30 settembre 2017, Milano, Camera del Lavoro.
Intervento introduttivo di Daniela Padoan.
A maggio – di fronte a una costruzione dell’odio e dell’indifferenza nei confronti sia di migranti e profughi, sia di attivisti e Ong che si occupano di migrazione, ma ancor di più nei confronti delle leggi, delle convenzioni e dei trattati che sanciscono il dovere di solidarietà e di soccorso, il diritto di asilo e l’impianto stesso dei diritti umani – abbiamo sentito la necessità di scrivere un appello che impegnasse i firmatari, in quanto cittadini, membri delle istituzioni e operatori dell’informazione, a «tutelare l’onorabilità, la libertà e i diritti della società civile in tutte le sue espressioni umanitarie: quando salva vite in mare; quando protegge e soccorre le persone in difficoltà ai confini; quando vigila sul rispetto del principio di legalità e di uguaglianza; quando denuncia il mancato rispetto dei diritti fondamentali nelle procedure di trattenimento amministrativo e di allontanamento forzato; quando adempie al dovere inderogabile di solidarietà che fonda la Costituzione italiana».
Abbiamo chiesto che venisse lanciato durante la manifestazione del 20 maggio “Insieme senza muri”, e da qui è nata la Carta di Milano, che è stata sottoscritta da un gran numero di associazioni, ong, attivisti, giornalisti, giuristi e cittadini solidali: un patrimonio di cui oggi siamo chiamati a rispondere.
Con la Carta abbiamo assunto l’impegno di dar nascita a un Osservatorio permanente a tutela della libertà e dell’indipendenza della società civile che operi per i diritti di migranti e rifugiati, nella convinzione che sia «prerogativa dei governi illiberali chiedere la chiusura o il controllo delle organizzazioni non governative, dividendole in collaborative e ostili», e che la società civile costituisca una garanzia per la democrazia, che deve essere protetta e incentivata perché rappresenta il nostro sguardo – lo sguardo dei cittadini e di tutte le persone – a protezione dagli eccessi del potere.
La realtà da cui nasceva quell’appello si è aggravata. In pochi mesi, abbiamo visto imbrigliare le Ong in un codice di condotta volto a piegarne la stessa natura, e abbiamo assistito alla metodica distruzione della possibilità di soccorso in mare. Abbiamo visto le navi e gli equipaggi delle Ong minacciati, assaliti e persino sequestrati dalla cosiddetta guardia costiera libica, senza che le autorità italiane ed europee intervenissero in loro soccorso, mentre lasciavano invece campo libero a una nave “nera” armata da un network dell’estrema destra europea, che aveva lo scopo dichiarato di «smascherare le Ong criminose che raccolgono i migranti presso le coste libiche».
Numerosi e inquietanti sono i segni della stretta contro gli attivisti, basti ricordare, in Italia, l’avviso di comparizione per «vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate» ricevuto dall’avvocato Gianluca Dicandia (che oggi è con noi), “colpevole” di aver criticato in pubblico i decreti Minniti-Orlando. O la vicenda di don Mussie Zerai – autorevole candidato al premio Nobel per la pace – accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
A livello europeo i segni non sono meno inquietanti: vanno dai processi contro attivisti e cittadini solidali come Cedric Herrou alla proposta del ministro dell’interno finlandese Paula Risikko di rendere perseguibile per legge chi ospita un richiedente cui sia stata rifiutata la domanda di asilo.
Si tratta di un percorso solo apparentemente casuale, segnato da episodi distinti. La limitazione delle possibilità di intervento della società civile e delle sue organizzazioni nel campo della migrazione è stato deciso e perseguito dal Consiglio e dalla Commissione europea fin dal suo insediamento: fin dalla decisione di designare il greco Dimitris Avramopoulos – il recintatore del fiume Evros, al confine tra Grecia e Turchia – come commissario alla migrazione, e quella, evitata da una grande protesta a livello europeo, di designare l’allora ministro ungherese degli Affari esteri e del commercio Tibor Navracsics a commissario per Educazione, cultura, politiche giovanili e cittadinanza dell’UE. Una posizione che avrebbe messo il consigliere di Viktor Orban, artefice di politiche repressive e intimidatorie contro i media e le ong ungheresi, nella posizione di decidere su progetti e finanziamenti relativi alle organizzazioni non governative europee per la promozione della cittadinanza europea. Una nomina sventata soltanto dalla grande mobilitazione della società civile europea.
L’intenzione della Commissione di impedire alle Ong di disturbare la costruzione della Fortezza Europa era palese già nelle conclusioni del Consiglio europeo del gennaio 2016, tanto che il direttore di Statewatch, Tony Bunyan, lanciò un primo allarme: “Le proposte del Consiglio potrebbero criminalizzare le ONG e i volontari che hanno lavorato eroicamente per accogliere i rifugiati mentre le istituzioni dell’UE non facevano nulla”. Si riferiva allora in particolare alla Grecia, denunciando la volontà di chiedere alle Ong di “registrarsi” con la polizia e lavorare all’interno delle strutture statali. “In un’Unione europea umana e attenta alle persone”, disse, “non dovrebbe essere necessario registrarsi per offrire assistenza e cura a persone che hanno già tanto sofferto. La società civile, i volontari e tutti coloro che nell’UE cercano di aiutare i rifugiati che arrivano dopo essere fuggiti dalla guerra, dalla persecuzione e dalla povertà, dovrebbero unirsi per opporsi ai piani del Consiglio. La criminalizzazione del lavoro delle ONG e dei volontari che lavorano per aiutare i rifugiati non dovrebbe aver posto in una democrazia degna di questo nome”.
Abbiamo visto, invece, nel vertice dei ministri dell’interno dell’UE che si è svolto a Tallin lo scorso luglio, gli Stati membri decidere unanimemente di colpire le ONG, limitandone fortemente l’operato umanitario, secondo la linea indicata da Frontex, attuata dal governo italiano e sancita dalla Commissione europea.
Non dobbiamo dimenticare la lezione dell’Argentina del golpe del 1976, dove i desaparecidos sono stati – più dei guerriglieri montoneros e dell’ERP – gli alfabetizzatori, gli avvocati, i medici, i volontari che andavano nelle “villas miserias” ad aiutare gli ultimi. Chi pratica la solidarietà è un nemico per i regimi, anche per quelli democratici.
Siamo testimoni di un passaggio di soglia di portata storica, in cui è possibile vedere quanto sia fragile la tenuta dello stato di diritto, e quanto sia ormai possibile, per i cittadini democratici, nominare ciò che – lungamente covato e alimentato – era rimasto finora innominabile: i migranti, resi categoria, minaccia, capro espiatorio, possono morire in mare, nel deserto o nei centri libici, come un dato di fatto che non chiama più in causa. L’avversione verso quella che è stata colpevolmente descritta come un’invasione ha riversato odio sui volontari e sugli operatori umanitari che salvano vite nel Mediterraneo, accusati del più sordido dei crimini: lucrare sul traffico di esseri umani – ovvero su quegli uomini, donne, bambini che traggono fuori dal mare.
E gli attivisti, i soccorritori, quelli che per lungo tempo sono state considerate le forze migliori della società, si sono trasformati in testimoni scomodi, in una spina nel fianco, che va ridimensionata, resa amica, o messa in condizione di non disturbare.
L’Osservatorio vuole essere uno strumento per connettere le realtà delle Ong e della società civile solidale, a livello nazionale ed europeo; monitorare e denunciare gli abusi nei confronti di Ong e attivisti; dare sostegno legale, individuando pratiche di auto-aiuto – a chi viene colpito da provvedimenti infamanti e discriminatori; articolare una contro-narrativa mediatica; agire come gruppo di pressione a livello di Parlamento europeo per una revisione della Direttiva sul favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (2002/90/CE) che non dia appiglio agli Stati membri per configurare come reato il sostegno all’ingresso illegale di migranti, in assenza di profitto economico.
Gli atti di solidarietà non costituiscono reato e le organizzazioni umanitarie, così come i singoli attivisti, non possono essere messi sotto accusa per averli compiuti. La responsabilità penale è individuale e i processi non devono essere intentati alle organizzazioni solidali in quanto tali, tantomeno attraverso i media, in un percorso di delegittimazione.
Per questo la Carta di Milano chiede alle istituzioni nazionali e dell’Unione europea “di vigilare affinché non venga sottratta alle organizzazioni umanitarie e alla società civile la possibilità di essere presenti attivamente nel Mediterraneo, alle frontiere di terra e in tutti i luoghi di confinamento e privazione dei diritti fondamentali dove esercita la funzione essenziale e insostituibile di proteggere l’osservanza dello stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, della solidarietà e dell’eguaglianza”. Oggi dobbiamo decidere come dar vita a questo impegno.