di Fulvio Vassallo Paleologo
Malgrado la diffusione globale di notizie che confermano gli abusi generalizzati che subiscono i migranti in Libia, si assiste in questi ultimi giorni ad una campagna di comunicazione che mostra i migranti bloccati in acque internazionali dalla sedicente guardia costiera “libica”, accolti con modalità non violente allo sbarco a Tripoli. Eppure ci sono decine di testimonianze e diversi rapporti che confermano come la maggior parte delle persone riportate a terra dalla Guardia Costiera, che si definisce libica, ritorna in luoghi nei quali sono esposti ad ogni sorta di abusi. E si tratta anche di donne già violentate ed in stato di gravidanza, di minori non accompagnati già vittime di stupro e di persone torturate comunque al solo scopo di estorcere loro del danaro, per metterle poi nei barconi e lasciarle fuggire verso l’Europa. Da ultimo si è diffusa la notizia che 162 migranti particolarmente “vulnerabili” sarebbe stati trasferiti da un centro di detenzione libico in Italia.
Tutti i migranti sequestrati nei centri di detenzione in Libia sono “vulnerabili”. Sostenere che solo una piccola parte di loro lo e,’ significa legittimare le torture inflitte a tutti gli altri. Molti dei quali soffrono abusi nei lager perche’ bloccati in mare da interventi della sedicente Guardia Costiera libica in sinergia con le autorita’ italiane. Cone nel caso di alcuni dei “vulnerabili” fatti arrivare ieri a Roma con un volo di stato.
Il progetto del governo italiano che ha convenzionato alcune ONG da inviare in tre centri di detenzione libici per alleviare le sofferenze delle persone che vi sono trattenute dovrebbe giustificare, al pari della presenza dell’UNHCR e dell’OIM negli stessi centri, la politica dei respingimenti collettivi delegati alla Guardia costiera libica, ma è di tutta evidenza, e lo sarà ancora di più in futuro, che questi centri rimangono per tutti coloro che vi sono imprigionati solo dei punti di passaggio. Per chi viene rimesso fuori, oltre all’alternativa del rimpatrio “volontario” per un numero minimo di loro, non viene offerta nessuna possibilità di salvezza, né la possibilità di chiedere asilo, anche perché la Libia non aderisce neppure alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati
La circostanza che le violazioni dei diritti fondamentali di singole persone costrette a lasciare il proprio paese siano diventate tanto frequenti e prive di una qualsiasi sanzione giuridica, tale che ne possa impedire la reiterazione, hanno permesso di individuare un “popolo migrante” dotato di una sua specifica connotazione, come è emerso da numerose testimonianze e da rapporti concordanti, come quelli delle Nazioni Unite, di MEDU e di Amnesty International, esaminati nel corso della recente sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei popoli. Questo Tribunale può includere nella propria competenza violazioni sistemiche dei diritti dei popoli che non integrano direttamente o esclusivamente fattispecie penali di diritto positivo. I materiali probatori raccolti, la ricostruzione dei fatti e la qualificazione delle responsabilità possano avere però un riscontro anche nelle sedi giudiziarie ordinarie, fino ai gradi più alti della giurisdizione internazionale, nel rispetto dei principi e delle garanzie dello stato di diritto.
Il diffuso populismo giudiziario, emerso nelle indagini conto le ONG, e la timidezza dei giudici costituzionali nell’affrontare le questioni di compatibilità delle normative e delle prassi in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, come nel caso dei cd. “respingimenti differiti” disposti dai questori in assenza di un effettivo controllo giurisdizionale, costringono a riflettere sulla reale portata dei diritti fondamentali riconosciuti alla persona migrante, ed in qualche modo anche sugli spazi di agibilità democratica che rimane a chi opera quotidianamente nel campo della solidarietà, oggetto di vere e proprie campagne di criminalizzazione.
Quegli stessi governi e quelle autorità che si sono resi responsabili o complici delle diffuse violazioni dei diritti umani, documentate a Palermo, si ammantano oggi di un falso umanitarismo, e si propongono come garanti di diritti, a partire dal diritto alla vita, che le loro politiche contribuiscono a violare quotidianamente. Gli accordi con il Sudan, con la Libia (o quel che ne rimane) e ancora con il Niger e con l’Egitto, consentono procedure operative di rimpatrio o di respingimento sommario che mettono a rischio la vita delle persone in violazione dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra.
Quando sarà pubblicata l’imponente mole di testimonianze e rapporti raccolti durante la sessione del Tribunale permanente dei Popoli di Palermo , si potrà verificare sino in fondo la complicità del governo italiano e degli stati europei nei crimini contro l’umanità commessi in Libia e nelle acque internazionali ai danni dei migranti. Non soltanto una responsabilità per omissione, ma una responsabilità ancora più grave per avere deliberato accordi ed interventi, ed adottato misure operative, nella piena consapevolezza delle conseguenze che si sarebbero scaricate sulle persone bloccate in mare, riportate a terra dalla Guardia costiera libica ed intrappolate a tempo indeterminato nei centri di detenzione libici.
Come emerge dai documenti raccolti durante la sessione di Palermo del TPP, la programmazione o la ratifica da parte delle autorità Europee di iniziative ( Decisioni, Risoluzioni) volte al contrasto dell’immigrazione , anche con riferimento a potenziali richiedenti asilo, tenendo anche conto della autonoma personalità giuridica di agenzie come Frontex, non si pone in rapporto alternativo con le corrispondenti iniziative dei governi degli stati membri che propongono o danno attuazione a quelle iniziative, o le propongono, come è avvenuto nel caso dell’Italia, con il Processo di Khartoum, lanciato nel 2014, e poi con i Migration Compact proposti nel corso del 2016, fino alle intese bilaterali con paesi come l’Egitto (2007), la Nigeria (2011), il Sudan (2016), la Libia ( 2017) o il Niger (2017). Intese che nel tempo sono state integrate da accordi di polizia e da Protocolli operativi.
Dai lavori del Tribunale dei Popoli è emerso come la distinzione in Libia tra centri governativi e centri informali non regga più, e come anche nei centri visitati, magari una volta al mese, da funzionari ONU, anche lì, non appena finiscono le visite, riprendono gli abusi e le richieste estorsive. Come è emerso anche quanto sia precaria ed esposta ai trafficanti la sorte di quella esigua minoranza di persone che ricevono dall’UNHCR la certificazione di rifugiato, ma non godono in Libia di un qualsiasi status legale, considerati sempre come migranti “illegali”.
Solo una minima parte di loro viene rimpatriata attraverso i “rimpatri volontari” gestiti dall’OIM, fallimento definitivo del loro percorso migratorio. Appena qualche decina di migranti particolarmente “vulnerabili” ( donne, anziani, minori) si avvale dei corridoi umanitari gestiti dall’UNHCR ed ha la fortuna di essere trasferita verso paesi sicuri, mentre, magari nelle stesse ore, altre centinaia vengono bloccati dalla Guardia costiera libica, o dalle milizie alleate del governo Serraj, e dunque anche del governo Gentiloni, e rigettate nei campi di detenzione, alla mercé di trafficanti e torturatori. Molti abusi cominciano già a bordo delle motovedette libiche regalate e assistite dalle autorità italiane. Eppure Minniti continua a sprecarsi in elogi delle guardie di frontiera e dei miliziani, magari ex trafficanti, che hanno ridotto considerevolmente il numero delle persone che sono riuscite a fuggire quest’anno dai lager libici. Ma le statistiche non giustificano le violazioni sempre più gravi dei diritti umani ed ella stessa vita delle persone, che tutti i rapporti confermano in drammatico aumento proprio dopo gli accordi del 2 febbraio scorso. Accordi che non sono stati neppure portati all’approvazione del parlamento italiano, pur comportando conseguenze economiche e politiche gravissime.
Le modalità operative adottate dalle autorità libiche relativamente al contrasto della cosiddetta “immigrazione illegale”, come quelle relative all’uso dei mezzi ceduti dal governo italiano a questo fine, rientrano dunque tra i poteri decisionali di un’autorità mista di coordinamento, che condivide al suo interno tutte le responsabilità circa la sorte delle persone che sono oggetto delle attività amministrative e militari o di polizia che vengono realizzate allo stesso fine di combattere l’immigrazione “illegale”. A questo “comitato misto” si aggiunge il “coordinamento operativo istaurato con la Guardia costiera libica con l’invio della nave Tremiti della marina militare italiana nel porto di Tripoli, dove è stabilmente ormeggiata da alcuni mesi. Se questo coordinamento, previsto dai Protocolli operativi richiamati dal Memorandum d’intesa del 2 febbraio scorso, firmato da Gentiloni e Serraj non esiste, dovrà essere il governo italiano a provarlo, ma alla luce dei fatti verificatisi dopo la consegna delle motovedette ai libici, a partire dal mese di maggio del corrente anno, questa prova sembra alquanto ardua, per non dire impossibile.
Anche se non si potrà dire, come nel caso Hirsi, che il governo italiano poteva esercitare una “giurisdizione esclusiva” sui migranti intercettati in acque internazionali e riconsegnati alle autorità libiche nel porto di Tripoli, non sembra escludere una potestà concorrente in ordine alla destinazione del luogo di sbarco dei migranti soccorsi nelle acque internazionali al limite delle acque costiere libiche, con la conseguente responsabilità dello stato italiano per le gravi violazioni dei diritti umani, subite da queste persone, indipendentemente dalla presenza di delegazioni dell’OIM o dell’UNHCR in territorio libico, nei luoghi di sbarco e poi in alcuni centri di trattenimento amministrativo.
La questione della giurisdizione in acque internazionali appare profondamente mutata dopo la recente dichiarazione delle autorità libiche di Tripoli che rinunciano alla istituzione di una zona SAR libica richiesta all’IMO (Organizzazione internazionale marittima) nei mesi successivi alle intese del 2 febbraio scorso tra Italia e Tripoli, ma mai accolta per assenza di requisiti. Oltre ad essere significativa per gli sviluppi futuri, quanto dichiarato adesso dall’IMO e dal governo libico confermano uno scenario che era stato identificato dalle denunce degli operatori umanitari, ma che il governo italiano aveva pervicacemente negato. Non esisteva, non è mai esistita una zona SAR libica, e dunque le autorità italiane hanno concluso accordi ed attuato prassi operative con uno stato che al di là delle proprie acque territoriali (12 miglia dalla costa) non poteva garantire alcun intervento di ricerca e soccorso in conformità alle norme imposte dalle Convenzioni internazionali.
Nello Scavo giovedì 14 dicembre 2017
Migranti. Dopo avere allontanato le Ong, la Libia abbandona i «soccorsi
Le autorità di Tripoli rinunciano a sorvegliare le acque internazionali. Prima ne rivendicavano il pieno controllo
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/tripoli-fa-arretrare-la-marina
E’ ufficiale: la Libia rinuncia ai soccorsi in mare al di fuori delle acque territoriali. Il dietrofront di Tripoli è stato comunicato all’Organizzazione marittima internazionale quattro giorni fa. Dopo mesi di polemiche e intimidazioni a mano armata contro le ong che si spingevano fino al confine delle 12 miglia marittime, Tripoli riconosce di non essere in grado di presidiare la zona di ricerca e soccorso (Sar) rivendicata dallo scorso luglio, in concomitanza alla stretta sulle operazioni delle organizzazioni non governative. Il segretariato dell’Organizzazione marittima in alcuni documenti afferma che la missiva del governo di transizione «ritira la precedente notifica ufficiale», datata 10 luglio 2017.
In quella circostanza Tripoli aveva fatto sapere di essersi riappropriata dell’area Sar stabilita all’epoca di Gheddafi. Tanto che le cartine adoperate dalla missione europea ‘EuNavFor Med (Sophia)’, riportano quale unica zona Sar libica proprio quella risalente all’epoca del dittatore e poi confermata dal governo riconosciuto di Sarraj. L’Organizzazione marittima internazionale è una convenzione autonoma dell’Onu. I paesi membri si impegnano a prevedere e rispettare degli standard riguardanti la navigazione. Del board di direzione fa parte anche un ufficiale della Marina Italiana.
Fino a luglio le operazioni di ricerca e soccorso avvenivano in un’area al limitare delle acque territoriali di Tripoli. «Noi vogliamo mandare un chiaro messaggio a tutti coloro che infrangono la sovranità libica e mancano di rispetto per la Guardia costiera e la Marina », aveva detto il portavoce delle forze navali Ayub Qassem, riferendosi in particolare alle Ong. L’area prima rivendicata e ora oggetto di rinuncia si estende fino a circa 180 chilometri dalla costa, a metà rotta tra Lampedusa e Tripoli e quasi a ridosso delle acque maltesi. Il generale Abdelhakim Buhaliya, comandante della base di Tripoli, dove vive praticamente da asserragliato il presidente Sarraj, aveva tuonato: «Nessuna nave straniera ha diritto di entrare senza espressa richiesta delle autorità libiche».
Una decisione che aveva provocato diversi incidenti, con le navi delle Ong allontanate a colpi di mitra, altre volte sequestrate per ore. In almeno un caso si è sfiorato lo speronamento. A causa della Sar libica, il centro di coordinamento dei soccorsi di Roma – che da alcuni mesi si appoggia ad una struttura congiunta italo-libica presso la nave della Marina italiana ‘Tremiti’ ormeggiata a Tripoli – in diverse occasioni aveva prima inviato le Ong a salvare i migranti, ma poi le aveva fermate in attesa delle motovedette libiche. La rinuncia di Tripoli, a questo punto, lascerà scoperto un ampio tratto di mare che i trafficanti di uomini hanno più volte dimostrato di poter attraversare pressoché indisturbati.
La notizia, ottenuta da Sergio Scandura di RadioRadicale e confermata ad Avvenire da diverse fonti, è destinata a cambiare ancora una volta lo scenario nel Mediterraneo, a pochi giorni dalla scadenza degli accordi di transizione. Due giorni fa Amnesty International ha accusato i governi dell’Ue, e in particolare l’Italia, di essere «consapevolmente complici delle torture e degli abusi su decine di migliaia di migranti detenuti dalla autorità libiche».
Una denuncia che Tripoli ieri ha definito «molto esagerata». Al contrario «siamo molto soddisfatti dell’aiuto che stiamo ricevendo dall’Italia per migliorare le condizioni nei campi di detenzione», ha detto il ministro degli Esteri libico Mohamed Taher Siala. Nelle stesse ore si è appreso che la Ru00ssia è pronta a sostenere l’allentamento dell’embargo sulle armi per la Libia. La minaccia, perciò, è che dai soccorsi agli accordi politici il tavolo rischia di saltare.
A partire dal 10 maggio 2017 diverse fonti hanno riferito di ” a maritime operation by the Libyan authorities, in coordination with the Italian Search and Rescue Authority, in which 500 individuals were intercepted in international waters and returned to Libya. This operation amounted to refoulment in breach of customary international law and several treaties (including the Geneva Refugee Convention and the European Convention on Human Rights), and an internationally wrongful act is one for which Italy bears international legal responsibility.
According to reports, the migrant and refugee boat called the Italian Maritime Rescue Coordination Centre (MRCCC) whilst it was still in Libyan territorial waters. MRCC contacted both the Libyan coastguard and an NGO vessel (Sea Watch-2) with the latter sighting the boat after it had left Libyan waters and was in international waters. During preparations for the rescue, the NGO boat was informed by the Italian authorities that the Libyan coastguard boat which was approaching had “on scene command” of the rescue operation. Attempts by the NGO vessel to contact the Libyan authorities were not picked up. The Coastguard proceeded instead to cut the way of the Sea Watch 2 at high speed and chase its rescue boat. It then stopped the refugees and migrant boat. Reports indicate that the Libyan coastguard captain threatened the refugees and migrants with a gun and then proceeded to take over the migrant boat.
Una responsabilità “esclusiva” a carico di enti o soggetti italiani, e delle agenzie europee, presenti nelle acque internazionali, che si potrà configurare nei casi in cui, come si vedrà più avanti, le autorità italiane preposte alla gestione delle operazioni SAR, dopo avere ricevuto una chiamata di soccorso ed avere coordinato l’avvio di una attività SAR, ne cedano la gestione alla Guardia costiera libica, alla quale segnalano le imbarcazioni intercettate in acque internazionali. Si impediscono così i soccorsi più tempestivi che sono imposti dalle Convenzioni internazionali e che sarebbero possibili in presenza di navi appartenenti ad ONG presenti in zona. Navi alle quali le autorità italiane impongono l’ordine di “stand by” , in attesa dell’arrivo delle unità libiche. Ma in realtà una zona SAR libica non esiste e non è mai esistita.
I comandi di “stand by” impartiti dal Comando centrale della Guardia costiera (MRCC) alle navi umanitarie che potrebbero intervenire con immediatezza in acque internazionali, e la “chiamata” alle autorità libiche, designate in un secondo momento come “Autorità Sar responsabile”, implicano scelte che corrispondono negli effetti ad un vero e proprio respingimento collettivo, attuato dalle autorità italiane in concorso con gli assetti europei presenti in acque internazionali.
Occorre sospendere gli accordi con il governo di Tripoli, e con gli altri governi che non rispettano i diritti umani. Vanno riaperti canali sicuri e regolari in Europa per rifugiati e migranti, anche attraverso il reinsediamento, l’asilo umanitario e i visti umanitari, il ricongiungimento familiare, la mobilità dei lavoratori per livelli di competenza e visti di studio; il diritto di richiedere asilo in qualsiasi circostanza, anche nei centri Hotspot, deve essere assicurato.
Occorre garantire che le politiche e le prassi di controllo delle frontiere dell’UE proteggano le persone e i loro diritti, e non abbiano lo scopo esclusivo, peraltro del tutto vano, di fermare i movimenti migratori. Saranno questi gli impegni per i quali continueranno a battersi nei prossimi mesi le centinaia di associazioni che hanno chiesto la sessione di Palermo del Tribunale permanente dei popoli.
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Ed ecco quello che è successo nei mesi scorsi nelle acque del Mediterraneo centrale, nessuna iniziativa, come la minima apertura sui corridoi umanitari, potrà fare dimenticare quali sono le responsabilità del governo italiano e delle agenzie dell’Unione Europea.
Respingimenti in Libia, soccorsi ritardati, ONG ostacolate.
di Paolo Cuttitta (Vrije Universiteit Amsterdam)
Nei giorni 23 e 24 novembre il MRCC (centro di coordinamento dei soccorsi marittimi) di Roma – gestito dalla Guardia Costiera – imponeva alla nave Aquarius dell’ONG franco-italo-tedesca SOS Méditerranéee alla nave Open Arms dell’ONG spagnola Proactiva Open Arms di astenersi dal soccorrere alcune imbarcazioni in pericolo nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, lasciando i relativi passeggeri in attesadell’arrivo delle autorità libiche. A queste, infatti,MRCC aveva affidato l’intervento, affinché riconducessero le persone in Libia.
Tali fatti forniscono nuovi spunti di riflessione sulle responsabilità giuridiche italiane per i respingimenti verso la Libia e sulla tempistica dei soccorsi. Essi, inoltre, vanno letti in collegamento con l’evento del 6 novembre che ha avuto come protagonista la nave Sea-Watch 3 dell’ONG tedesca Sea-Watch, e con quello denunciato, sempre il 24 novembre, dall’altra ONG che opera nel Mediterraneo Centrale, la tedesca Mission Lifeline. Emerge così il quadro di un mensis horribilis – il novembre scorso – che ridefinisce le pratiche di controllo, ricerca e soccorso nel Mediterraneo Centrale, a scapito della sicurezza delle persone e in spregio del diritto internazionale.
La nave Aquarius di SOS Méditerranée riceve ordine da MRCC di dirigersi verso un’imbarcazione (catalogata da MRCC come evento SAR 1884) in acque internazionali, a oltre 24 miglia nautiche dalle coste libiche. Tuttavia, dopo avere raggiunto la posizione indicata e individuato l’imbarcazione, l’Aquarius riceve – dallo stesso MRCC di Roma – dapprima l’ordine di attendere, quindi quello di allontanarsi, pur continuando a ombreggiare l’imbarcazione per tenerla sotto controllo. Il “salvataggio”è infatti assegnato alla Guardia Costiera libica, della quale MRCC indica anche l’orario previsto di arrivo. I libici, però, non giungeranno mai. A un tratto, in realtà, dall’Aquarius avvistano un mezzo che prima si avvicina, poi però inverte la rotta e se ne va(come riferito a chi scrive dal coordinatore dei soccorsi dell’Aquarius). L’Aquarius informa di ciò MRCC, che successivamente, dopo avere preso accordi con le autorità libiche (per il tramite della nave militare italiana ‘Tremiti’, ormeggiata dallo scorso mese di agosto a Tripoli, ove svolge funzioni sia di addestramento della Guardia Costiera libica, sia di scambio di informazioni con le autorità locali), dà indicazione all’Aquarius di procedere con il soccorso. Ciò avviene ben due ore dopo che la nave di SOS Méditerranée ha individuato il gommone.Fortunatamente le due ore di attesa, pur prolungandolo stress psico-fisico, non arrivano a determinare effetti mortali tra i passeggeri del gommone. L’imbarcazione non si capovolge, né alcuno versa in condizioni di ipotermia o disidratazione tali da morirne in tempi brevi. Ma che tutti sopravvivranno non può saperlo nessuno, in quel momento; nemmeno la Guardia Costiera italiana, che sceglie quindi deliberatamente di giocare d’azzardo con la vita di queste persone. I 108 passeggeri (più il cadavere di una donna già morta al momento della partenza dalla Libia) vengono poi trasferiti a bordo della nave Open Arms, e da questa condotti a Pozzallo.
La stessa Open Arms, peraltro, ha già a bordo le persone recuperate da uno dei tre eventi nei quali essa è coinvolta quel mattino. Negli altri due, invece, l’equipaggio dell’ ONG spagnola è costretto a fare da spettatore dei respingimenti effettuati dalle autorità libiche su mandato di MRCC. Ciò che non riesce nel sopra citato evento SAR 1884, infatti, si realizza quasi contemporaneamente in questi due casi.Alle 6,35 Open Arms è incaricata da MRCCdi dirigersi verso un gommone in posizione 33° 31’N, 013° 43’E (evento SAR 1885).Strada facendo, però, essa viene informata da MRCC di un altro evento (evento SAR 1886) a breve distanza, e riceve istruzioni di dirigersi verso questo secondo e più vicino gommone. Dopo avere individuato l’imbarcazione dell’evento 1886, la Open Arms apprende da MRCC che il soccorso del primo gommone (l’evento 1885) è stato assegnato alla Guardia Costiera libica. Una volta soccorsi i passeggeri dell’evento 1886, e trasferitili a bordo della Open Arms, i due mezzi di salvataggio dell’ONG spagnola si dirigono verso l’evento 1885, seguendo però l’istruzione di MRCC di restare a distanza, fermandosi non appena stabilito il contatto visivo con l’obiettivo. Mentre una motovedetta libica intercetta il gommone per riportarne i passeggeri in Libia, MRCC comunica a Open Arms una nuova posizione da raggiungere, specificando che anche in questo caso la responsabilità dell’intervento è delle autorità di Tripoli, e che la nave dell’ONG deve solo individuare il gommone, stabilire un contatto visivo e attendere, senza intervenire. Per due volte, quindi, Open Arms è costretta ad assistere a respingimenti verso la Libia coordinati dalle autorità italiane.
Similmente, il giorno seguente – venerdì 24 novembre – le autorità libiche effettuano almeno altri due respingimenti dalle acque internazionali verso la Libia sotto il coordinamento di MRCC. Questa volta ad assistere è l’Aquarius. Alle 6,30 del mattino è proprio la nave di SOS Méditerranée ad avvistare un gommone a 25 miglia nautiche di distanza dalle coste libiche. Come riferito dal coordinatore dei soccorsi dell’ONG, Aquarius trasmette l’informazione a MRCC; poi, su indicazione di quest’ultimo, procede verso il luogo in cui si trova il gommone (evento SAR 1907), vi giunge alle 7,00, fa una ricognizione e comunica le informazioni raccolte. Successivamente, MRCC comunica ad Aquarius che il soccorso è preso in carico dalle autorità libiche. MRCC chiede ad Aquarius di ombreggiare il gommone, restando a una distanza tale da poter controllare l’evolversi della situazione. L’equipaggio dell’ONG avvista tre mezzi delle autorità libiche: due motovedette della Guardia Costiera e una nave della Marina.Una delle motovedette si avvicina, in un primo momento, ma poi torna indietro. Alla fine, tuttavia, a differenza di quanto avvenuto il giorno precedente, i libici arrivano, ma solo alle 10,42: ben tre ore e 42 minuti dopo l’arrivo dell’Aquarius. La loro nave militare, in risposta all’offerta di assistenza formulata via radio da Aquarius, ordina a quest’ultima di non avvicinarsi al gommone, carica a bordo i passeggeri e riparte alla volta della Libia. Per quasi quattro ore, insomma, le autorità italiane impediscono alla ONG di prestare soccorso a delle persone, con il solo fine di consentirne il respingimento in Libia.
Nel frattempo, mentre Aquarius ombreggiava il gommone catalogato come evento SAR 1907,una delle due motovedette libiche si dirigeva verso un altro gommone, che si trovavaappena più a sud (evento SAR 1908). Anch’esso era stato avvistato da Aquarius: alle 6,54, mentre la nave dell’ONGsi stava dirigendo verso il primo gommone. In questo caso i libici, immediatamente incaricati del soccorso da MRCC, giungevano più tempestivamente (alle 7,35), e l’attesa dei passeggeri prima di essere riportati in Libia era più breve. Anche questo respingimento era quindi deciso e coordinato dalle autorità italiane. Aquarius poteva solo assistere da lontano.
A rendere più opaco lo scenario di quel 24 novembre giungeva infine la notizia che una nave militare della missione europea EunavforMed aveva ordinato alla nave Lifelinedell’ONG Mission Lifeline di abbandonare la zona dei soccorsi perché doveva avervi luogo un’esercitazione militare.
I fatti sopra riportati sollecitano alcune riflessioni.
Innanzitutto la Guardia Costiera italiana, che gestisce l’MRCC di Roma, formalmente non modifica la propria interpretazione estensiva del concetto di “pericolo”, che in diritto internazionale innesca l’obbligo di avviare un’operazione di soccorso. Secondo tale interpretazione, adottata dalle autorità italiane a partire dal 2013, qualunque natante sovraffollato o palesemente poco atto alla navigazione è ipso facto in pericolo, anche se funzionante, e anche se in quel momento non ci sono persone in mare e nessuno appare in immediato pericolo di vita. Infatti un gommone sovraffollato può rovesciarsi,o spaccarsi e affondare, in qualsiasi momento, anche in condizioni meteorologiche buone, come spesso avvenuto. Le autorità italiane, dunque, continuano a dichiarare un evento SAR non appena hanno notizia di una qualsivoglia imbarcazione con migranti a bordo.
Questa interpretazione estensiva – contrapposta a quella più restrittiva adottata da altri paesi, a cominciare dalla vicina Malta – era stata a lungo valutata con favore da chi la riteneva utile a evitare tragedie in mare. Alla luce degli ultimi sviluppi, l’interpretazione estensiva del concetto di pericolo in mare si colora di una luce diversa e ben più ambigua.
Gli ordini di non intervenire contraddicono, infatti, la prassi seguita precedentemente da MRCC di procedere immediatamente al soccorso, prima ancora che si possano verificare circostanze dagli effetti non controllabili. Anche l’ombreggiamento (come quello richiesto ad Aquarius e a Open Arms) può infatti risultare inutile se qualcuno finisce in mare, soprattutto se questi non sa nuotare o se si tratta di numeri elevati di persone. Il fatto che gli episodi sopra descritti non abbiano avuto esiti mortali non significa che analoghi episodi non possano causare vittime in futuro, se la Guardia Costiera italiana continuerà su questa linea.
Insomma: se, da un lato, MRCC continua a catalogare come eventi SAR tutte le imbarcazioni di migranti di cui viene a conoscenza, confermando l’interpretazione estensiva del concetto di pericolo in mare,ciò viene fatto anche al fine di consentire i respingimenti, anzi: anteponendo tale fine a quello di prevenire la morte delle persone dichiarate in pericolo.
È inoltre lecito interrogarsi sulle ragioni di ritardi (evento 1907) e ripensamenti (evento 1884) da parte delle autorità libiche, recentemente coinvolte in modo diretto nei traffici. Appare infatti evidente che ritardi e ripensamenti non nascono dall’esigenza di tutelare la vita delle persone in mare. Del resto, il sostanziale disprezzo da parte delle autorità di Tripoli nei confronti della vita dei migranti è ampiamente documentato, oltre che a terra, anche in mare.Basterà ricordare quanto accaduto il 6 novembre scorso.
Quel giorno, alle 7 del mattino, la nave Sea-Watch 3 riceve da MRCC l’indicazione di raggiungere un gommone 30 miglia nautiche a nord di Tripoli. La situazione è drammatica non solo perché diverse persone sono già in acqua, ma anche perché sul posto è già arrivata, da pochi minuti, una motovedetta della Guardia Costiera libica. Nei pressi c’è anche una nave militare francese, mentre un elicottero italiano sorvola la scena e concorda con Sea-Watch 3 (alla quale MRCC ha affidato la responsabilità del soccorso) le modalità di intervento, offrendo la propria collaborazione. Ilibici, però, ignorando le richieste della Sea-Watch 3 di astenersi da ogni intervento, affiancano il gommone e caricano le persone a bordo, contro la volontà dei diretti interessati e con procedure non ortodosse, con il risultato che altri finiscono in acqua. A bordo, poi, alcuni sono minacciati e picchiati.L’elicottero italiano chiede alla motovedetta di spegnere i motori e collaborare con la Sea-Watch 3, ma la richiesta è ignorata, mentre un uomo, cadendo, resta appeso alla scaletta. La motovedetta parte per la Libia, con l’uomo ancora aggrappato a dritta, ignorando gli ulteriori, ripetuti e accorati appelli lanciati via radio dall’elicottero militare italiano. Alla fine, cinque persone perdono la vita per diretta conseguenza dell’intervento libico.
Questo non è peraltro l’unico caso di pirateria di cui si siano rese protagoniste le autorità libiche, che già nel 2016 avevano ripetutamente aggredito le imbarcazioni di varie ONG (la stessa Sea-Watch, in almeno una prima e una seconda occasione, ma anche Medici Senza Frontiere e Sea Eye).Quest’anno, tra i tanti episodi del genere, l’ultimo si era verificato il 26 settembre scorso, quando la nave di Mission Lifeline era stata abbordata e intimidita al termine di un soccorso.
Ancora più grave, alla luce di tutto ciò, appare perciò la decisione di MRCC di affidare alla Guardia Costiera e alla Marina libiche l’incarico di gestire operazioni di soccorso (oltretutto in presenza di altre imbarcazioni più idonee e affidabili), nemmeno tre settimane dopo i fatti del 6 novembre.
In realtà, anche l’affidamento dei soccorsi alla Guardia Costiera e alla Marina libiche non è una novità. Le autorità di Tripoli hanno cominciato a rispondere agli inviti di MRCC a intervenire in acque internazionali almeno da quando, la primavera scorsa, l’Italia ha donato alla Libia quattro motovedette. Il primo caso documentato risale al 10 maggio, quando sulla scena dell’evento SAR arrivava contemporaneamente anche la nave di Sea-Watch, incaricata dapprima di recarsi sul posto, e solo in un secondo momento avvertita da MRCC che l’intervento era stato affidato alle autorità libiche. L’equipaggio dell’ONG,dopo avere subito un’intimidazione dalla motovedetta libica, assisteva al respingimento di quasi 500 persone.
Il fatto che, in tale circostanza, l’imbarcazione in pericolo fosse, sì, già in acque internazionali, ma ancora all’interno della zona contigua (l’area a ridosso delle acque territoriali nella quale il paese costiero può intervenire per sanzionare o prevenire violazioni delle proprie leggi sull’immigrazione) ha poca rilevanza. In primo luogo, infatti, la Libia non ha mai formalizzato la propria zona contigua. In secondo luogo, l’interesse di applicare le proprie leggi non dovrebbe prevalere sul divieto di respingimento da acque internazionali.In ogni caso, per quanto riguarda le responsabilità dell’Italia,l’operazione del 10 maggio era un evento SAR coordinato dalle autorità italiane.MRCC, dunque, violava in modo diretto le norme che impongono all’autorità che coordina i soccorsi di individuare un luogo sicuro (la Libia non lo è) in cui fare sbarcare le persone, in ossequio al principio di non-refoulement.
Proprio per sottrarsi al ruolo di spettatori impotenti di atti criminali, oltre che agli atti di violenza armata perpetrati dalle autorità libiche e avallati da quelle italiane, altre ONG, a cominciare da MOAS e MSF, avevano deciso di ritirare le proprie navi dal Mediterraneo già in estate.
I fatti verificatisi a novembre fugano ogni dubbio sulla legittimità dei respingimenti, poiché essi si verificano fuori non solo dalle acque territoriali libiche ma anche dall’ipotetica zona contigua.
L’Italia, nel coordinare i soccorsi, non soltanto omette di individuare un luogo sicuro ove condurre le persone ma si rende anche responsabile – secondo l’articolo 16 degli Articles on the Responsibility of States for internationally wrongfulacts della International Law Commission – di complicità di un atto illegittimo commesso da un altro stato: il respingimento dalle acque internazionali verso la Libia da parte delle autorità libiche. Tale responsabilità deriva dall’avere fornito aiuti (nella fattispecie la cessione di motovedette e altre forme di supporto, comprese la formazione professionale e l’assistenza tecnica) al paese responsabile della violazione, nella consapevolezza che tali aiuti sarebbero serviti per la commissione di una violazione.
Il panorama, in conclusione,è chiaro: nell’assegnazione dei soccorsi da parte della Guardia Costiera italiana,la priorità viene data alle autorità libiche, e solo ove queste non siano disponibili i soccorsi vengono affidati alle navi delle ONG, agli assetti militari europei o ad altre imbarcazioni civili eventualmente di passaggio. In tale contesto le navi delle ONG – peraltro diminuite di numero causa l’abbandono di diverse organizzazioni, non più disponibili a operare in un contesto caratterizzato dalla violenza sistematica delle autorità libiche e dalla complicità di quelle italiane – non solo hanno dovuto arretrare il proprio raggio d’azione, ritirandosi oltre le 24 miglia dalle coste libiche (cioè oltre la presunta zona contigua, nella quale la minaccia dell’aggressione delle autorità di Tripoli è più pressante), ma sono esposte anche all’arbitrio delle navi militari europee, che impongono loro di allontanarsi dalla zona dei soccorsi, riducendo il potenziale di mezzi disponibili e quindi aumentando il rischio di morte per chi è in viaggio.Infine, a esse viene impedito di prestare soccorso nei tempi più brevi, e imposto di assistere ai respingimenti.
La prevista consegna di altre sei motovedette italiane alle autorità libiche e la concordata costituzione di una sala operativa congiunta italo-libica (che renderà più stabili e organiche le attività di cooperazione già svolte dalla nave militare Tremiti di stanza a Tripoli) sembrano destinate a rafforzare queste tendenze.
Ed ecco una prima parte dei materiali probatori raccolti durante la sessione di Palermo del Tribunale permanente dei popoli, nella testimonianza, sulla situazione in Libia e nei paesi confinanti , di Cornelia Toelgyes
Nigeria. Nel 1956 il Delta del fiume Niger, un’area immensa(circa 70.000 kmq)le popolazioni vivevano in pace in questo delicato ecosistema. Poveri, ma con dignità riuscivano a sfamare la famiglia, grazie all’abbondante pesca e l’agricoltura. Nel 1956 furono scoperti i primi giacimenti petroliferi. Oggi qui si produce la maggior parte dell’oro nero, la ricchezza del Paese. Ma per gli abitanti è iniziato l’inferno.
Oggi qui, in certe zone non cresce più un filo d’erba. I pesci? Morti. Come muoiono i bambini, recentissimi studi hanno dimostrato una crescente mortalità infantile nella zona.
(https://www.ambientebio.it/ambiente/ecoreati/mortalita-infantile-picco-nel-primo-mese-vita-causa-del-petrolio. Il petrolio non ha portato sviluppo qui. Distruzione. Povertà, no, meglio miseria totale. In queste zone un giovane ha poche possibilità: o si allea con gli estremisti/terroristi che rivendicano il territorio. Uno degli ultimi gruppi sono chiamati AVENGERS o NEW DELTA AVENGERS (https://www.africa-express.info/2017/10/19/nigeria-quattro-missionari-britannici-sequestrati-nel-delta-del-niger/), oppure scappa. Il petrolio, la ricchezza per pochi- società petrolifere e politici – ha fatto sì che la Nigeria diventasse uno dei Paesi più corrotti al mondo.
Dunque noi abbiamo investito nello “sviluppo”, non solo in Nigeria, in molti altri Paesi africani, ma molto spesso questo sviluppo ha portato ricchezza a noi, ai politici di turno per la sete di potere.
Oggi siamo qui al caldo, anche grazie al greggio della Nigeria. Importiamo il petrolio, ma respingiamo i cittadini di questo Paese che non sanno più di che sfamarsi. E noi continuiamo a chiamarli immigranti economici.
E’ necessario sottolineare che i vari governi africani non accettano con piacere i rimpatri “volontari” imposti dall’UE, dall’Italia. Lo stesso presidente MuhammaduBuhari, eletto democraticamente nel 2015, ma non bisogna dimenticare che è stato il golpista del 1983, ha dichiarato solo pochi giorni fa: “Non tutti neri sono nigeriani, (https://www.vanguardngr.com/2017/12/libya-migrants-impersonate-nigerians-buhari/)
Lo stesso vale per i maliani. Lo scorso anno alcune persone sono state rimpatriate, ma poi respinte dal governo di Bamako (https://www.africa-express.info/2016/12/31/schiaffo-del-mali-alleuropa-bamako-rispedisce-al-mittente-due-espulsi-dalla-francia/). http://www.africa-express.info/2016/12/26/mali-rapita-operatrice-umanitaria-francese-mentre-salta-laccordo-su-rimpatri-forzati-dalla-ue/.
Potrebbe succedere di nuovo. La maggior parte dei profughi non è in possesso di documenti che indicano la loro nazionalità; la lingua, non è una prova sufficiente. Molte etnie vivono in Paesi, spessi confinanti, e parlano lo stesso idioma.
Vorrei sottolineare che i cosiddetti rimpatri “volontari” non sono sempre una soluzione ottimale per chi ha lasciato il proprio Paese. Molti volte vengono isolati dalla famiglia stretta, allargata e dal villaggio, che tanto ha investito in quel giovane, che ora torna distrutto nel fisico e nell’anima. (Alcuni documentari andati in onda sulle nostre reti nazionali confermano tali situazioni).
Vogliamo parlare del Niger? Ricchissimo di uranio, per fare un esempio (https://www.africa-express.info/2017/04/04/scomparso-un-grosso-quantitativo-di-uranio-estratto-dalle-miniere-niger/). O del Sahel, ormai la regione africana più militarizzata del continente africano. Chi mi ha preceduto ha già fatto ottime analisi a questo proposito. Mai vorrei aggiungere che c’è una nuova forza militare nascente in questo territorio. Force G5 Sahel, finanziata dall’UE (Fondo per l’Africa), dagli USA e anche dall’Arabia saudita e dalla Francia, solo in minima parte dai Paesi africani direttamente coinvolti nel progetto. E’ già parzialmente attiva da poco più di une mese: Si tratta di una interforze tutta africana, composta da militari nigerini, ciadiani, mauritani, maliani e bourkinabè
Il compito della nuova forza alleata sarà quello di contrastare il terrorismo islamico nel Sahel.
Il G5 Sahel è stato approvato anche dal Consiglio di sicurezza dell’ONU e proprio qualche giorno fa questo stesso Consiglio ha adottato all’unanimità un’altra risoluzione che autorizza alla Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA) di fornire supporto logistico e operativo alla nuova forza anti-jihadista.
Le armi non hanno mai portato pace.
Sudan
Nella guerra contro i migranti l’UE da supporto anche ai janjaweed, le milizie paramilitari sudanesi diventate famose per le atrocità commesse in Darfur: i diavoli a cavallo bruciavano i villaggi, stupravano le donne, uccidevano gli uomini e rapivano i bambini per renderli schiavi. Oggi hanno cambiato nome, RapidSupportForces (RSF), ma gli attori sono gli stessi.
450 eritrei, tra loro anche donne e bambini, hanno già pagato 5000 dollari a Kidane, un trafficante eritreo in Libia. Kidane li ha venduti ad un altro, un sudanese, Abdul Aziz. Ora lui chiede altri 3.500 dollari. Nessuno di loro ha i soldi. Non hanno più nulla. Le condizioni di tutti sono terribili. Invece di pane e acqua, vengono torturati ogni giorno.
M. A profugo eritreo, vive in Norvegia, lavora. Mi ha contattato a metà ottobre per il fratello, A.. Da mesi si trova in Libia. Viene torturato, picchiato, mi racconta M..ha pagato 5000 dollari per il viaggio dal Sudan fino in Libia, dove è arrivato a maggio. Sembra che si trovino in stanze sottoterra. Forse dei container interrati a Rasha.
Ora i trafficanti chiedono altri 3.500 dollari. Non li ha. Nemmeno il fratello. I genitori nemmeno. Hanno venduto tutto per aiutare il figlio.
Mi.B, profugo eritreo. Da diversi mesi ha il permesso di soggiorno in Olanda. Conosco M. da forse due anni. Mi ha contattato tempo fa per il fratello, S. K. (stessa madre, padre diverso). 20 anni. Ha lasciato l’Eritrea un anno fa. Miela e altri familiari e amici hanno già pagato due volte i trafficanti. 3.700, poi 5.000 dollari, ora ne chiedono altri, sulle 4.000.
Inizialmente era a Sabratha. Ora è in un altro luogo, non ho capito bene dove.
Poi è riuscito a scappare dal campo. Di tanto in tanto venivano quelli dell’UNHCR, ma chi comanda sono i libici. Trafficanti dice, e picchiano tutti. Cibo poco nulla, acqua altrettanto. Mi ha inviato un formulario di un amico che è con il fratello. Lettere che rilascia l’UNHCR, generalmente sono operatori tunisini. Poi spariscono.
Riporto qui la trascrizione in italiano di un messaggio vocale in tigrino a Miela dal fratello Simon. L’originale è a disposizione di questo Tribunale. La traduzione è stata effettuata da una mia amica eritrea/americana, residente negli USA.
Il ragazzo dice che’ e’ di Asmara ( Eritrea) e’ scappato dalle mani dei trafficanti, sta in pericolo di morte sta chiedendo aiuto di soldi per poter attraversare il mare, ha visto gente morire dalle torture ed essere venduti come sciavi.
I bianchi che rappresentano l’ UN vengono a vederci, ci fanno domande e non fanno niente perché’ operano sotto i libici.
Quello che’ e’ in carica per l’UN e’ un tunisimo, piu’ che darti una carta non ci aiutano in nessuna maniera, i bianchi lavorano sotto di lui.
Ora mi trovo nascosto in una casa aspettando per un aiuto, non ho nessuna speranza che UN mi possa aiutare, questo ragazzo mi sta aiutando a casa sua, non esco fuori, alcune persone sono state catturate andando a chiedere aiuto alle UN.
E. G. in Germania, parla perfettamente il tedesco e l’inglese, lavora come operaio. Hanno pagato finora 4.000 dollari. Lui e altri familiari che si trovano in occidente.
Cerca il fratellino. In un primo momento sembrava fosse arrivato in Italia, ma è stato intercettato dalla Guardia costiera libica ed è stato riportato in Libia. Da allora non si hanno più notizie di lui.
Questo caso in particolare dimostra il coinvolgimento dell’UE, dell’Italia. E’ il risultato dell’operazione della Guardia costiera libica, addestrata da noi e fortemente voluta per effettuare i respingimenti. Non è dato sapere se tutti coloro che vengono intercettati raggiungono vivi la Libia, in quale luogo vengono rinchiusi. Non escluderei nemmeno la possibilità che vengano dati in mano nuovamente ai trafficanti.
A.T. giovane donna eritrea. Si trovava da oltre sei mesi vicino a Sabratha con due figli piccoli in mano a Welid un trafficante eritreo. Ora è stata rapita da un secondo eritreo, Abduselam, alleato con una banda di miliziani libici. Non si conosce il nuovo luogo di detenzione. Ha fatto sapere che hanno viaggiato per oltre sei ore stipati in un veicolo. Per oltre due settimane i familiari non hanno avuto notizie della donna. Poi è arrivata una nuova richiesta di denaro di 3.500 dollari. Non li ha. Il marito non può cercare di raccogliere la somma, E’ in galera in Eritrea.
Con lei ci sono altre 450 persone. Tutti di origine eritrea. Ci sono tre stanze per la tortura. Anche chi paga, non viene rilasciato. Negli ultimi giorni sono morte quattro persone. Non si conoscono i loro nomi. I figli della donna sono gravemente ammalati. Non mangiano e non bevono a sufficienza. Sono impauriti.
M.C. un ragazzo eritreo di quindici anni, doveva partire il 23 novembre da Zwara. E’ stato ammazzato poco prima di salire sul barcone. Gli hanno sparato alla schiena.
A.D un giovane uomo sui venticinque anni. Ha pagato seimila dollari da Asmara fino in Italia. Sono venuti a prenderlo praticamente sotto casa (caratteristica che ho notato diverse volte). Ha pagato l’intera somma in Eritrea !!!
E’ arrivato a Tripoli nel mese di maggio. Due mesi fa è stato rapito. Per un mese i familiari non hanno avuto sue notizie. Ora si sa che è in mano ad un carceriere libico insieme ad altri quattrocento eritrei. Molti suoi compagni sono morti a causa delle torture subite. La sorella, H., che vive in Kenya, non sa come trovare la somma di 2.500 dollari per alleviare le sofferenze del fratello.
Y.F, 28 anni, eritrea, è partita da Khartoum, dove si trovava da tempo con il marito. Parte solo lei, per due il viaggio è troppo costoso. Cinquemila dollari a testa. Aspetta un bambino. Anche lei è stata rapita. Per sei mesi in mano a suoi aguzzini. Il bimbo è nato morto. In Libia. Lei pochi giorni dopo. I trafficanti l’hanno imbarcata ugualmente, chiedendo ai compagni di viaggio di buttarla in mare. Lei è arrivata in Italia ugualmente. Ora è in un cimitero, a Crotone credo. Il marito ancora non lo sa. Il gommone con a bordo la ragazza è stato fatto salpare da un certo Welid, un eritreo. Per conferma, credo basti sentire i ragazzi giunti in Italia.
Dopo gli accordi con l’Italia, la firma del famoso MoU, dapprima sospeso da un Tribunale di Tripoli, poi riammesso dalla stessa Corte durante l’estate di quest’anno, la situazione di chi fugge dal proprio Paese e cerca di raggiungere la Libia per imbarcarsi verso le nostre coste è peggiorata notevolmente. Dalle testimonianze riportate qui sopra, si evince una sofferenza senza pari da parte dei migranti e dei loro familiari. Le continue richieste di denaro, mentre sono sotto tortura, ricordano il Sinai. Mirjam van Reisen, ricercatrice dell’Università di Tilburg, Olanda conferma questa tesi, che ho avanzato pure io. E ne ho parlato con lei pochi giorni prima di venire qui.
Slavery in Libya organised by ‘fixers’ – Research Tilburg Universityconfirms CNN reports
Pressrelease 1-12-2017 – Academicresearchers of Tilburg University come to the conclusionthatslavery in Libya is part of a large organisation of human trafficking in which ‘fixers’ collaborate with some high officials in Africa and in Europe. CNN reportedtwo weeks ago thatAfricans are auctioned in Libya.
In the last months the researchershavecarried out 50 interviews with refugeesheld in Libya, to examinehow the situation in Libya isevolving. Theyfoundthat in Sebratha (near Tripoli) there are 1.500 Eritreanrefugees in onedetention centre only. The researchers estimate – based on whattheyhavebeenable to map, that 10.000 Eritreans are held in differentdetention centres in Libya. The detention centres consist of ship-containers whichhold 160 people in one container. Most of the victimssuffer from diarrhoea, skindisease, and there are manywomen with children and unaccompaniedminors. Theyreceive no medical treatment.
The researchersconcludedthat the situation in Libya is part of a muchlarger network of trade and enslavement. In a book published in March 2017 the researcherswarned for excesses in Libya, astrafficking for ransomhadexpanded from Egypt to Sudan into Libya. From interviews with refugeesheld in detention in Libya the researchers found that competing networks were forcing refugees to beg for ransom, and that sexual violence is rampant.
“A new form of trafficking for ransomhasdeveloped in recentyears”, concluded prof. International Relations, Innovation and Care Mirjam van Reisen, wholeads the research, “Refugees are sold and resold, whilethey are forced to begrelativesall over the world on mobile phones to sendmoney to try and free them. Ransoms go up to thousands of dollars. In Europe refugees are forced to contribute to payments of suchransoms in order to help liberate thoseheld in Libya and Sudan. Some fixers are collaborating with parts of governments.”
Trafficking stopped in Sinai, spreads to Sudan and Libya
“From the interviewsweunderstandthat the refugees are desperate and are seriouslytraumatised.” concludesMeronEstefanos, whocarried out a majority of the interviews. “A majority of the refugees in Libya havefled Eritrea. Theyfearbeingdeported. In Eritrea theyfear for their live. In eachgroupthere are atleast 6 or 7 Eritreanrefugeeswho are so mentallydisturbedthatthey can no longerhold a conversation, the researchersfound.”
Thispracticeearlier led to auctions of refugees in Sinai (Egypt), aspublished by the researchers in 2014. The researchersfoundthatafter the practicewasstopped in Sinai, itrapidly spread across the region to Sudan and Libya. According to the researchers the samefacilitators and fixers of the trade in personswereinvolved.
Gli operatori umanitari da me interpellati, e, come è stato riportato anche dalla stampa nazionale, confermano che i migranti giunti sulle nostre coste sono in condizioni fisiche serie. Questo è dovuto alla lunga permanenza nei centri di reclusione, in mano ai loro aguzzini. Il freno delle partenze imposto dal nostro governo e approvato dall’UE (non riporto articoli per confermare, è cosa ben nota ormai), la militarizzazione delle frontiere terrestri in molti Paesi dell’Africa subsahariana, rende sempre più difficile la fuga, dunque i trafficanti hanno aumentato i costi in modo esorbitante: a) Non c’è un ricambio continuo tra chi arriva in Libia e chi parte dalla Libia b) Non vogliono rinunciare al guadagno c) lotta continua tra milizie locali per controllo del territorio e i trafficanti pagano la loro ”tolleranza” e collaborazione.
Difficile comprendere l’addestramento ricevuto dalla Guardia costiera libica per effettuare i respingimenti. Abbiamo visto più volte che molti migranti sono annegati a causa del loro comportamento contrario alle leggi del mare.
Non è chiaro, inoltre, che fine facciano le persone riportate in Libia. Qualche giorno Ansa ha riportato che le persone salvate sono state riportate ad una base della Marina di Tripoli
Ma poi?
Sembra che tra i rifugiati salvati dalla Guardia costiera libica durante il mese di novembre siano stati riconsegnati ad un trafficante di nome Abdu Salem (eritreo). Non mi è stato possibile portare le relative prove al momento attuale.
Ieri la stampa statunitense (VOANEWS) https://www.voaafrique.com/a/des-migrants-somaliens-et-erythreens-evacues-au-niger/4165586.html ha fatto sapere che settantaquattro persone vulnerabili sono stati evacuati nel Niger. Il Niger, che non può essere considerato un Paese sicuro, malgrado la presenza di militari tedeschi, francesi (operazione Barkhane) ed ora anche italiani. Da tempo si studiava un modo per inviare le nostre truppe in Niger, per controllare la frontiera con la Libia per arginare i flussi migratori.
Ora, la soluzione è stata trovata. Operazione congiunta italo-francese.
(https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2017/12/13/news/militari_italiani_in_niger-184043682/).
Si continua a morire in mare, morti delle quali in un certo qual modo si viene a conoscenza. Ma si muore nelle terribili galere libiche, senza che nessuno ne parli. E sono in tanti a morire a causa di privazioni, malattie, fame e torture. Non si sa neppure nulla dei morti nel deserto, lungo il percorso per raggiungere la Libia. Gli itinerari sono sempre più pericolosi, si viaggia solo di notte, gli incidenti mortali sono all’ordine del giorno. Morti che dovrebbero pesare sulla nostra coscienza, delle quali le politiche dei respingimenti sono direttamente o indirettamente responsabili.
Spesso i singoli Paesi e la stessa Unione, quando stringono alleanze con dittatori africani, come al-Bashir, non tengono conto dei diritti umani, che in passato invece hanno sempre difeso strenuamente. Attenzione, così facendo, i principi fondanti che tengono assieme il vecchio continente potrebbero naufragare insieme ai migranti che non hanno saputo proteggere.
Cornelia I. Toelgyes
Vice direttore di www.Africa-Express.info, quotidiano online
corneliacit@hotmail.it