Quali interessi sul Niger? Una intervista a Giacomo Zandonini

di Stefano Galieni

Quando si parla con il giornalista free lance e attivista Giacomo Zandonini del Niger, gli si illuminano gli occhi. È andato in quel paese africano a più riprese per oltre 3 mesi, lo ha girato non con lo sguardo dell’inviato ma con la curiosità e la genuinità del viaggiatore, di chi usa i taxi collettivi e cerca di entrare nei ritmi di vita delle persone: «Sai mi è capitato che il tassista di turno mi chiedesse a quale tribù appartenevo, come a dire che se sei lì, su quel veicolo, non sei uno straniero». Oggi il Niger sembra essere finito al centro degli interessi italiani ed europei e i rapporti con il governo sono estremamente intensi e continui. Il Niger è uno dei paesi da cui i migranti transitano per raggiungere la Libia e poi tentare il passaggio in Europa ma, come ci racconta anche Zandonini, non è questa la sola ragione che motiva gli impegni UE

«A mio avviso si utilizza la “questione migranti” per interessi geopolitici molto più ampi. Il Niger è diventato un paese importante, una base logistica e un paese sicuro per garantire gli interessi occidentali. L’Italia, alla fine del febbraio scorso ha aperto una propria ambasciata provvisoria a Niamey (la capitale Ndr) ma l’ambasciatore era già stato nominato nel dicembre 2016. Ora l’ambasciata è stata trasferita in altri locali e inaugurata alla presenza del ministro degli esteri Angelino Alfano ma, a quanto mi risulta il personale è ancora limitato. Non ci sono ancora funzionari addetti a occuparsi delle relazioni economiche e non c’è un ufficio consolare. Ma insieme a questo aspetto di forte visibilità si è mosso anche altro. Un percorso iniziato già nel 2010 col ministro dell’interno Roberto Maroni e con i primi interventi dell’Oim che si è accelerato negli ultimi due anni. L’Italia è il principale donatore del fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa dell’UE, di cui il Niger è uno dei primi destinatari. Il nostro governo ha concesso 50 milioni di euro come supporto al budget dello Stato del Niger, un contributo in fase di erogazione, in più tranches, che serve anche per accreditarsi come partner. Non ci sono veri e propri obblighi rispetto all’uso che verrà fatto di questi soldi ma unicamente vincoli. In primis il fatto che questi soldi dovranno essere destinati ai ministeri della Giustizia e degli Interni. Perché si continui a versare le diverse tranche è necessario il soddisfacimento di alcuni indicatori molto ampi che vanno dalla riduzione del numero di migranti che passeranno dal Niger all’aumento di guardie di controllo alle frontiere. Di fatto però il contenuto dei contratti fra UE e Niger e fra Italia e UE non é stato reso pubblico. L’unico documento che ho potuto visionare è il decreto che stanzia il cobtributo, parte del “Fondo Africa” della Farnesina. Fra gli indicatori specifici che rientrano nell’accordo fra UE e Niger c’è l’allargamento e la ristrutturazione di una pista di atterraggio a Dirkou, un avamposto commerciale e militare nel nord del paese. Dirkou è un punto chiave della rotta verso la Libia, la pista di atterraggio attualmente è usata per voli militari e rari voli umanitari ma le ragioni del suo ampliamento vengono spacciate dai funzionari italiani come “umanitarie”. Dovrebbe servire a facilitare l’evacuazione di migranti dalla Libia e a garantire un supporto ai soccorsi nel deserto, realizzati dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni con la Protezione Civile del Niger. A Dirkou si prevede anche di realizzare un nuovo “centro di transito” per migranti. Un altro requisito, per la prosecuzione del finanziamento italiano, è che il Niger adotti una Strategia nazionale per la sicurezza e una Strategia nazionale contro le migrazioni irregolari, documenti effettivamente redatti negli ultimi mesi».

Il governo italiano intanto invia anche militari in Niger…

«Si tratta di azioni che rientrano nella stessa linea. Si entra così in un contesto più complesso che coinvolge non solo il governo nigerino ma anche quello francese. L’Italia contribuirà al “G5 del Sahel (Niger, Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauritania), una coalizione militare sponsorizzata dalla Francia. Per la Francia questo implica anche un ritiro parziale di truppe da alcune basi, pur mantenendo il controllo della regione. Parigi negli anni ha dispiegato migliaia di uomini, avendo anche perdite umane e non riscuotendo grande consenso. Il G5 anche se formalmente è composto solo da Stati africani vivrá grazie al contributo degli Stati europei e di alcuni Paesi del Golfo (in primis l’Arabia Saudita). Per mantenere la coalizione si sta attuando un vero e proprio fundraising a cui l’Italia contribuisce con l’invio di uomini. Ci sarà un aumento della presenza militare nel Sahel anche se, ad oggi, per i soldati italiani non sono state stabilite e definite regole di ingaggio. Nei giorni scorsi c’è stato un viaggio di funzionari italiani per affrontare i dettagli. Io credo che la presenza, in termini numerici, sarà meno significativa di quella ipotizzata. Si ipotizza che si stabilizzino non solo a Niamey ma anche a Madama, dove c’è un distaccamento di centinaia di soldati francesi a 100 km dal confine libico e quella è una zona rischiosa. Si tratta dell’avamposto più a nord non solo per i francesi ma anche per gli stessi nigerini. Il controllo del confine libico infatti è in mano a milizie libiche che vigilano anche in territorio nigerino. Lo scenario si presenta complicato in quelle aree e io sono convinto che effettuare pattugliamenti in quelle zone sarà molto complesso».

Tu sei andato per la prima volta in Niger quasi due anni fa

«Si la prima volta all’inizio del 2016 e poi sono tornato due volte nel 2017 per due mesi, occupandomi soprattutto delle migrazioni. Eppure per i nigerini da tempo le priorità sono altre. Di questo tema si occupa in Niger soprattutto una elite urbana anche se ora si è compreso che la questione attrae fondi e investimenti. Il Niger, un paese estremamente povero, dipende in gran parte dai contributi stranieri e dalla cooperazione internazionale. Ma fuori si associa il Niger alle migrazioni, dimenticando questioni come la malnutrizione, la povertà, l’analfabetismo, i disastri ambientali (alternanza fra siccità, carestie e inondazioni). Con un paese in queste condizioni si sta ripetendo un mantra secondo cui quella che si va realizzando è una partnership fra uguali. Lo dicono Alfano, Macron, Mogherini evidenziando come il Niger sia uno dei paesi più disponibili alla cooperazione, che manifesta grande disponibilità ad accettare le proposte dell’Unione Europea e per far utilizzare a qualcuno i fondi che arriveranno».

Di fatto, per quanto riguarda i percorsi migratori, il Niger è un paese di transito?

«Per questo il tema interessa poco i nigerini, tranne forse nella regione di Agadez dove una parte della ricchezza si è creata grazie al transito delle persone. Agadez è la capitale del nord e l’essere un luogo nodale per il movimento fa si che oggi si mangi grazie alla migrazione, e qualcuno si è anche arricchito. Tieni conto che la regione di Agadez è grande come la Francia ma è abitata complessivamente da non più di 500 mila persone. Il grosso della popolazione (altri 19 milioni) vive nel Sud e nel Sud Ovest del paese dove c’è Niamey. Lì gli immigrati non fanno notizia e quasi non si vedono. Io ho lavorato soprattutto fra Niamey e Agadez, seguendo poi le piste verso la Libia, poi sono andato a sud, verso il confine con la Nigeria, nelle zone in cui si fugge da Boko Haram. Ho capito che, nonostante i problemi che ci sono anche nei paesi vicini, in Niger c’è equilibrio e coesione. Per certi versi il business delle migrazioni ha anche migliorato le relazioni fra governo centrale e il nord che un tempo si sollevava con frequenza».

Dal Niger c’è scarsa emigrazione grazie alla stabilità politica?

«Non proprio. Nei decenni passati ci sono stati 5 colpi di Stato e 2 guerre civili. Continuano poi, soprattutto a sud, gli attacchi di Boko Haram e di altri gruppi jihadisti ma le ragioni per cui non si emigra sono altre. Intanto di ordine economico.  La povertà è fortissima e anche la circolazione di moneta è limitata. Il budget necessario per venire in Europa è troppo alto e pochi se lo possono permettere. Nulla a che vedere insomma con la condizione di molti abitanti degli Stati del Golfo di Guinea. Poi in Niger c’è ancora una urbanizzazione limitata e l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa è scarso. C’è una forte migrazione regionale, ci si muove all’interno del paese alla ricerca di occasioni per sopravvivere. Ai tempi di Gheddafi, molti andavano in Libia per lavorare ma non per venire in Europa e il Colonnello li lasciava entrare avendo molti interessi politici in Niger. Oggi, dopo il Vertice di Abidjan si parla di evacuare dalla Libia i circa 400 mila migranti presenti per impedire loro di cercare di arrivare in Europa. I rimpatri sono già iniziati e di questi circa 10 mila sono nigerini che magari si erano trasferiti da decenni e che lavoravano in Tripolitania. Le migrazioni nell’area comunque restano regionali e circolari. Si parte e si ritorna attraverso confini ancora porosi e poco controllati. Ma c’è anche secondo me un aspetto legato all’immaginario comune e legato alla cultura. La colonizzazione francese, a differenza che in altre parti dell’Africa, è stata quasi esclusivamente militare e molto dura. Non ha conquistato il cuore dei nigerini. Il Niger serviva solo come confine e area di contesa con la dominazione britannica in Sudan. Non è stato colonizzato l’immaginario dei nigerini verso l’Europa, quelli giunti sono soprattutto tuareg, che hanno realizzato attività legate al turismo, soprattutto in Francia, e esponenti dell’opposizione. Lo stesso business dell’emigrazione ha fatto rimanere i nigerini che ora possono contare sul contributo dei migranti che transitano».

Ma esiste anche una parvenza di democrazia in Niger?

«C’è ancora molta strada da fare. Ci sono state le elezioni nel 2016 per dimostrare che c’è un governo liberamente eletto. Peccato che il principale rappresentante dell’opposizione era in carcere e, appena rilasciato, é fuggito all’estero. Secondo la comunità internazionale si è trattato di elezioni libere e trasparenti, ma con un unico candidato alla presidenza estremamente legato alla Francia e alle compagnie che estraggono uranio. La presenza francese è imponente, ma il presidente Mahamadou Issoufou sta riuscendo a compattare il paese garantendo posti alle diverse comunità del paese e ai diversi interessi in ballo. Si è per ora conquistato anche l’appoggio al nord delle comunità Tuareg e Tubu. Sui diritti umani c’è ancora molto da fare e la libertà di stampa è limitata. Ci sono spesso arresti di coloro che denunciano la corruzione e la gestione, troppo subalterna alla Francia, di risorse come l’uranio. Il Partito del Presidente, il PNDS Taraya, parte da una ispirazione di stampo socialista ma al proprio interno ingloba posizioni molto diverse fra loro in cui si trova di tutto. Col risultato che ad esempio per i giornali che non sono allineati al governo è difficile ottenere accesso a fondi e risorse. La questione dei diritti dei migranti ha portato una certa attenzione da parte dell’UE che sta esercitando pressioni. Vedremo ora se ci saranno ricadute pratiche: l’UE è il principale sostenitore dell’Agenzia Nazionale per la Lotta alla Tratta di Persone, che ha aperto centri in ognuna delle 8 regioni del Niger, per raccogliere segnalazioni di violenze, non solo connesse alla tratta. Però è una agenzia che dipende dal ministero della Giustizia, non è indipendente e questo rende complicato per migranti in transito denunciare gli abusi subiti sia dale forze di sicurezza che dagli smugglers. Da un anno si sta sviluppando una forte repressione delle partenze dei migranti verso Libia e Algeria. Un centinaio di autisti dei pickup sono stati arrestati, ma la migrazione prosegue, in modo più sotterraneo. Le autorità hanno definito una sorta di linea invisibile, nella regione di Agadez, che di fatto segna un territorio oltre il quale migrare, e trasportare chi lo fa, diventa reato».

E cosa accade ai migranti che vengono fermati con gli autisti?

«Secondo la legge nigerina chi fa parte della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (15 paesi) ci si può muovere per 90 giorni fra questi paesi senza bisogno di visto. Ma è difficile se non impossibile determinare il giorno d’ingresso. Se si supera il termine si rischiano 15 giorni di detenzione amministrativa (nelle carceri comuni) e poi l’espulsione con accompagnamento al confine. Ma mancano posti e risorse per poter applicare queste norme quindi raramente il meccanismo funziona anche se ora c’è un certo incremento. Teoricamente si dovrebbe, scaduti i 90 giorni, chiedere un permesso di soggiorno al paese in cui si risiede avendo un contratto di lavoro, cosa quasi impossibile. Così ci si ritrova col fatto che anche persone che hanno attività economiche, ad esempio nella ristorazione, in pieno centro di Niamey, risiedano in Niger da decine di anni ma non abbiano un permesso. Le espulsioni sono utilizzate come deterrente per le migrazioni internazionali».

Prima hai toccato la questione della tratta, soprattutto delle ragazze portate in Europa per sfruttamento sessuale. Cosa ne sai dei ghetti in cui le ragazze vengono vendute?

«Ne ho visti, alcuni ad Agadez. Le rotte dei nigeriani sono diverse da quelle di chi arriva da altri paesi dell’Africa Occidentale come Mali e Burkina Faso. In Nigeria si entra da sud, evitando di passare per Niamey e si punta direttamente su Agadez. Nell’ultimo anno, con l’aumento dei controlli si tende a passare lungo il confine fra Niger e Ciad per non essere intercettati. I ghetti di cui ho notizie ad Agadez e Dirkou sono gestiti da cittadini nigeriani che gestiscono, già in Niger la prostituzione nigeriana. Le ragazze iniziano a prostituirsi nei ghetti e sono le stesse che poi vengono impiegati nei locali notturni dove si vende anche alcool. Sono ghetti di cui si servono gli stessi militari di stanza a Dirkou. Alcune vengono vendute e portate in Europa, altre vengono spostate continuamente nel nord del paese o in altri paesi confinanti».

È vero che si stanno militarizzando i punti d’acqua per rendere più difficili i transiti dei migranti?

«Non ho particolari informazioni in proposito. Parto però da un punto, le piste e le stesse basi militari sorgono proprio in vicinanza di oasi e punti d’acqua. Inevitabilmente il pattugliamento lì è più intenso e significativo. Si parla di zone distanti fra loro centinaia di chilometri quindi ne deduco che in realtà la militarizzazione è delle aree in cui ci sono le basi e che sono vicine alle piste di transito, in cui ci sono i pochi punti d’acqua a cui attingere».

Una delle motivazioni addotte all’aumento di presenza militare è quello della minaccia terrorista. Tu cosa ne pensi?

«Il Niger, per la sua conformazione e la sua posizione (sono molto vaste le aree desertiche) è un paese di transito anche per armi e droga gestiti da gruppi armati, anche di ispirazione jihadista, e dirette verso Mali, Algeria, Libia, Ciad, Sudan, Nigeria. Il deserto è difficilmente controllabile anche se Francia e USA stanno da tempo utilizzando droni, oggi armati, che controllano questa fascia di territorio, partendo da basi militari a Agadez e Niamey. I gruppi che detengono questi traffici hanno affiliazioni jihadiste ma spesso si tratta di veri e propri gruppi mafiosi che così alimentano i loro profitti. I nigerini coinvolti in questi giri sono pochi e la loro presenza è sovrastimata. Il traffico di migranti finora non è stato legato a questi percorsi ma se – grazie anche alla repressione internazionale – diventa più sommerso e comincia ad utilizzare le stesse piste degli altri trafficanti può rischiare di venire coinvolto e assorbito da queste mafie. A livello religioso in Niger predomina una tradizione Sufi che non porta alla radicalizzazione politica. È in crescita un movimento salafita nato in Nigeria chiamato Inzala che ad oggi fa solo predicazione ma non rivendicazioni politiche o sociali. Predicano il ritorno agli elementi essenziali dell’Islam. Sono però tendenzialmente contrari alla presenza occidentale e a un governo considerato troppo vicino all’occidente. Il governo per ora non sembra dialoghi molto con questi gruppi. Un argine a discorsi pseudo-jihadisti è costituito da identità forti come quella Tuareg, che viene rivendicata con orgoglio anche dai giovani e che rende più difficile ogni reclutamento. Il jihadismo potrebbe però divenire la risposta alla mancanza di dialogo e all’emarginazione, o una copertura per difendere interessi e traffici che sono al di fuori dalla legge. Si aggiunga che anche all’interno delle diverse comunità presenti nel paese ci sono delicati equilibri interni perennemente messi a rischio, quindi bisognerebbe relazionarsi con estrema intelligenza e capacità inclusiva».

Ti introducevo prima dicendo che quando ne parli traspare un innamoramento del Niger. Da cosa dipende?

«Io sono partito per capire ma mi sono subito reso conto che questo paese ti contagia. In Niger è semplice, normale sentirsi a casa. Basta che ad esempio cerchi, come qualsiasi nigerino, di prendere un taxi collettivo urlando il nome del posto in cui devi andare e attendendo che si fermi il primo che va in quella direzione. Sul taxi dialoghi, ti chiedono – come dicevo prima – “di che tribù sei?”. A me è capitato di essere preso per cinese e quando dicevo “Italia” mi guardavano un po’ allibiti. Tanto è che degli amici mi hanno consigliato di dire che ero “tamasheq” (tuareg), uno dei gruppi linguistici dalla pelle più chiara. E poi rapidamente ti ritrovi a fare numerose amicizie, a comprendere elementi di storia e di cultura che è anche difficile tradurre. Ad esempio il ruolo del deserto. Diverso da come lo viviamo noi in occidente. Il deserto nei secoli è stato vissuto come perenne luogo di passaggio, lo chiami “deserto” ma intanto vi circolano tantissime persone. A me è capitato anche di comprenderne la durezza e la potenza passando una giornata a 50 gradi sotto il sole. In quei contesti entri facilmente nella vita delle persone, con tutte le contraddizioni che questo comporta anche in termini di quello che per noi è il concetto di legalità e che lì non ha senso. Si tratta di un ambiente ostile in cui ti capita di incontrare l’autista che ti dice sereno che se vuoi in 4 giorni ti porta in Etiopia. Non sai se ciò è vero o meno ma ti abitui all’idea che anche i confini tracciati sulle carte geografiche perdono di senso e di valore. I confini semplicemente non interessano, non sono percepiti come ostacoli. Ma dietro tutto questo c’è un patrimonio immenso di storia orale, che in occidente non si conosce e che è fondamentale per capire».