A seguito di alcuni articoli della stampa locale palermitana, in merito alla presunta questione delle “spose bambine”, pubblichiamo una riflessione, per noi autorevole, di chi a Palermo vive e lavora.
Un pezzo di Giulia Veca che ringraziamo ancora una volta per il suo contributo.
La settimana scorsa a Palermo c’è stata una valanga. Una valanga in pieno centro che si è abbattuta con il suo carico di calunnie e infamia su una famiglia rom da decenni residente in città.
Tutto inizia quando la primogenita, uscita per sbrigare una commissione, fa perdere le sue tracce. I genitori danno immediatamente l’allarme. Partono le ricerche della Polizia, interrotte il mattino seguente quando la ragazzina fa ritorno a casa. Una notte di angoscia sia per il padre e la madre, che parlano a lungo con le forze dell’ordine, sia per la figlia: una preadolescente che sta entrando in una fase critica della vita, come tutti i suoi coetanei. Anche lei viene ascoltata. Molte ore e molte domande dopo, la famiglia è libera di tornare a casa. Tutto bene, dunque. O no? Purtroppo no, a giudicare dagli articoli che nei giorni successivi vengono scritti su questa famiglia e sulla comunità rom nel suo complesso.
A ricamare i verbali della Polizia ci pensa La Repubblica che sulle pagine nazionali attribuisce i motivi dell’allontanamento a una ribellione della ragazzina contro un presunto matrimonio che la famiglia avrebbe voluto imporle con un anziano parente residente in Francia[1]. Notizia che non trova alcuna conferma e che anzi tutti smentiscono fermamente, soprattutto la diretta interessata, durante i colloqui con psicologi e assistenti sociali che la incontrano nei giorni seguenti. L’autore del pezzo decide arbitrariamente che la fuga di una ragazzina rom può esistere solo all’interno di un contesto etnico, dove “etnico” significa chiuso, oscuro, violento, lontano da noi e dalle nostre abitudini. Se sei una giovanissima rom non ti è concesso litigare con i tuoi genitori, essere di malumore, volubile, non parlare per un giorno intero e sommergerli di parole il giorno dopo. A te e alla tua famiglia è concesso solo essere rom. E per di più, rom posseduti da e non in possesso di alcune tradizioni che il giornalista definisce “cattive”. Ai lettori viene restituita un’immagine estremamente negativa di questa famiglia e della popolazione romanì in toto, appiattita su uno stereotipo che vuole i rom “tutti uguali, tutti ugualmente brutti, sporchi, cattivi. E colpevoli”[2]. Perché il tema della colpa è presente dalla prima all’ultima riga del pezzo. Non è chiaro a quali tradizioni si riferisca il giornalista, che evidentemente deve conoscerle a fondo per arrogarsi il diritto di giudicarle “cattive”, ma soprattutto deve saper riconoscere nel comportamento di una famiglia da decenni residente in città, i cui figli frequentano le scuole, hanno amici italiani, usano facebook, mangiano le arancine, tifano per la squadra del Palermo, la cifra di queste cattive tradizioni. Eppure Leonardo Piasere, un antropologo che ha trascorso gli ultimi trent’anni occupandosi della popolazione romanì, ha definito quello rom un “mondo di mondi”, evidenziandone la ricchezza e la varietà di tradizioni, dialetti, abitudini, sensibilità religiose. Un’immagine che si oppone con forza a quella monolitica e maligna consegnata dal quotidiano ai suoi lettori, i quali ventiquattr’ore dopo aprono le pagine di cronaca locale e scoprono che la storia (falsa, come abbiamo detto) del matrimonio imposto non riguarderebbe solo quel nucleo familiare ma sarebbe una consuetudine di tutta la popolazione romanì, che per di più la condividerebbe con la comunità proveniente dal Bangladesh. Ormai la valanga si è staccata dalla montagna e precipita a valle alla velocità della luce, travolgendo tutto ciò che incontra nella sua corsa inarrestabile. Bastano tre parole nel titolo per trasmettere paura e sentimenti xenofobi: “spose”, “bambine”, “allarme”[3]. Ci sono delle bambine da salvare e delle famiglie da crocifiggere. Come restare indifferenti?
L’autrice del pezzo intervista un’operatrice psicopedagogica dell’Ufficio scolastico regionale, alcune insegnanti e due professioniste impegnate nella lotta contro la violenza di genere. L’operatrice psicopedagogica afferma che la dispersione scolastica riguarda i rom e i bangladesi. Andava offerto però qualche dato, utile a dimostrare ad esempio che la dispersione scolastica riguarda anche i rom e i bangladesi, essendo un fenomeno che ha poco a che fare con l’appartenenza etnica, perché altrimenti i minori italiani dovrebbero esserne esclusi. Neanche il racconto delle insegnanti è suffragato dai dati. Alla base di quello che viene presentato come un “fenomeno” si citano: “il caso di una sedicenne”, “un paio di alunne che ogni anno segnalano il rischio (corsivo mio) di un matrimonio combinato”, una quattordicenne che “ha lasciato l’ultimo anno di scuola media per tornare in Pakistan” e una quindicenne che “ha vissuto per anni con la paura di dover lasciare Palermo per sposarsi”. Nessuna di queste singole storie, certamente vere e certamente dolorose, ha nulla a che fare con i rom. Infine, le attiviste interpellate dicono – correttamente – che i matrimoni precoci sono una forma di violenza. Neanche loro però riportano dati sulla popolazione romanì, né citano storie singole. Ma ormai, giunti alla fine dell’articolo la giornalista dà la sua stoccata personale quando afferma che: “nella cultura nomade i casi sono molto frequenti”. Il fango ha sommerso un intero popolo. Lo dice, anzi lo urla quel “nomade” riferito a comunità sedentarie da secoli, ma ancor di più la totale assenza di numeri sui quali basare una riflessione. E il motivo per cui la giornalista non può citarli è che non esistono dati sui matrimoni rom, poiché la maggior parte dei rom stranieri presenti nel nostro Paese si sposa con riti tradizionali e non si reca in Comune per ufficializzare le unioni che dunque sono, per la legge italiana, solo convivenze. Inoltre, chiunque conosca per esperienza diretta o per studio le comunità rom italiane e straniere, sa bene che accanto alle unioni concordate dai genitori di ragazzi e ragazze (mai tra bambine e anziani), ci sono centinaia di ragazzi e ragazze che portano avanti gli studi superiori, scelgono in autonomia i loro compagni di vita, lavorano. Sono meno rom di quegli altri rom? Nessuna di queste storie viene raccontata nel pezzo, che mette insieme un quadro il più possibile compatibile con l’articolo del giorno precedente.
La calunnia ormai galoppa senza freni quando a distanza di poche ore Libero aggiunge l’ultima infamante accusa: “Bambine sparite da scuola e vendute”[4]. L’articolo, una fotocopia dei pezzi scritti dai colleghi di Repubblica, è anch’esso privo di numeri, casi, riflessioni che non siano prodotte dai pregiudizi più stantii. Concede però ampio spazio a una giornalista di origine marocchina, deputata di Lega-noi con Salvini, la quale si chiede se le bambine magrebine che smettono di frequentare la scuola sono “prossime jihadiste”. La signora però ha una certezza: se dovesse passare la riforma della legge sullo ius soli le piccole “diventeranno merce di scambio”.
Il Movimento Cinque Stelle del capoluogo siciliano, alla luce di questi articoli che vengono incredibilmente definiti “inchieste”, decide di far sentire la sua voce con un’interrogazione al Sindaco di Palermo[5]. Il salto di specie è compiuto: dalle pagine dei giornali si passa alle aule consiliari.
Recuperare la verità in mezzo a tanto fango non è più possibile. Giace sepolta sotto quintali di menzogne. Sotto domande che orientano le risposte. Sotto paragoni basati su premesse discutibili. Sotto ricostruzioni parziali e fuorvianti.
La famiglia rom, la cui vicenda è stata manipolata da un cattivo giornalismo è ancora scossa e pur avendo considerato insieme al suo legale l’ipotesi di una denuncia per diffamazione a mezzo stampa, ha deciso di non procedere. Vuole solo che i riflettori si spengano. Ma non sarà facile che ciò accada. Benché non abbia citato il cognome, il primo articolo ha indugiato in particolari che hanno reso riconoscibilissimi i suoi membri.
Una signora palermitana che aveva promesso di regalare uno zainetto per il nuovo anno scolastico ha cambiato idea dopo aver letto gli articoli e i numerosi commenti dei concittadini imbufaliti. “Lo zaino non ti serve” – ha detto alla madre della bambina – “quindi non te lo regalo più”.
[1] Cfr. il link http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/09/08/la-sposa-bambina-si-ribella-alle-nozze-la-salva-un-coetaneo20.html?refresh_ce
[2] F. Faloppa, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 95.
[3] Cfr. il link: http://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/09/09/news/le_spose_bambine_di_palermo_l_allarme_decine_i_casi_poche_denunce_-174978911/
[4] Cfr. il link https://www.pressreader.com/italy/libero/20170910/281745564544892
[5] Cfr. il link http://www.ilsicilia.it/spose-bambine-a-palermo-interrogazione-del-m5s-al-comune/