di Fulvio Vassallo Paleologo
- Introduzione. Il Quadro di riferimento.
L’afflusso di un numero sempre più alto di richiedenti asilo, soprattutto dopo la crisi siriana, ha messo in crisi le politiche migratorie di tutti gli stati europei, anche di quelli che risultavano soltanto come corridoi di transito. Politiche migratorie europee che peraltro erano diventate sempre più labili, e orientate in senso repressivo, per effetto dell’avvento di partiti populisti o apertamente xenofobi, in quasi tutti gli stati dell’Unione.
Si sta tentando ancora oggi di distinguere tra “migranti economici” e “richiedenti asilo” o “rifugiati”, magari a seconda del paese di provenienza, ma ignorando del tutto, o trascurando deliberatamente, la situazione realmente vissuta da queste “persone” nei paesi di transito, e durante la traversata in mare. In realtà, nella maggior parte dei casi, negli anni dal 2013 al 2015, si trattava di richiedenti asilo .Negli anni successivi, con la diminuzione degli arrivi dei Siriani si è avuto un aumento di persone che fuggivano dalla Libia in preda al caos ed agli scontri tra milizie, dunque migranti forzati, dopo essere arrivati in quel paese per prevalenti finalità economiche, anche per lavorarvi, come i bengalesi gli ivoriani, i maliani ed i nigeriani.
La distinzione tra rifugiati e migranti economici è stata introdotta da Egon Kunz, che aveva elaborato la cosiddetta push/pull theory , “teoria” ripresa dai vertici dell’Unione Europea e dai responsabili dell’agenzia europea FRONTEX, soprattutto a partire dagli attacchi portati all’operazione di ricerca e soccorso Mare Nostrum, poi ritirata alla fine del 2014 .La presenza di navi di soccorso attirerebbe le partenze dei migranti dalle coste africane verso l’Europa. Accusa mai provata davvero, che tuttavia è stata rilanciata nel corso del 2017, a partire da un rapporto di FRONTEX, molto critico nei confronti delle ONG che, sotto il coordinamento del Comando centrale della Guardia costiera italiana, salvavano vite umane in acque internazionali, in prossimità delle coste libiche . Tra le accuse rivolte alle ONG, quella secondo cui avrebbero permesso il salvataggio in acque internazionali e quindi lo sbarco in Europa, quasi sempre in Italia, a migranti economici, che mai avrebbero soddisfatto i requisiti richiesti per il riconoscimento di uno status di protezione. Come se la vita delle persone avesse un valore diverso a seconda del paese di provenienza e delle motivazioni del percorso migratorio.
Al di fuori di una esplicita previsione legislativa della definizione di migrante economico, si è proceduto per esclusione, caratterizzando nella prassi amministrativa come “migranti economici” tutti coloro che, al di fuori dei casi di possibile ricongiungimento familiare, non chiedevano di accedere alla procedura di protezione internazionale oppure ne uscivano con una decisione negativa, quando le vie di ricorso si erano esaurite o i ricorsi contro i dinieghi avevano avuto un esito negativo. Questa distinzione ha assunto nel tempo una precisa valenza politica ed operativa, in una duplice direzione, interna ed esterna.
Alla base della definizione italiana di migrante economico ci sono due circolari del Ministero dell’interno emanate il 24 settembre ed il 29 dicembre 2015, dopo il vertice straordinario del Consiglio Europeo che chiedeva all’Italia di accelerare sull’apertura degli Hotspot, punti di identificazione dei migranti gestiti dall’UE a ridosso di cinque porti di sbarco siciliani (Augusta, Pozzallo, Lampedusa, Porto Empedocle e Trapani). Fondamentale all’interno di queste strutture la presenza di decine di agenti di Frontex, con una forte commistione tra attività di indagine ed attività di identificazione personale e attribuzione di status. I documenti ministeriali contenevano “una definizione di migrante economico, che quindi non proviene da zone di guerra, e una procedura standard per individuare gli stessi, tramite interviste in presenza di interpreti e solo dopo la conclusione degli accertamenti medici”. Procedure che nelle dichiarazioni degli esponenti del ministero nel 2015, “sempre più rigorose con la prossima entrata vigore degli hotspot e l’intervento dell’EASO, l’agenzia europea per l’asilo, e di Frontex“. Strumento, ed al contempo finalità di queste interviste, era la compilazione del cd. foglio notizie, in base al quale si distinguevano i migranti, a poche ore dallo sbarco, in richiedenti asilo e migranti economici.
Le successive “SOP”, acronimo per Procedure operative standard, diffuse dal ministero dell’interno all’inizio del 2016, fissavano altre regole per la identificazione e la qualificazione dei migranti allo sbarco, ma restavano sul piano delle prescrizioni amministrative. Nessuna legge ha mai disciplinato l’Approccio Hotspot, a parte la previsione, contenuta nell’ultima legge 46 del 2017 che nell’ipotesi, ormai residuale, di mancata collaborazione nel fotosegnalamento e nel prelievo delle impronte, prevede il trasferimento in un centro di detenzione ( oggi definito CPR, Centro permanente per i rimpatri).
Sul piano dei rapporti internazionali con i paesi terzi di origine, o di transito, la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici è quindi servita a giustificare accordi di riammissione e politiche di contrasto della cd. immigrazione illegale che si rivolgono verso persone che avrebbero diritto ad uno status di protezione (sussidiaria o umanitaria) se giungessero in Europa, ma che, considerate alla stregua della Convenzione di Ginevra del 1951 e della categoria ristretta di “rifugiato” che questa prevede, vengono considerati come migranti economici e nella quasi totalità dei casi, trattati come “migranti illegali”, da respingere, da detenere, da espellere. In realtà poi la maggior parte di questi migranti irregolari rimane nei territori degli stati dell’Unione Europea, per la impossibilità di un numero elevato di misure di accompagnamento forzato. Si calcola che oggi nell’Unione Europea ci siano almeno 1.900.000 immigrati privi di un qualsiasi titolo di soggiorno, ed il loro numero tende ad aumentare rapidamente per lo sbarramento dei canali legali di ingresso e per l’esito infausto della maggior parte delle procedure dirette al riconoscimento della protezione internazionale.
A livello nazionale ed europeo, come emerge anche dagli atti dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, dopo anni nei quali si era correttamente parlato di flussi misti, soprattutto per legittime iniziative di soccorso e di tutela nei paesi di transito, o in mare, la categorizzazione sempre più rigida dei “migranti economici”, ritenuti tali dopo una sommaria valutazione da parte delle autorità di polizia, serve a giustificare la possibilità di un respingimento o di una espulsione da eseguire subito dopo lo sbarco nel territorio nazionale, anche se l’ingresso irregolare deriva da una azione di ricerca e soccorso nelle acque internazionali. In questo caso l’attribuzione generalizzata della qualifica di migrante economico, come nel caso dei migranti egiziani, o nigeriani, contribuisce alla legittimazione ed alla attuazione degli accordi di riammissione con paesi terzi governati da regimi autoritari o fortemente corrotti, che non garantiscono l’effettivo rispetto dei diritti umani, neppure nei confronti dei propri cittadini. Un caso a parte, l’espulsione o il respingimento dei cittadini tunisini irregolari, perché in questo caso sono le modalità di esecuzione delle procedure che comportano gravi violazioni dei diritti fondamentali, come accertato nel 2016 dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Khlaifia, che pure riguardava cittadini tunisini, che si suole definire come veri e propri migranti economici.
Il Processo di Khartoum ed il Migration Compact, proposto dall’Italia nel 2016, hanno prodotto una proliferazione di accordi o intese di vario genere, finalizzate prevalentemente alla riammissione dei cittadini dei paesi terzi ammessi sul territorio per esigenze di soccorso, ma rimasti privi di un valido titolo di soggiorno, persone ritenute non richiedenti asilo ma migranti economici. Mentre la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato ammette tutti i richiedenti asilo ad ottenere un valido titolo di soggiorno temporaneo anche dopo l’ingresso irregolare nello stato e vieta sanzioni penali per l’attraversamento della frontiera, coloro che sono stati ritenuti migranti economici venivano messi nella condizione di essere allontanati immediatamente, o con la massima speditezza, verso i paesi di origine, se non di transito. Si è tentato di impedire in tutti i modi l’accesso al territorio nazionale di persone che avrebbero potuto presentare una istanza di protezione internazionale, giungendo ad attribuire la qualifica di migrante economico quando ancora le persone si trovavano in Libia o in altri paesi di transito, giustificando questo stravolgimento di senso, che ha avuto un grande impatto sull’opinione pubblica, con la situazione dei paesi di origine, ma senza quell’esame individuale delle ragioni di protezione della singola persona, che è riconosciuto sia dalla Convenzione di Ginevra che dalla normativa europea in materia di protezione internazionale.
Si sono conclusi accordi bilaterali con la Libia, da ultimo le intese sottoscritte il 2 febbraio 2017 con il governo di Tripoli, che hanno ignorato la terribile sorte riservata ai migranti ( economici e richiedenti asilo, donne e minori) in tutti gli snodi del traffico di esseri umani in Libia, e persino a bordo delle motovedette della sedicente Guardia costiera libica, come ormai è ampiamente provato da video e documenti inconfutabili. Da mesi giornalisti indipendenti e cittadini solidali denunciavano quanto stava accadendo in Libia, ma gli accordi politici hanno coperto tutte queste denunce.. Trattandosi soltanto di “migranti economici” è stato facile giustificare le politiche di respingimento collettivo, malgrado la dura condanna dell’Italia nel 2012 da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi. Una condanna che si sta aggirando con la delega conferita alle autorità libiche, in coordinamento con la Marina militare italiana, di bloccare in mare e riportare indietro migliaia di persone in fuga verso le coste europee. Una brutta copia degli accordi già devastanti dal punto di vista della legittimità internazionale, conclusi nel 2016 tra Unione Europea e Turchia. Se nel caso della Turchia si e’ stretto e mantenuto un accordo con un regime autoritario, nel caso della Libia, con la dubbia finalita’ di bloccare le partenze si sono concluse intese con autorita’ locali che hanno allontanato la possibilita’ di una riconciliazione nazionale, precipitando la Libia in uno stato di guerra civile endemica.
Sembra quasi che gli stati, per difendere i confini e quella che viene spacciata come sicurezza nazionale, siano costretti a violare le garanzie procedurali dello stato democratico, come quelle previste dalla Convenzione europea a salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, oppure nelle Costituzioni nazionali, come, nel caso dell’Italia, il diritto alla libertà personale ( art. 13 Cost.) e di difesa ( art.24 Cost.). Non tanto per eliminare, o almeno ridurre effettivamente, il numero degli stranieri irregolarmente soggiornanti, quanto piuttosto per venire incontro alla pressione dell’opinione pubblica prevalente e per alleggerire il sistema di accoglienza (esemplare al riguardo, nel caso di Ventimiglia, nell’estate del 2016, il cd. Piano Gabrielli con il trasferimento forzato di diverse decine di Sudanesi, da Ventimiglia nell’Hotspot di Taranto, e quindi con il loro accompagnamento forzato a Khartoum).
A fronte di costanti richiami da parte della Commissione e del Consiglio europeo volti ad imprimere maggiore rigore ai procedimenti di allontanamento forzato, si è cercato in questo modo di dare una parvenza di effettività alle procedure di allontanamento forzato dal territorio che colpiscono una esigua minoranza di persone, qualificate come migranti economici, ma rimangono puramente simboliche, rispetto al numero dei potenziali destinatari, e sono prive di una qualsiasi deterrenza. E’ ormai evidente il fallimento del piano Minniti, lanciato lo scorso gennaio, con la previsione dell’apertura di 11 centri di detenzione ( da CIE adesso si chiamano CPR, Centri di permanenza per il rimpatrio) in tutta Italia. Un progetto che è fallito, a parte la riapertura di tre strutture a Gorizia ( Gradisca), Potenza, ed in Sardegna, della cui legittimità è possibile dubitare. L’Italia non ha alcuna possibilità concreta, come molto altri paesi europei del resto, di dare esecuzione alle migliaia di ordini di espulsione o di respingimento che prefetti e questori continuano ad adottare nei confronti di quelli che vengono ritenuti migranti economici.
Una volta qualificata la persona appena sbarcata, magari dopo una rapida intervista all’interno di un Hotspot ( area attrezzata di sbarco ed identificazione), come migrante economico, dunque da respingere o da espellere se privo di un visto di ingresso o di un permesso di soggiorno, risulta persino superflua la valutazione del paese di riammissione come “paese terzo sicuro”. Poco importa poi se in alcuni Hotspot, come ad esempio nel centro di contrada Imbriacola a Lampedusa, viene generalmente negato l’accesso alla procedura e non sono neppure disponibili i moduli per presentare una istanza di protezione. Continuano a mancare invece canali legali di ingresso per i veri “migranti economici”, né si applicano le Convenzioni internazionali che riconoscono loro precisi diritti anche quando prestano attività lavorativa in condizioni di irregolarità. La Convenzione delle Nazioni Unite del 1990 per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti è rimasta lettera morta in tutti i paesi dell’Unione Europea. A livello europeo, è stata ormai archiviata la proposta di una Direttiva che prevedesse ingressi per lavoro, un tentativo fallito dopo gli attentati di New York dell’11 settembre 2001, e mai più ripreso.
I modesti interventi dell’Unione Europea in materia di immigrazione per lavoro hanno riguardato soltanto piccole nicchie di mercato, come i lavori particolarmente qualificati, ad esempio con la cd. Carta blu ,e non hanno garantito significative possibilità di ingresso legale per ricerca di lavoro. Dopo il fallimento dei rari tentativi dei governi volti a garantire una determinata quota degli ingressi per lavoro, magari legati ad accordi di riammissione con i paesi terzi, nell’ambito del principio di condizionalità migratoria, ai principali paesi europei non è rimasta, almeno fino a qualche anno fa, altra soluzione che il ricorso a periodiche regolarizzazioni. Dopo l’arrivo di un numero molto elevato di richiedenti asilo, a partire dal 2014, e dopo l’avanzata dei partiti ostili a qualunque forma di immigrazione, in nome di una generica identità europea, in realtà per solide ragioni elettoralistiche, di fronte ad una crisi economica che ha colpito a tutti i livelli, qualsiasi prospettiva di ingresso legale per lavoro negli stati europei può ritenersi accantonata. Cresce ogni giorno, in modo esponenziale, il numero delle persone migranti escluse dall’accesso al godimento effettivo dei diritti fondamentali . Non solo stranieri, anche e sempre più numerosi gli italiani.Su questo si innesca la guerra tra poveri, alimentata da chi basa le politiche migratorie sulla deterrenza e sul mero contrasto di quella che si definisce come immigrazione illegale. Ma opportunità di ingresso legale non se ne danno, e i trafficanti continuano a lucrare sul proibizionismo delle migrazioni.
- L’Europa e le politiche del lavoro migrante: dalla condizionalità migratoria al ricatto del lavoro irregolare
Il principio della condizionalità migratoria ( risorse e quote flussi in cambio di un blocco dei flussi migratori), ripreso anche a livello nazionale, è ritornato al centro delle politiche europee ed in questo quadro qualunque riconoscimento dei diritti dei lavoratori migranti irregolari e delle loro famiglie, tema centrale della Convenzione ONU del 1990, appare in decisa controtendenza. Affermare la necessità di individuare forme legali di ingresso per lavoro e poi basare le politiche dell’Unione Europea sugli interventi repressivi, sugli accordi di riammissione e su modeste premialità per quei paesi che si prestano ad accettare rimpatri forzati, se non sul concetto di “immigrazione scelta”, o affidare agli uffici consolari una ingestibile funzione di “filtro” per le richieste di ingresso per lavoro,, significa mantenere le condizioni che hanno prodotto nel tempo la diffusione della condizione di clandestinità dei lavoratori migranti. Anche gli accordi di “Partenariato di mobilità” conclusi nel tempo dall’Unione Europea con la Tunisia e il Marocco, rimangono nel solco del principio della condizionalità migratoria, in quanto si concedono facilitazioni nel conseguimento dei visti, in numero limitato e per particolari categorie di lavoratori, a condizione che i paesi terzi contraenti si impegnino ad una politica di contrasto dell’immigrazione irregolare e di riammissione dei propri cittadini giunti nell’area Schengen, in modo da ridurre effettivamente il numero degli ingressi cd. “illegali”. Obiettivo che risulta largamente fallito, ma che oggi viene riproposto proprio nei confronti di quegli stessi paesi che hanno già dimostrato di non potere e volere controllare le loro frontiere, anche per ragioni di natura economica o politica.
Si sono quindi previste risorse finanziarie europee e nazionali (come il fondo europeo definito Africa Trust [1]) per incentivare la collaborazione di paesi terzi di transito ai quali, sulla base di nuovi accordi bilaterali o multilaterali, si vorrebbe commissionare il compito di bloccare i flussi migratori irregolari e di deportare nei paesi di origine quanti si accingono a partire verso le frontiere europee. E tutto questo nella prospettiva di un restringimento del diritto di asilo, con la istituzione di una Agenzia europea per il diritto di asilo (EASO), di un ridimensionamento dei ricongiungimenti familiari, e della riapertura della possibilità di espellere minori non accompagnati. Malgrado si istituisse una apposita agenzia per rafforzare l’impegno degli stati in materia di riconoscimento della protezione internazionale, di fatto questa agenzia svolgeva una funzione ancillare rispetto a Frontex, e contribuiva a stabilire una distinzione collettiva tra richiedenti asilo e migranti economici [2].
In tutti i paesi europei la progressiva chiusura delle possibilità di ingresso legale per lavoro, dunque dei veri migranti economici, o di quelli che venivano ritenuti tali, ha prodotto una maggiore pressione sull’istituto dell’asilo, e il contingentamento del numero dei richiedenti asilo, escluso dalla Convenzione di Ginevra del 1951, è diventato un tassello decisivo delle politiche migratorie nazionali. Il maggior rigore nell’esame delle richieste di protezione internazionale, la diversa composizione dei richiedenti, la mancanza di canali legali di ingresso, tanto per motivi umanitari che per lavoro, hanno prodotto un aumento esponenziale delle persone immigrate presenti in tutti gli stati europei di destinazione, in una condizione ormai irreversibile di irregolarità, in Italia con una crescita impressionante dello sfruttamento lavorativo. Piuttosto che perseguire davvero chi sfruttava i lavoratori migranti, pochissime le condanne e solo su denunce di associazioni e migranti che hanno gravemente esposto proprio le vittime, dilagava la tendenza alla criminalizzazione di tutti i migranti che restavano privi di documenti di soggiorno validi [3].
Nel frattempo, l’Unione Europea ha incrementato gli sforzi per eliminare la presenza di migranti economici rimasti privi di un permesso di soggiorno. Lo strumento chiave è costituito dalla Direttiva sulle sanzioni nei confronti dei datori di lavoro ( Direttiva 2009/52/CE), che proibisce l’occupazione di migranti irregolari provenienti da paesi terzi, punendo i datori di lavoro con multe, o addirittura con sanzioni penali nei casi più gravi.[4] Tutti gli Stati membri dell’UE, ad eccezione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito, sono vincolati dalla direttiva, ma le attività di controllo da questa previste non hanno consentito l’emersione e la maggior tutela dei lavoratori migranti irregolari, anche se scopo dichiarato del documento era quello di offrire ai lavoratori migranti in situazione irregolare un certo grado di protezione almeno nei confronti dei datori di lavoro ( con l’affermazione del diritto alla retribuzione anche nel caso di attività lavorative prestate “in nero”)[5]. Nel caso di lavoratori di minore età o soggetti a condizioni lavorative di particolare sfruttamento, possono essere loro rilasciati permessi di soggiorno di durata limitata al fine di agevolarli a esporre denuncia contro i loro datori di lavoro (articolo 13) [6]. La direttiva 2009/52/CE, inoltre, alla lettera c) dell’art. 9, afferma che gli Stati membri garantiscono che la violazione del divieto di assunzione legale, se intenzionale, costituisca reato, come previsto dalla legislazione nazionale, se “ accompagnata da condizioni lavorative di particolare sfruttamento”.
La tardiva attuazione della direttiva in Italia, la equiparazione dei migranti economici ai migranti irregolari, e la loro conseguente fuga nella clandestinità, ha prodotto un peggioramento delle condizioni di sfruttamento lavorativo e iodelle modalità di alloggio e permanenza sui territori [7]. La percezione collettiva ha avvertito la maggiore presenza di migranti “economici” sulle strade, ma non si è attuata, se non in rari casi, ed a rischio di operatori, giornalisti e vittime, quella parte della normativa vigente che le istituzioni avrebbero dovuto applicare a protezione delle persone, e non per allontanarle, o tentare di allontanarle, dai territori.
- La trasformazione interna dei richiedenti protezione in “migranti economici”
Nel corso del 2017 si registra un aumento dei migranti presenti nel sistema di accoglienza italiano, definibili dunque richiedenti asilo, anche se non tutti lo sono effettivamente, che si trasformano in “migranti economici”, per effetto delle decisioni negative sulla loro richiesta di protezione. Al di là del buon successo dei ricorsi, oltre il 50 per cento dei quali vinti contro le decisioni delle Commissioni territoriali, a livello mediatico una ennesima occasione per affermare che la maggior parte dei migranti in fuga dalla Libia sia costituita da migranti economici.
Mentre sino alla fine del 2015 una buona parte di loro proseguiva il viaggio verso altri paesi europei, oggi il blocco delle frontiere di Ventimiglia, Como/Chiasso, Brennero,Tarvisio e altre in Friuli, sta comportando l’esplosione del sistema di accoglienza. Si deve anche aggiungere che sono migliaia le persone già sottoposte ad identificazione forzata in Italia che gli altri paesi europei ci stanno rinviando in applicazione del Regolamento Dublino III, che nessuno vuole più modificare. Il recente voto favorevole del Parlamento sara’ paralizzato dell’istruzione mi del Consiglio Europeo. Il sostanziale rallentamento della cd. “relocation”, promessa da due anni a Grecia ed Italia, è il fallimento più clamoroso e visibile delle politiche europee in materia di immigrazione[8]. Come è un fallimento di sistema in Italia il ritardo nelle procedure di protezione internazionale e la restrittività che le autorità ministeriali, tramite la Commissione nazionale per il diritto di asilo, suggeriscono alle Commissioni territoriali. Si deve dunque prendere atto che le politiche dell’asilo, sulle quali insistono tanto gli organismi europei sono sostanzialmente in una fase di stallo, caratterizzata da una svolta repressiva e da attività sempre più intense di polizia. Per effetto di queste politiche e di queste prassi molti richiedenti asilo si stanno trasformando in “migranti economici” irregolari.
A livello di prassi di polizia, poi, su indicazione del ministero dell’interno che agli sbarchi, già nel corso della prima intervista, si diffondono “fogli notizia” nei quali si raccolgono, o si dovrebbero raccogliere le motivazioni del viaggio, utili per classificare la persona come richiedente asilo o migrante economico. Una distinzione che appare sovente sommaria, a fronte dell’esigenza di organizzare nel più breve tempo possibile voli di rimpatrio, almeno per coloro che, una volta qualificati come migranti economici, provengano da un paese che ha stretto con l’Italia un accordo di riammissione che sia effettivamente operante. Ancora più complessa la situazione di chi, dopo avere subito un primo diniego, deve fare ricorso davanti ad una autorità giurisdizionale, perché la precarietà delle condizioni di accoglienza è destinata ad aggravarsi giorno dopo giorno, se non viene negato del tutto il diritto alla stessa accoglienza di cui si godeva prima del verdetto negativo della Commissione territoriale. La fabbrica dell’irregolarità è fatta di tanti reparti alimentati dalla burocrazia infinita degli apparati.
Le informazioni che circolano sono spesso distorte e distorcenti, come quella che gli asilanti sarebbero solo quella piccola quota di persone che ottiene il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra, mentre tutti gli altri sarebbero migranti economici. Basta consultare i dati contenuti nei Rapporti statistici annuali pubblicati da IDOS per trovare smentita a queste affermazioni grossolane, non veritiere, ma che fanno larga presa sul senso comune della popolazione. Anche a livello mediatico del resto, quando si parla di richiedenti asilo, si tratterebbe di persone che cercano di sfruttare le garanzie offerte dalla legge per prolungare una presenza in Italia che viene avvertita come un peso sociale, se non come un vero e proprio pericolo per la sicurezza dei cittadini. Da qui la “velocizzazione” delle procedure di asilo e del sistema dei ricorsi, attuato con la legge n.46 del 2017, che si è tradotto nella moltiplicazione delle Commissioni territoriali, in una riduzione delle garanzie di difesa dei richiedenti asilo ( come l’effetto sospensivo automatico del ricorso) e nell’abolizione del grado di appello nei ricorsi contro i dinieghi di status adottati dalle Commissioni territoriali, ed il ritmo frenetico che si è imposto alle trattative con i paesi terzi, per rendere possibili le espulsioni con accompagnamento forzato, anche se i paesi di origine, come nel caso del Sudan o dell’Egitto, sono governati da dittature militari nelle quali qualunque segno di opposizione viene punito con il carcere e con la tortura, senza contare le sparizioni forzate e gli assassini mirati. Sui voli di rimpatrio o nei centri di detenzione, si trovano naturalmente i migranti economici, o quelli che sono ritenuti tali.
- Migranti economici e nuovi mezzi di tutela. Il ruolo della società civile.
Dietro l’apparenza degli sbarchi di massa, con il contorno tragico delle vittime in mare e degli scafisti arrestati a terra, spesso minori utilizzati come ultimo anello della catena di trafficanti, si nasconde la violenza sistematica che le persone hanno subito in Libia e negli altri paesi di transito, e poi la realtà di sfruttamento lavorativo, di abusi esistenziali, oltre che di natura fisica e sessuale, che i migranti, giunti in Italia, senza alcuna distinzione di status, subiscono una volta che si collocano ai margini o all’interno del mondo del lavoro. Quando non finiscono direttamente nelle mani della criminalità organizzata, italiana e straniera. La distinzioni tra migrazioni economiche e migrazioni per motivi legati al riconoscimento di uno status di asilo o di protezione internazionale, sono sempre più sfumate. Abbiamo di fronte migrazioni forzate, anche per cause ambientali o di desertificazione economica del territorio. Non si può chiudere la porta in faccia a quelle persone che sono state costrette a partire da un’Europa incapace di garantire una qualsiasi probabilità di un futuro dignitoso nelle terre di origine. Nel caso delle grandi aree di crisi come la Siria e la regione che va dal Pakistan all’Afghanistan ed all’Iraq, come per il corno d’Africa, le responsabilità, veri e propri doveri di solidarietà. vanno condivisi su scala internazionale più ampia. Doveri che incombono anche sull’Europa, che ha concluso accordi con i paesi di transito, anche con quelli che non garantiscono alcun rispetto dei diritti fondamentali delle persone, per respingere o detenere quei migranti che cercano, malgrado tutto, di tentare l’avventura della traversata verso l’Italia, la Grecia o la Spagna.

Distinguere tra migranti e rifugiati è pericoloso. Stefano Liberti e Emilio E. Manfredi su Internazionale
Di fronte ad un orientamento politico e culturale contrario a tutte le migrazioni, interne ed esterne, un orientamento che appare ormai maggioritario, occorre smascherare il falso umanitarismo che alcuni governi ostentano per differenziarsi da quelli che più apertamente si oppongono alla mobilità dei migranti, sia europei che in arrivo dai paesi esterni all’Unione Europea. L’invio di organizzazioni non governative in paesi come la Libia, o la ipotesi di affidare alle Agenzie delle Nazioni Unite il compito di “selezionare” i veri richiedenti asilo, oltre il fallimento dell’esperienza del campo di Coucha in Tunisia, aperto nel 2011 e chiuso nel 2017, senza che i tanti migranti,confinati li’ per anni, fossero riusciti ad ottenere uno status legale in Tunisia o una possibilità legale di ingresso in Europa, confermano la fallibilità delle scelte di esternalizzazione del diritto di asilo. Nei fatti poi, sul piano della politica estera e delle prassi di polizia, come nella gestione dei rapporti di lavoro e nella gestione del welfare, o di quello che ne rimane, le differenze tra i diversi stati si attenuano e i diritti fondamentali della persona migrante sono sempre più a rischio, dal diritto alla vita ed a non subire trattamenti inumani o degradanti, fino al diritto di accedere ad un territorio nazionale per chiedere asilo o altra forma di protezione, o al diritto di difendere la propria libertà attraverso una difesa effettiva ed una possibilità di ricorso giurisdizionale [9].
Occorre ripartire dai diritti fondamentali, da riconoscere a tutti ai migranti, siano essi economici o asilanti, ed a tutti i cittadini, come il diritto alla salute, il diritto all’istruzione ed al lavoro, il diritto alla coesione familiare ed al rispetto della vita privata, per restituire identità alle persone che sono comunque costrette a lasciare il loro paese non per effetto di false aspettative, ma per circostanze oggettive di impoverimento o di negazione di quegli stessi diritti fondamentali che, nel mondo globalizzato, spingono verso la condizione di migrante un numero sempre più elevato di persone anche in Europa. La categoria di migrante economico è demolita dall’assenza di una qualsiasi libertà di autodeterminazione. Occorre costruire nuove solidarietà, e lottare per una distribuzione più giusta della ricchezza. I risultati delle ultime elezioni in Germania ed in Austria, costituiscono campanelli di allarme che dovrebbero fare modificare profondamente le politiche in materia di immigrazione ed asilo. Si deve fare comprendere a tutti che il tentativo di bloccare le frontiere produce solo clandestinita’ e nel medio periodo blocca lo sviluppo. Solo una vasta regolarizzazione permanente può permettere un riassorbimento progressivo della enorme saccca di irregolarita’ alimentata dalle politiche di blocco e di (tentato) respingimento.
All’Europa dei muri e dei campi di confinamento, come alle tante barriere che circondano chi la frontiera se la porta addosso, marchio o numero segnato su un polso, occorre opporre un’Europa di cittadini e di istituzioni locali che si interpongono e ricostruiscono nuovi legami sociali, nella difesa dei diritti fondamentali delle persone migranti, e dell’intera popolazione di un territorio. Con il passare del tempo sarà questa l’unica forma possibile di integrazione e di convivenza pacifica. Soltanto questa Europa potrà resistere alla sfida globale ed al declino al quale la condannano rapporti di forza, militare, politica ed economica, ormai incentrati più sui due grandi oceani che sul Mediterraneo.
Per questa Europa che resiste e che rifiuta l’uso del mare Mediterraneo come una frontiera, si dovranno individuare nuove forme di rappresentanza popolare e di soluzione pacifica dei conflitti. Un impegno, anche di ricerca, del quale non è possibile anticipare a priori gli sbocchi. Di certo la storia del Mediterraneo è una storia di coesistenza. Il futuro delle relazioni tra i popoli che si affacciano su questo mare non potrà essere retto da accordi di polizia. Ed occorrerà trovare sedi e tecniche di sanzione di violazioni alle quali non si riesce a trovare risposta davanti ai tribunali ed alle Corti internazionali, anche per la difficoltà di accesso delle vittime alla giustizia. Senza una tutela effettiva anche per coloro che oggi vengono definiti sbrigativamente come migranti economici non potrebbero esistere i diritti fondamentali da riconoscere a tutte le persone, quale che sia la loro condizione giuridica. E la convivenza tra tante persone provenienti a ambienti culturali e politici tanto diversi potrebbe trasformarsi in un conflitto perenne all’interno ed all’esterno dei confini statali, una sorta di stato di guerra permanente. Se questa è la direzione verso la quale ci spingono i populismi ed i nazionalismi di segno diverso, diventa più chiaro che la sfida della solidarietà costituisce l’unica prospettiva possibile di pace.
NOTE
[1] https://ec.europa.eu/europeaid/regions/africa/eu-emergency-trust-fund-africa_en
[2] Mastromartino F., Il diritto di asilo. Teoria e storia di un diritto controverso, Torino, 2012
[3] Palidda S., Polizie,sicurezza e insicurezze ignorate, in particolare in Italia, Revista Crítica Penal y Poder, 2017, nº 13, Octubre (pp.233-259)
[4] Masera L., Nuove norme contro i datori di lavoro che impiegano immigrati irregolari, in https://www.penalecontemporaneo.it/d/1655-nuove-norme-contro-i-datori-di-lavoro-che-impiegano-immigrati-irregolari
[5] In base alla Direttiva 2009/52/CE, prima di assumere un cittadino di un paese terzo, i datori di lavoro sono tenuti a verificare che questi possegga un’autorizzazione di soggiorno nonché a informare le autorità nazionali competenti in caso di assenza di tale documento. I datori di lavoro che sono in grado di dimostrare di avere adempiuto a tali obblighi e che hanno agito in buona fede non sono passibili di sanzioni. I datori di lavoro che non hanno effettuato tali verifiche e di cui è stata accertata l’assunzione di migranti irregolari saranno passibili di sanzioni finanziarie, compresi i costi del rimpatrio nei paesi d’origine dei cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare. Dovranno inoltre rimborsare retribuzioni arretrate, imposte dovute e contributi previdenziali. Solo nei casi piu’ gravi, come ad esempio quando si verifichino violazioni reiterate, o l’assunzione illegale di un minore o ancora l’impiego simultaneo di un numero significativo di migranti il cui soggiorno è irregolare, i datori di lavoro sono passibili di sanzioni penali.
[6] La direttiva tutela i migranti garantendo che percepiscano le retribuzioni arretrate dal datore di lavoro e provvedendo affinché ricevano sostegno da terzi quali sindacati od ONG. La direttiva accorda particolare rilievo all’applicazione delle norme sul rilascio di permessi di soggiorno a vittime di condizioni lavorative di particolare sfruttamento che collaborano con il sistema giudiziario.
[7] Colloca C., Corrado A., La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel Sud Italia, FrancoAngeli Editore, 2013
[8] http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/cruscotto-statistico-giornaliero
[9] http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/bc9d71fe50adf78f32b68253d1891aae.pdf