrio forzato coordinate dalla medesima Direzione che avverranno nei giorni successivi. Le comunicazioni vengono inviate al Garante al fine di metterlo in grado di assolvere al proprio mandato di Autorità nazionale di monitoraggio sui rimpatri forzati. Questa modalità automatica di notifica consente al Garante, in totale indipendenza, di scegliere quali operazioni di rimpatrio sottoporre a monitoraggio. L’informazione che viene trasferita attraverso i ‘telegrammi’ contiene tutti i dati relativi al nome e alla nazionalità del rimpatriando, alla tipologia del provvedimento di espulsione, al luogo di provenienza del soggetto, sia esso un CIE o un Istituto di pena, alle informazioni sul dispositivo di scorta, alle tratte interessate dal vettore, agli orari di partenza e di ritorno. Ciò dovrebbe consentire quindi al Garante Nazionale di effettuare il monitoraggio del rimpatrio o su una sua singola fase oppure sull’intera operazione”. Si osserva tuttavia che in diversi casi il preavviso sulle operazioni di rimpatrio forzato è stato recapitato all’Ufficio del Garante nella immediata vigilia dell’esecuzione dei voli di rimpatrio, e tale circostanza non ha permesso la effettuazione delle attività di monitoraggio.
Una delle più importanti attività di monitoraggio sui rimpatri riguarda i cd. voli charter. Come precisa il Garante, “si tratta di voli dedicati, organizzati dal Servizio immigrazione della Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, laddove ci sia la necessità di rimpatriare un numero ampio di cittadini stranieri appartenenti alla stessa nazionalità. Tali voli sono possibili solo qualora il Paese organizzatore – in questo caso l’Italia – abbia ottenuto l’autorizzazione del Paese terzo interessato e inoltre alla base di tale autorizzazione, vi sia una forma di accordo scritto quale, per esempio, uno specifico «accordo di riammissione» o un «accordo di cooperazione di Polizia». Questi voli sono utilizzati per il rimpatrio di un numero di persone che può arrivare anche a 30 unità. Considerando che il rapporto tra dispositivo di scorta e rimpatriando è di 2 a 1, tali operazioni possono coinvolgere anche 100 – 110 persone tra le quali, obbligatoriamente, un medico e un infermiere messi a disposizione della Direzione centrale di sanità della Polizia di Stato. L’Italia, nonostante abbia siglato accordi di riammissione con diversi paesi extra Unione europea, effettua voli charter di rimpatrio prevalentemente con la Tunisia. Nel corso del 2016 sono stati effettuati 43 voli charter per il rimpatrio di 1.094 cittadini tunisini espulsi, a cui deve aggiungersi il volo di rimpatrio per il Sudan effettuato nell’agosto del 2016 con 40 cittadini sudanesi espulsi” ( per il quale la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha recentemente dichiarato ammissibile un ricorso presentato da quattro dei cittadini sudanesi che erano stati espulsi).
Nel 2011 l’Italia ha concluso con le autorità tunisine un un accordo tecnico sulla cooperazione tra i due Paesi contro l’immigrazione clandestina concernente la riammissione di immigrati irregolari .Il testo dell’accordo non è stato reso pubblico. Secondo un comunicato stampa pubblicato sul sito internet del Ministero dell’Interno italiano il 6 aprile 2011, la Tunisia si impegnava a rafforzare il controllo delle sue frontiere allo scopo di evitare nuove partenze di clandestini, con l’aiuto di mezzi logistici messi a sua disposizione dalle autorità italiane. Inoltre, la Tunisia si impegnava ad accettare il ritorno immediato dei Tunisini giunti irregolarmente in Italia dopo la conclusione dell’accordo. I cittadini tunisini potevano essere rimpatriati attraverso procedure
semplificate, che prevedono la semplice identificazione della persona interessata da parte delle autorità consolari tunisine. Questo accordo è stato successivamente integrato con diversi Memorandum d’intesa, l’ultimo dei quali, aventi sempre ad oggetto la maggiore efficacia delle operazioni di rimpatrio risale al mese di ottobre del 2017. Ancora lo scorso anno una delegazione governativa tunisina visitava il centro Hotspot di Trapani Milo.
In base all’accordo concluso nel 2011, nel corso degli anni, venivano eseguite periodiche operazioni di rimpatrio forzato in Tunisia con voli charter in partenza prevalentemente dall’aeroporto di Palermo, dove si recava il console tunisino per effettuare i riconoscimenti necessari ai fini del rimpatrio, sia pure nelle forme “semplificate”, di fatto con il mero accertamento della nazionalità, previste dagli accordi. Nel caso di rimpatri eseguiti nei confronti di immigrati trattenuti per settimane nel Centro di primo soccorso ed accoglienza di Lampedusa si sollevavano nel tempo diverse eccezioni di natura sostanziale e procedurale. Al di là dei casi nei quali si riusciva ad adire la giustizia italiana, in altri casi le modalità del rimpatrio escludevano la possibilità di un ricorso effettivo davanti al giudice nazionale. Ed in uno di questi casi, già nel 2012, fu possibile presentare un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. La Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, dopo una prima più severa condanna in primo grado, confermava in via definitiva la condanna dell’Italia per trattenimento arbitrario nel centro di primo soccorso ed accoglienza di Lampedusa. Si tratta del caso Khlaifia e altri c. Italia,avente ad oggetto l’illegittimo trattenimento, in vista dell’allontanamento forzato, di stranieri irregolari verificatosi a Lampedusa nel 2011.
La risposta del ministero dell’interno alle preoccupazioni, sollevate già ad ottobre dello scorso anno dal sindaco di Lampedusa, non andava oltre un rafforzamento dei controlli e del dispositivo di sicurezza presente nell’isola, una misura che non ha certo rasserenato il clima dentro e fuori il centro di Contrada Imbriacola. Non è stata assunta nessuna misura per evacuare entro 48-72 ore dal loro arrivo i migranti sbarcati sull’isola trasferendoli in altre strutture sul territorio nazionale, come sarebbe stato imposto dalla legge e dalle Direttive europee. Si sono quindi reiterati quei trattenimenti illegittimi che già nel 2012 avevano dato occasione per il ricorso Khlaifia alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.Trattenimenti in un centro che era stato trasformato in Hotspot alla fine del 2015 e che erano già stati duramente criticati nelle Relazioni della Commissione Diritti Umani del Senato nel 2016 e nel 2017.
La Grande Camera, votando all’unanimità, ha riconosciuto la fondatezza della violazione dell’ art. 5 CEDU, perché coloro che hanno fatto ricorso risultavano essere stati illegalmente privati della libertà personale, prima nel CPSA di Lampedusa e poi sulle navi attraccate a Palermo che, in maniera del tutto arbitraria, sono state adibite alle stesse funzioni dei centri di detenzione. Ma risulta violato anche l’art. 3 CEDU, in relazione all’art. 13 della stessa Convenzione, in quanto ai ricorrenti non è stato garantito l’accesso ad una effettiva procedura di ricorso per poter contestare eventuali (anche se non accertate) violazioni appunto dell’art. 3 ( che sancisce il divieto di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti).
La situazione degli sbarchi in Sicilia, dopo il rallentamento delle partenze dalla Libia, riscontrabile a partire dal mese di luglio 2017, segnava un moderato incremento degli arrivi dalla Tunisia, seppure in termini assoluti molto inferiori rispetto agli arrivi, meglio, ai soccorsi in acque internazionali, di migranti provenienti da altri paesi. Aumentava in modo esponenziale, sia pure in termini percentuali, il numero delle vittime, sulla rotta tunisina come sulla rotta libica.
A gennaio ed a luglio dell’anno scorso il ministro dell’interno Minniti ritornava a Tunisi per perfezionare gli accordi già vigenti in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare e di collaborazione tra la Guardia costiera tunisina la Guardia costiera e la Marina italiana. Non sembra che questi accordi abbiano inciso sul rallentamento delle partenze dalla Tunisia, che sono aumentate, e sono aumentate anche le vittime, come quelle che si sono nascoste all’opinione pubblica italiana, dopo la strage davanti alle coste di Kerkennah, a 40 miglia dal porto di Sfax, dell’8/9 ottobre scorso. Una strage per la quale le famiglie delle vittime hanno duramente protestato, per il possibile coinvolgimento, come responsabili, di mezzi appartenenti alla Guardia Costiera tunisina. Nessuno ha ricordato che negli stessi giorni della strage di ottobre stava partendo una esercitazione congiunta italo-tunisina di contrasto dell’immigrazione irregolare via mare. Le navi italiane, sicuramente presenti in quei giorni nelle acque del Canale di Sicilia antistanti la costa tunisina, hanno avuto un ruolo ?
Nel sito del Garante, nel mese di novembre dello scorso anno veniva pubblicato il Rapporto di monitoraggio di un rimpatrio in Tunisia effettuato il 13 luglio 2017. Nel rapporto, pur riscontrando il buon livello di collaborazione della polizia italiana, si rilevano gravi criticità, “che per quanto risulta non sono state ancora ad oggi eliminate. Il monitor ha avuto accesso a tutti i luoghi interessati dalle operazioni monitorate (verifiche di sicurezza, audizioni da parte delle Autorità consolari ecc.) nell’aeroporto di Palermo, nonché alla documentazione resa disponibile. Infine ha potuto assistere alla consegna dei cittadini tunisini alle autorità locali”. “Quest’ultima operazione, così come di consueto, ha avuto luogo a bordo del velivolo. Il Garante, in accordo con quanto ritenuto anche da altri organismi indipendenti di monitoraggio quali il CPT e come già esposto in precedenti rapporti (pubblicati sul sito del Garante nazionale nella sezione rapporti), considera che per una migliore valutazione dell’effettività delle garanzie da assicurare alle persone riconsegnate alle autorità locali, sia necessario che le operazioni di consegna avvengano al di fuori dell’aeromobile in uffici a terra e che sia consentito, a chi effettua il monitoraggio, di avere informazioni anche dalle autorità locali che assumono la responsabilità delle persone consegnate circa le destinazioni previste per esse”.
Continua la relazione del Garante, “tra i cittadini tunisini sottoposti alla procedura di rimpatrio forzato va segnalato [M. Z.] minore straniero non accompagnato sottoposto alla verifica di accertamento dell’età. In base a quanto riferito al monitor il Sig. [M.Z.] si era infatti dichiarato minorenne nel corso di una precedente audizione con le Autorità consolari lo scorso 7 luglio ed era stato ritenuto necessario verificare l’età riferita. In esito all’accertamento compiuto, l’interessato era stato riconosciuto maggiorenne e pertanto inserito negli elenchi delle persone da rimpatriare. Come unico documento riferibile alla verifica compiuta al Garante nazionale è stato fornito un referto sullo studio osseo dell’età effettuato il 7 luglio 2017 presso una struttura sanitaria pubblica di Caltanissetta. Sul caso in questione il Garante nazionale ritiene opportuno acquisire maggiori informazioni. Si rileva infatti che le recenti modifiche normative hanno disciplinato il procedimento di accertamento dell’età anagrafica introducendo una serie di garanzie a tutela di chi vi sia sottoposto. In particolare, la legge 7 aprile 2017 n. 47 prevede che gli accertamenti socio-sanitari volti all’accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati siano disposti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni (art. 19 bis decreto legislativo 18 agosto 2015, n.142 come dalla legge 7 aprile 2017 n. 47)”. E’ noto, altresì, come il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 2016 n.234 recante “Regolamento concernente la definizione dei meccanismi per la determinazione dell’età dei minori stranieri non accompagnati vittime di tratta” abbia introdotto il criterio di invasività progressiva e l’approccio multidisciplinare nelle procedure di accertamento sanitario dell’età. Preso atto dei tempi serrati con cui sono state realizzate le verifiche nei confronti di [M.Z.], il Garante nazionale è interessato ad avere ragguagli sulle modalità con cui è stata garantita l’attuazione della normativa vigente in tema di identificazione dei minori stranieri non accompagnati nel caso specifico”.
Da questo ultimo rilievo emerge anche come le autorità italiane di pubblica sicurezza non applichino la presunzione di minore età nel superiore interesse del minore, affermata dalla Convenzione di New York del 1989 e dalle Direttive europee, e stabiliscano ancora l’età dei presunti minori sulla base di criteri non corrispondenti alla normativa vigente. In questo caso di monitoraggio non risultano tuttavia rilievi del Garante relativi al trattamento giuridico dei cittadini tunisini ritenuti maggiorenni alla fase pre-rimpatrio, con particolare riferimento al trattenimento amministrativo che era stato loro applicato in una struttura Hotspot ed i provvedimenti amministrativi di allontanamento forzato di cui risultavano destinatari. Non si ha peraltro notizia, in questo come in molti altri casi di monitoraggio, delle risposte fornite dal Ministero dell’interno ai rilievi del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale.
Come risulta dalla Relazione del Garante nazionale, il 26 e il 27 novembre 2017, lo stesso Garante “ha poi monitorato un’operazione di rimpatrio forzato organizzata dalla Direzione centrale dell’immigrazione della Polizia di Stato verso la Tunisia. I 39 cittadini tunisini rimpatriati provenivano dai Centri per il rimpatrio di Bari e di Caltanissetta. Per la prima volta il Garante ha anche seguito il trasferimento in autobus di un gruppo di rimpatriandi provenienti dal nuovo centro per il rimpatrio di Bari diretti a Roma-Fiumicino, trasferimento avvenuto nella notte tra domenica 26 e lunedì 27 novembre 2017. Tutti i cittadini tunisini colpiti da provvedimento di rimpatrio sono giunti all’aeroporto di Palermo nella mattinata del 27 novembre per le audizioni consolari al termine delle quali sono stati accompagnati dalla scorta della polizia a bordo di un charter con destinazione finale Hammamet dove sono stati consegnati alle autorità locali”.
Nel mese di dicembre del 2017 una rivolta di migranti tunisini che avrebbero dovuto essere rimpatriati entro poche ore rendeva inagibile il CIE ( oggi definito CPR, Centro per i rimpatri) di Caltanissetta-Pian del Lago. Da allora in Sicilia non esistono più centri di detenzione amministrativa operativi. Si ricorreva dunque agli Hotspot di Lampedusa e Trapani per applicare, in assenza di qualsiasi provvedimento amministrativo, la detenzione amministrativa a cittadini tunisini che si tentava di rimpatriare con voli charter. Ma anche a Trapani, centro che fino ad allora aveva funzionato nella massima tranquillità, si cominciavano a ripetere proteste e rivolte. Fino alla rivolta più grave sfociata in un tentativo di fuga, il 10 febbraio scorso.
Secondo la stessa Relazione, il 18 dicembre 2017, “il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha monitorato un’altra operazione di rimpatrio di trenta cittadini tunisini, trattenuti negli hotspot di Lampedusa e di Trapani.Il volo charter di rimpatrio, organizzato dalla Direzione centrale dell’immigrazione del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, partito da Roma, ha fatto tappa negli aeroporti di Lampedusa e di Palermo. I rimpatriandi sono stati presi in consegna dal dispositivo di scorta della Polizia di Stato, formato da 80 persone, tra uomini e donne. Il monitor del Garante Nazionale, formato da tre componenti dello staff e da un esperto, ha assistito a tutte le fasi dell’operazione: dalla notifica dei provvedimenti di rimpatrio, ai controlli di sicurezza, alle audizioni con la rappresentante del Consolato tunisino per l’emissione dei lasciapassare presso lo scalo aereo palermitano. Successivamente l’aeromobile è ripartito da Palermo verso Hammamet, dove i cittadini tunisini respinti sono stati presi in consegna dalle locali autorità tunisine. Il volo ha fatto infine ritorno a Roma”.
“Durante l’operazione non si sono verificati incidenti, sebbene l’area dell’aeroporto di Palermo dove si sono svolte la gran parte delle procedure relative al volo di rimpatrio presenti ancora gravi deficienze strutturali. Il Garante Nazionale le segnalerà dettagliatamente nel rapporto di monitoraggio che sarà inviato nelle prossime settimane ai vertici del Dipartimento della P.S.”
Nulla veniva rilevato, per quanto risulta, in ordine alla legittimità del trattenimento amministrativo e del successivo allontanamento forzato verso la Tunisia. Si confermava in questo modo la percezione che l’attività di monitoraggio del Garante risultava più orientata al controllo delle modalità di esecuzione dei voli di rimpatrio, ed al rispetto dei diritti fondamentali in questa fase, che alla verifica dei presupposti legali degli stessi allontanamenti forzati.
Nei mesi di dicembre e gennaio la situazione nel centro Hotspot ubicato a Lampedusa ( Contrada Imbriacola) diventava sempre più tesa, con numerose manifestazioni di protesta, a seguito del protrarsi del trattenimento di cittadini tunisini giunti irregolarmente sulle coste dell’isola, e bloccati anche per settimane in attesa di un possibile rimpatrio con accompagnamento forzato. Di fatto, l’isola di Lampedusa veniva trasformata in un gigantesco Hotspot. I tunisini in fuga dall’Hotspot di Contrada Imbriacola si nascondevano nelle case e tentavano di utilizzare il traghetto per Porto Empedocle per abbandonare l’isola. In tutta l’isola si svolgevano operazioni e retate, di fatto una caccia all’uomo permanente.
Nello stesso periodo, il 5 gennaio scorso, un giovane tunisino si è suicidato impiccandosi in una casa dell’isola di Lampedusa dopo essersi allontanato dal centro Hotspot di Contrada Imbriacola.
Il 20 gennaio 2018 il Garante delle persone detenute o private della libertà personale aveva da tempo programmato una nuova visita all’Hotspot di Lampedusa per verificare in che modo le autorità locali e nazionali hanno ritenuto di affrontare le criticità in passato più volte segnalate. “Il recente suicidio di un ospite della struttura e poi i disordini verificatisi nelle ultime ore rendono ancora più opportuno un sopralluogo del Garante nazionale sull’isola”. Nella mattinata di mercoledì 24 gennaio, alle ore 10.00, presso l’Ufficio del Garante regionale siciliano. il Garante nazionale ha poi incontrato la stampa sugli esiti della visita nell’Hotspot di Lampedusa e fare il punto della situazione sulle strutture di privazione della libertà dei migranti irregolari presenti in Italia. Ma da queste attività di informazione non sono arrivate denunce specifiche sulla condizione dei migranti tunisini trattenuti illegittimamente per settimane nell’isola di Lampedusa. E nello stesso periodo anche il centro Hotspot di Trapani Milo cominciava ad essere utilizzato come un centro di detenzione amministrativa.
A seguito di numerose azioni di protesta, anche da parte di associazioni e legali, nel mese di febbraio veniva infine consentita anche nell’Hotspot di Lampedusa la presentazione di una domanda di asilo, possibilità negata in precedenza, anche per la mancanza dei modelli C 3, non disponibili nei locali delle autorità di polizia presenti all’interno di quella struttura, nella quale sono distaccati anche numerosi funzionari dell’Agenzia europea Frontex, oggi definita Guardia di frontiera e costiera europea.
Queste domande tuttavia venivano esaminate con procedura “accelerata” e dopo pochi giorni i richiedenti ricevevano un diniego ed erano quindi esposti al rischio di rimpatrio forzato, malgrado la tempestiva proposizione degli strumenti di ricorso da parte del difensore nominato. Nonostante le varie denunce e le attività ispettive del Garante nazionale, e malgrado il chiaro disposto della sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Khlaifia, si ha la chiara percezione che i comportamenti per i quali l’Italia ha già ricevuto una condanna a livello europeo, in ordine al trattenimento amministrativo prolungato senza basi legali, continuano ad essere reiterati.
IN DIRITTO
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 115 del 16 dicembre 2008 (nota anche come “direttiva rimpatri”) prevede, all’articolo 3, che il rimpatrio nei confronti dello straniero il cui soggiorno sia irregolare possa
avvenire «forzatamente», attraverso una procedura di «allontanamento» consistente nel «trasporto fisico [dello straniero] fuori dallo Stato membro». Ciò deve comunque avvenire «nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell’uomo» (articolo 1). Inoltre, all’articolo 5 la direttiva precisa che nelle decisioni di rimpatrio «gli Stati membri tengono nella debita considerazione: a) l’interesse superiore del
bambino; b) la vita familiare; c) le condizioni di salute del cittadino di un paese terzo interessato; e rispettano il principio di non refoulement».
In questo quadro, qualora non sia possibile procedere al rimpatrio in forma volontaria, l’articolo 8
della direttiva prevede l’allontanamento del cittadino straniero irregolare, ovvero l’adozione di «tutte
le misure necessarie» anche, in ultima istanza, quelle coercitive (paragrafo 4) qualora vi sia da parte
del soggetto da rimpatriare una resistenza all’esecuzione della decisione. Tali misure, da considerarsi
comunque« di ultima istanza», sono «proporzionate e non eccedono un uso ragionevole della forza»
(ibidem). Lo stesso comma prevede che «le misure coercitive sono attuate conformemente a quanto
previsto dalla legislazione nazionale in osservanza dei diritti fondamentali e nel debito rispetto della
dignità e dell’integrità fisica del cittadino».
La potenziale coercizione che segue alla decisione di rimpatrio di un cittadino straniero il cui soggiorno
sia irregolare si estende alla possibilità del trattenimento ai fini dell’allontanamento di cui al capo
IV della direttiva (artt. 15 e segg.), laddove è previsto che, qualora non possano essere efficacemente
applicate altre misure «sufficienti ma meno coercitive», la persona da rimpatriare possa essere trattenuta
(cioè privata della libertà personale) «soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento»
quando sussiste il rischio di fuga o quando tale persona evita od ostacola la preparazione del
rimpatrio o dell’allontanamento. I destinatari di una procedura di rimpatrio forzato, per esigenze connesse
alla riuscita della procedura medesima, possono essere trattenuti ai sensi degli artt.15-17 della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 (art. 14 del decreto legislativo 286/1998).
Attualmente, in base alla normativa vigente, l’unica forma di restrizione della libertà personale disciplinata dalla legge per i migranti irregolari è il trattenimento in uno dei Centri di identificazione ed espulsione. Al loro interno possono essere ospitati stranieri trattenuti in forza dell’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n.286 in vista del rimpatrio e, possibilmente in appositi spazi, i richiedenti asilo che si trovino nelle condizioni di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 18 agosto 2015 n. 142. Come richiama anche la Relazione al Parlamento presentata lo scorso anno dal Garante per le persone private della libertà personale, “presupposti, disciplina e finalità di queste due fattispecie di trattenimento sono radicalmente diverse mentre entrambe, trattandosi di misure incidenti sulla libertà personale, vengono adottate nell’alveo delle garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione. Al di fuori del trattenimento in un Centro di identificazione e espulsione nelle ipotesi sopraindicate, la normativa italiana non prevede altre forme di detenzione amministrativa applicabili nei confronti dei migranti irregolari. La permanenza negli Hotspot, non configurandosi come trattenimento, non gode delle tutele giuridiche previste dalla legge per i casi di privazione della libertà personale e deve pertanto sottostare a precisi limiti e garanzie, necessariamente rispettosi del quadro normativo vigente e del diritto alla libertà sancito nell’articolo 5 della CEDU”.
Il decreto legislativo 142 del 2015 ha introdotto il nuovo articolo 28 bis che riguarda la procedura accelerata di esame delle richieste di protezione internazionale, modificando il precedente decreto legislativo 25 del 2008
«Art. 28-bis (Procedure accelerate). – 1. Nel caso previsto dall’articolo 28, comma 1, lettera c), appena ricevuta la domanda, la questura provvede immediatamente alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione. La decisione e’ adottata entro i successivi due giorni. 2. I termini di cui al comma 1, sono raddoppiati quando: a) la domanda e’ manifestamente infondata in quanto il richiedente ha sollevato esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251; b) la domanda e’ reiterata ai sensi dell’articolo 29, comma 1, lettera b); c) quando il richiedente presenta la domanda, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera ovvero dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento. 3. I termini di cui ai commi 1 e 2 possono essere superati ove necessario per assicurare un esame adeguato e completo della domanda, fatti salvi i termini massimi previsti dall’articolo 27, commi 3 e 3-bis. Nei casi di cui al comma 1, i termini di cui all’articolo 27, commi 3 e 3-bis, sono ridotti ad un terzo.»
Questa modifica legislativa ha enormemente ampliato la discrezionalità amministrativa delle forze di polizia e delle commissioni territoriali nell’esame delle richieste di protezione. A questa maggiore discrezionalità amministrativa è seguito un diffuso contenzioso, e stanno arrivando adesso le prime sentenze che delimitano i casi nei quali le autorità amministrative possono fare ricorso alla “procedura accelerata”.
Si richiama a tale riguardo un’importante decisione della Corte di Appello di Napoli sulla “procedura accelerata” prevista dall’art. 28 bis dlgs 25/08.
Quanto alla procedura accelerata, la Corte ha affermato che è applicata nei soli casi previsti dalla norma che così prevede “appena ricevuta la domanda, la questura provvede immediatamente alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione” e “la decisione è adottata entro i successivi due giorni”, salvo il raddoppio dei termini nei casi indicati nel secondo comma, come quando “a) la domanda è manifestamente infondata in quanto il richiedente ha sollevato esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del dlgs 251/07”.
Inoltre, la Corte ha stabilito che “la valutazione di manifesta infondatezza della domanda, in base alla stessa prospettazione del richiedente, è un prius logico rispetto all’adozione della “procedura accelerata” – così definita dal titolo dell’art. 28 bis citato – con conseguente operatività del termine dimezzato di impugnazione di cui all’art. 19 co.3 citato; non è invece una valutazione postuma contenuta nel provvedimento conclusivo della procedura, tanto più se questo sia intervenuto a definizione della procedura ordinaria e non di quella accelerata, che ovviamente non può essere recuperata a posteriori, e che là dove venisse applicata la procedura accelerata, l’interessato dovrebbe avere preventiva informazione, a garanzia del diritto di difesa“. Con queste motivazioni l’appello è stato accolto, annullando l’ordinanza di primo grado, accogliendolo anche nel merito riconoscendo la protezione umanitaria al ricorrente, un migrante proveniente dal Mali.
LE VIOLAZIONI COMMESSE DA PARTE DELLE AUTORITA’ ITALIANE
1.Le violazioni commesse dalle autorità italiane nelle procedure di rimpatrio indiscriminato e di trattenimento prolungato di cittadini tunisini appaiono evidenti alla luce di quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Khlaifia del 2016.
“Alla luce della situazione legale in Italia e delle considerazioni sopra esposte, la Corte considera che le persone trattenute nel CSPA, formalmente considerato come un luogo di accoglienza e non di trattenimento, non potevano beneficiare delle garanzie previste in caso di trattenimento in un CIE, per il quale è necessaria una decisione amministrativa sottoposta al controllo del giudice di pace. Il Governo non ha affermato che, per quanto riguarda i ricorrenti, una tale decisione era stata adottata e, nel suo decreto del 1° giugno 2012, il GIP di Palermo ha esposto che la direzione della polizia di Agrigento si era limitata a registrare la presenza dei migranti al CSPA senza adottare provvedimenti che disponessero il loro trattenimento e che lo stesso valeva per quanto riguardava il trattenimento dei migranti a bordo delle navi (paragrafi 25-26 supra). Ne consegue che i ricorrenti non solo sono stati privati della libertà in assenza di base giuridica chiara ed accessibile, ma che hanno anche potuto beneficiare delle garanzie fondamentali dell’habeas corpus, enunciate, ad esempio, nell’articolo 13 della Costituzione italiana (paragrafo 32 supra). Ai sensi di questa disposizione, qualsiasi restrizione della libertà personale deve fondarsi su un atto motivato dell’autorità giudiziaria, e le misure provvisorie adottate, in casi eccezionali di necessità e urgenza, dall’autorità di pubblica sicurezza, devono essere convalidate dall’autorità giudiziaria entro un termine di 48 ore. Poiché nessun provvedimento,
giudiziario o amministrativo, giustificava il loro trattenimento, i ricorrenti sono stati privati di queste importanti garanzie.
Gli elementi sopra enunciati inducono la Corte a ritenere che le disposizioni applicabili in materia di trattenimento degli stranieri in situazione irregolare manchino di precisione. Questa ambiguità legislativa
ha dato luogo a numerose situazioni di privazione della libertà de facto, in quanto il trattenimento in un CSPA sfugge al controllo dell’autorità giudiziaria, il che, anche nell’ambito di una crisi migratoria, non può conciliarsi con lo scopo dell’articolo 5 della Convenzione: assicurare che nessuno sia privato della sua libertà in maniera arbitraria (si veda, tra molte altre, Saadi, sopra citata, § 66).
Le considerazioni sopra esposte bastano alla Corte per concludere che la privazione della libertà dei ricorrenti non soddisfaceva il principio generale della certezza del diritto e contrastava con lo scopo di proteggere l’individuo dall’arbitrarietà. Pertanto tale privazione della libertà non può essere considerata «regolare» ai sensi dell’articolo 5 § 1 della Convenzione. In conclusione, vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione nel caso di specie”.
La Corte di Strasburgo ha ricordato in più occasioni che “l’articolo 5 sancisce un diritto fondamentale, la protezione dell’individuo da qualsiasi lesione arbitraria dello Stato al suo diritto alla libertà. I commi da a) a f) dell’articolo 5 § 1 contengono un elenco esaustivo dei motivi per i quali una persona può essere privata della
sua libertà; tale misura non è regolare se non rientra in uno dei casi previsti.
Inoltre, soltanto una rigorosa interpretazione quadra con lo scopo di tale disposizione: assicurare che nessuno venga arbitrariamente privato della sua libertà (si vedano, tra molte altre, Giulia Manzoni c. Italia, 1° luglio 1997, §25, Recueil 1997-IV, e Velinov c. l’ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia, n. 16880/08, § 49, 19 settembre 2013”.
Secondo la Corte di Strasburgo,”la privazione della libertà deve essere anche «regolare». In materia di «regolarità» di una detenzione, ivi compresa l’osservazione delle «vie legali», la Convenzione rinvia essenzialmente alla legislazione nazionale e sancisce l’obbligo di osservarne sia le norme di merito che di procedura, ma in più esige la conformità di qualsiasi privazione della libertà allo scopo dell’articolo 5: proteggere l’individuo dall’arbitrarietà (Herczegfalvy c. Austria, 24 settembre 1992, § 63, serie A n. 244; Stanev, sopra citata, §143; Del Río Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 125, CEDU 2013; e L.M. c.
Slovenia, n. 32863/05, § 121, 12 giugno 2014). Nell’esigere che ogni privazione della libertà sia effettuata «secondo le vie legali», l’articolo 5 § 1 impone in primo luogo che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno.”
Va peraltro ricordata, a suggello della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, la importante sentenza della Corte Costituzionale n.105 del 2011, con riferimento a quelli che allora venivano definiti come centri di permanenza temporanea ed assistenza ( CPTA), secondo la quale, “si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale.
Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di
trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto”.
2.Con riferimento ai migranti tunisini sottoposti a procedure di rimpatrio forzato nei casi in cui NON abbiano presentato una domanda di protezione internazionale, si profilano possibili violazioni delle garanzie accordate ai rimpatriandi dalla Direttiva europea 2008/115/CE e della correlata normativa interna di attuazione.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha statuito che ogni straniero ha il diritto di esprimere, prima dell’adozione di una decisione relativa al suo rimpatrio, il proprio punto di vista sulla regolarità del suo soggiorno (si veda, in particolare, Khaled Boudjlida c. Prefetto dei Pirenei Atlantici, causa C-249/13, sentenza dell’11 dicembre 2014, punti 28-35). Risulta dalla giurisprudenza della CGUE che, nonostante l’assenza,
nella «direttiva rimpatri», di disposizioni espresse che prevedano il rispetto del diritto di essere sentiti, questo diritto si applica in quanto principio fondamentale del diritto dell’Unione (si vedano, in particolare, gli articoli
41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; sentenze M.G. e N.R c. Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie, C-383/13 PPU, 10 settembre 2013, punto 32, e Sophie Mukarubega c. Préfet de police e Préfet de la Seine-Saint-Denis, C-166/13, sentenza 5 novembre 2014, punti 42-45).
La CGUE ha chiarito che il diritto di essere sentiti: a) garantisce a chiunque la possibilità di far conoscere, utilmente ed efficacemente, il suo punto di vista durante il procedimento amministrativo e prima dell’adozione
di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi (sentenze Khaled Boudjlida, sopra citata, punto 36, e Sophie Mukarubega, sopra citata, punto 46); e b) ha lo scopo di mettere l’autorità competente in grado di tener conto di tutti gli elementi pertinenti, prestando tutta l’attenzione necessaria alle osservazioni sottoposte dalla persona interessata e motivando la sua decisione in modo circostanziato (sentenza Khaled Boudjlida, sopra citata, punti 37 e 38)
3. Si prospettano infine possibili violazioni della normativa dettata dal decreto legislativo 142 del 2015 e successive modifiche, in quanto alcune delle persone che sono state respinte o espulse in Tunisia avevano presentato una richiesta di protezione internazionale, o si trovavano ancora nei termini per impugnare una decisione negativa di rigetto. Non si può affermare che tutti i migranti provenienti dalla Tunisia possano essere qualificati come “migranti economici”, e che per loro sarebbero da escludere a priori gravi conseguenze in caso di rimpatrio forzato. La situazione in Tunisia è ancora caratterizzata da una grave instabilità e da violazioni da parte delle forze di polizia dei diritti umani fondamentali. Non vi sono garanzie effettive rispetto all’operato delle forze di polizia, o al di là delle cd. assicurazioni diplomatiche, che ai migranti consegnati dalla polizia italiana alla polizia tunisina non vengano applicati trattamenti inumani o degradanti, allo scopo di accertarne la provenienza, la partecipazione ad iniziative politiche di protesta, o di conoscere le persone che hanno facilitato il loro viaggio. L’attuale situazione di tensione in Tunisia impone una grande cautela nell’adozione di decisioni di rimpatrio, ed i diritti di difesa non possono essere annullati dalla rapidità delle procedure di allontanamento forzato. La Tunisia appare agli osservatori internazionali alla vigilia di una svolta autoritaria.
Si rinvia al riguardo ad una importante Ordinanza del Tribunale di Lecce che riconosce a un cittadino tunisino la protezione sussidiaria ex art. 14 lett. b. d.lgs. 251/2007. L’Ordinanza è rinvenibile nel sito di Meltingpot.
“Nel caso di specie il Giudice ha considerato la storia del ricorrente credibile e ha valutato che per la sua specifica situazione personale, in caso di rimpatrio, possa esserci il “concreto rischio di subire atti di tortura o altri trattamenti inumani o degradanti“. In Tunisia, dopo gli attentati terroristici, vi è stata una stretta repressiva che ha limitato i diritti fondamentali e sono emersi episodi di tortura e altri maltrattamenti di detenuti, soprattutto durante le fasi dell’interrogatorio nei giorni immediatamente successivi all’arresto, come riportato nel rapporto Amnesty 2016″.
Secondo una sentenza del Tribunale di Milano del 21 novembre 2016 “e’ accordata la protezione umanitaria al cittadino tunisino, cui risulta provato lo stato di vulnerabilità rilevante ai sensi di legge. Dall’esame della documentazione sanitaria acquisita nel corso del procedimento è infatti emerso che il ricorrente versa in condizioni di salute precarie, derivanti da una pregressa trombosi venosa profonda, che ha determinato la necessità di sottoporlo a una terapia cronica con anticoagulanti orali ancora in corso nell’attualità. Ebbene, le condizioni di salute del ricorrente verrebbero negativamente influenzate da una interruzione della terapia e da un eventuale rientro nel Paese di origine, che, seppure non caratterizzato da una situazione di attuale conflitto armato, nemmeno può ritenersi certamente in grado di garantire una prosecuzione delle cure (così mettendo seriamente a rischio la salute del ricorrente)”.
Sono quindi molteplici le ragioni per le quali un cittadino tunisino sottoposto ad una procedura di rimpatrio forzato ha diritto all’esercizio effettivo del diritto di difesa prima dell’esecuzione della misura di allontanamento.
Prima dell’esecuzione dell’espulsione, o del respingimento, occorre dunque che il richiedente asilo abbia potuto esperire i mezzi di difesa accordati dal vigente ordinamento. L ‘art. 39 della direttiva 2005/85 e il principio di tutela giurisdizionale effettiva devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, in forza della quale non può essere proposto un ricorso autonomo avverso la decisione dell’autorità nazionale competente di esaminare una domanda di asilo seguendo una procedura accelerata, qualora i motivi che hanno indotto detta autorità a verificare la fondatezza di tale domanda seguendo una procedura siffatta, possano essere effettivamente sottoposti ad un controllo giurisdizionale nell’ambito del ricorso esperibile contro decisione finale, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare. Come osserva Lucia Antonazzi, “una normativa nazionale che in materia di asilo non prevede un ricorso autonomo contro domande respinte con procedura accelerata, non viola né il principio di effettività della tutela giurisdizionale, né il diritto ad un mezzo di impugnazione efficace, se un controllo giurisdizionale è previsto contro la decisione di rigetto finale. Ma aggiunge la Corte di Giustizia che “non sarebbe, infatti, compatibile con il diritto dell’Unione la circostanza che una normativa nazionale come quella risultante dall’art. 20, n. 5, della legge 2006 ( norma del Lussemburgo) potesse essere interpretata nel senso che i motivi che hanno indotto l’autorità amministrativa competente ad esaminare la domanda di asilo con procedura accelerata non possano costituire l’oggetto di alcun controllo, ma non spetta alla Corte pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni nazionali.