Si riunisce il Consiglio Europeo della deterrenza, ma senza diritti alle frontiere terrestri e marine non ci sarà mai sicurezza.

Di Fulvio Vassallo Paleologo

Il recente Consiglio Europeo di Bruxelles ha sancito il sostegno dell’Unione agli accordi tra il governo italiano e il governo di Tripoli, nell’esternalizzazione delle attività di contrasto della migrazione “irregolare”, l’unica possibilità di salvezza ancora aperta per chi deve fuggire dalla Libia, dove si moltiplicano abusi e violenze, ai danni di chi entra in quel paese. Uomini donne e bambini già in fuga da stati di origine nei quali non viene garantito il diritto ad un esistenza dignitosa e libera, che si ritrovano in balia di milizie che scambiano i migranti come merce, per incassare il massimo profitto. Per non parlare dei minori e delle giovani donne destinatate alla tratta ed allo sfruttamento in Europa. La moltiplicazione dei centri di detenzione e delle “connecting house” in Libia è confermata anche dai Rapporti dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM).

Il Consiglio europeo di Bruxelles ha adottato scelte operative solo sul fronte del contrasto dell’immigrazione. Sono dunque rimaste inascoltate le richieste rivolte allo stesso Consiglio Europeo dalla società civile e dalle ONG che soccorrono i migranti in mare. Intanto non si attenuano gli attacchi a chi fa ricerca e salvataggio in mare al posto dei mezzi degli stati che si sono ritirati dalle acque internazionali prospicienti la costa libica. Emergono dati inconfutabili che dimostrano come l’intervento delle navi umanitarie risulti sempre più frequente proprio per effetto del ritiro delle missioni di Frontex e della Marina italiana, operazione Mare Sicuro. Assetti navali bene armati che lo scorso anno garantivano un numero molto più elevato di interventi e condizioni di sicurezza alle attività SAR delle navi umanitarie, oggi sempre più esposte ad attacchi da parte dei trafficanti e delle milizie che si nascondono dietro la sigla della cd. Guardia costiera libica. Che poi non si può proprio definire “libica”, perché non controlla che una minima parte dei 1900 chilometri di quella che, solo come entità geografica, si può ancora chiamare Libia.

I nuovi mezzi inviati da Frontex, che ha ritirato la Siem Pilot, sostituita dalla nave Triton, sono mezzi veloci ,ma assai piccoli, che non hanno alcuna possibilità di soccorrere più gommoni contemporaneamente, imbarcando a bordo centinaia di persone. Si tratta di mezzi che vengono peraltro tenuti lontano dalla zona di Sabratha e Zawia, dove sono più intense le partenze, e che stazionano ad ovest di Tripoli, più in funzione di avvistamento, che di raccordo, come si verificava lo scorso anno, con le navi umanitarie che rimangono a decine di miglia di distanza più ad ovest. Un dispiegamento che conferma lo scarso impegno di Frontex nel soccorrere vite in mare, come pure sarebbe previsto dal Regolamento 656/2014, sempre che le imbarcazioni di questa agenzia si trovassero in una zona vicina a quella dalla quale provengono la maggior parte delle chiamate di soccorso. I dati più recenti confermano la riduzione dell’impegno di Frontex nelle attività di ricerca e soccorso coordinate dalla Guardia Costiera italiana.

L’abbandono di una vasta zona di mare alla Guardia Costiera di Tripoli e gli attacchi alle organizzazioni umanitarie esposte al fuoco di militari libici e di trafficanti sta provocando un aumento esponenziale di morti e dispersi. Frutto anche delle campagne di odio e di disinformazione innescate da Frontex e da alcuni mezzi di informazione delle destre europee. Di certo la presenza delle navi umanitarie riduce il numero delle vittime che altrimenti sarebbe molto più elevato per il ritiro dei mezzi di Frontex e di Eunavfor Med, e per il riposizionamento delle navi militari italiane della missione Mare Sicuro.

Le dichiarazioni della Commissaria UE Mogherini, alla vigilia del vertice di Bruxelles facevano già presagire la conferma della linea della deterrenza che i governanti europei avrebbero adottato, una linea disumana, che sta comportando una crescita esponenziale delle vittime, e non riesce neppure a sortire il risultato di chiudere la rotta del Mediterraneo centrale. Le dichiarazioni della Mogherini erano tutte improntate ad un incremento della formazione congiunta e della cooperazione pratica con la polizia e la Guardia costiera del governo di Tripoli, impropriamente definita come Guardia costiera “libica”. Ha affermato la Mogherini,” we have trained more than 110 Libyan coastguards. I discussed this also with Prime Minister [of the Government of National Accord of Libya, Fayez] al-Sarraj yesterday here in Brussels. We are ready to train more. And we are waiting from him new names that we will vet from a security point of view and then train. We are also coordinating strongly our action with the Italian authorities that as you know are delivering vessels to the Libyan coastguards. And we will also look at ways to monitor the work of the Libyan coastguards, especially when it comes to efficiency in saving lives, fighting smugglers, but also in terms of human rights and living conditions inside Libya. That is why for us the partnership with IOM and UNHCR inside Libya is so important. The European Union is financing their work inside Libya; especially access to camps is very important. So we will continue to train the Libyan coast guards, we will continue to work inside Libya with IOM and UNHCR and the relevant international organisations.

Non diversa la posizione del Presidente del Consiglio UE Tusk, secondo cui more must be done to keep people from disembarking from Libya’s 1,900 km coastline. I don’t see why we cannot bear greater financial responsibility for the functioning of the Libyan navy coastguards.” Lo stesso Tusk ha descritto “the Libyan coastguard as allies in the fight against smugglers”.

A Bruxelles i leader europei, dopo un incontro tra il Segretario della Nato Stoltenberg ed il capo del governo di Tripoli Serraj, hanno quindi confermato il loro supporto al Memorandum di intesa con la Libia stipulato il 2 febbraio scorso da Gentiloni, ed ai precedenti accordi di natura formativa tra Eunavfor Med con la Cd. Guardia Costiera libica. Al di là delle parole e delle dichiarazioni di principio, però, la solidarietà richiesta dal governo italiano non si vede ancora, né come partecipazione ai costi sempre più elevati delle intese con i libici, né in termini di una maggiore possibilità di rilocazione in Europa dei migranti che arrivano dalle coste libiche. Le proposte allo studio a Bruxelles, anzi, sia per la ventilata riforma del Regolamento Dublino n.604 del 2013, che per la riformulazione come Regolamenti delle Direttive in materia di protezione internazionale, che dovrebbero costituire il sistema comune europeo (CEAS), aggravano ulteriormente la situazione dei paesi più esposti geograficamente, come Grecia ed Italia. Le proposte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e della società civile sono rimaste del tutto inascoltate.

Il premier tripolino Serraj, in un incontro con il segretario Nato Stoltenberg e con altri leader europei, tra cui il premier maltese e quello italiano, ha comunque respinto l’ipotesi di un blocco dei migranti nei centri di trattenimento libici, chiedendo agli Stati UE ulteriore supporto economico per la gestione dei centri di detenzione e per le operazioni di rimpatrio forzato nei paesi di origine dei migranti “illegali” arrivati, ed ancora in arrivo, in Libia.

Nell’incontro con Stoltenberg a Bruxelles, il 22 giugno scorso, Serraj ha incassato il rinnovato impegno della Nato per la ricostruzione di un efficace sistema di difesa e sicurezza. Al centro di questa politica la deterrenza nei confronti di qualsiasi movimento dei migranti presenti in Libia ed il loro possibile rimpatrio nei paesi di origine.

Mentre si è discusso di armi e risorse finanziarie per “pacificare” il paese, l’asse delle riunioni preliminari e poi del Consiglio Europeo concluso il 23 giugno scorso è rimasto incentrato sul blocco dei migranti, sulla  loro detenzione e sui respingimenti, senza alcuna considerazione per le gravi violazioni dei diritti umani che si verificano in Libia, tanto ai danni dei transitanti quanto nei confronti della popolazione residente.

I governanti europei hanno semplicemente ignorato le circostanziate denunce che si stanno sommando a livello mondiale sulle atroci condizioni di trattenimento, ai limiti del sequestro di persona, inflitte ai migranti in Libia, sia da parte di autorità di polizia riconducibili alle milizie, che da parte delle organizzazioni criminali dei trafficanti, da sempre colluse, a seconda delle convenienze politiche e militari, con una parte delle milizie e delle diverse guardie costiere libiche. La sparuta pattuglia di parlamentari europei che ha sollevato la questione del rispetto dei diritti umani in Libia è stata ignorata. Non si comprende come si possa ritenere che le decisioni di Bruxelles maturino nel rispetto della divisione di competenze sancite dai trattati, soprattutto in una materia che incide profondamente sull’intera politica estera dell’Unione, ma nella quale sta ormai prevalendo la delega a singoli stati ed in qualche caso anche a paesi terzi.

Gli interventi di ricerca e soccorso e poi le attività di sbarco a terra non possono essere delegati alla guardia costiera libica ( di Tripoli) che non garantisce né l’efficacia e la tempestività dei soccorsi, né la possibilità di sbarco in un “place of safety”, come sarebbe richiesto dalle Convenzioni internazionali.

Un recente rapporto delle Nazioni Unite sulla Libia conferma lo stato di disfacimento delle istituzioni di quel paese e la costante violazione dei diritti umani, anche ai danni della popolazione libica, da parte delle milizie armate. Ancora più esposta la condizione dei migranti in transito, soprattutto quelli più giovani, le donne, le persone più vulnerabili.

Di fronte ad una situazione tanto complessa continuano a stupire per la superficialità che traspare, le dichiarazioni del ministro degli esteri Alfano, secondo cui “Abbiamo un piano complessivo” per la gestione dei flussi migratori sulla rotta del Mediterraneo centrale “che ha come obiettivo quello di controllare al meglio la frontiera nord della Libia e aiutare attraverso accordi” con i Paesi africani di transito, ad evitare “l’ingresso dei migranti che partono dal Corno d’Africa in Libia. Questa è la nostra strategia”.

Alfano ha in mente una precisa Roadmap che però coinvolge una sola parte libica e rischia di esacerbare ancora di più lo scontro tra il governo di Tripoli ed il governo di Tobruk, controllato dal generale Haftar, che gode del supporto politico e militare di Egiziani e Russi.

Le dichiarazioni di Alfano sono sconfortanti per l’approssimazione che esprimono e per la totale mancanza di aderenza ad una realtà che dopo la crisi del Qatar si fa sempre più complessa. “Ci portiamo avanti col programma e il 6 luglio ospiteremo a Roma alcuni Paesi di transito per evitare che ci sia una dispersione delle energie. Abbiamo fatto l’accordo con la Libia, l’abbiamo fatto col Niger, adesso lo dobbiamo fare con altri Paesi africani”, così riferisce l’ANSA in occasione del vertice europeo di Bruxelles.

Non è da meno del resto il premier Gentiloni, che dopo la conclusione del Consiglio Europeo di Bruxelles ha affermato testualmente : “Credo che l’Italia possa essere soddisfatta dalle conclusioni raggiunte, anche se sappiamo bene che i problemi con cui ci dobbiamo confrontare non si risolvono con le conclusioni di un documento del Consiglio europeo”,che “mantiene il suo impegno a favore dell’approccio globale dell’Ue alla migrazione, del controllo efficace delle frontiere esterne al fine di contenere e prevenire i flussi illegali e della riforma del sistema europeo comune di asilo, nonché di un’attuazione piena e non discriminatoria della dichiarazione Ue-Turchia in tutti i suoi aspetti e nei confronti di tutti gli Stati membri”.

Nelle Conclusioni del Consiglio Europeo si sprecano le belle parole, ma la sostanza rimane improntata ad una rigida logica di deterrenza: “Le perdite di vite umane e i persistenti flussi di migranti soprattutto economici sulla rotta del Mediterraneo centrale costituiscono una sfida strutturale e continuano a destare gravi e urgenti preoccupazioni. L’Ue e i suoi Stati membri dovranno ripristinare i controlli per evitare un peggioramento della crisi umanitaria”. Come se la crisi umanitaria in Libia non fosse proprio una conseguenza dell’inasprimento dei sistemi di controllo delle frontiere esterne dell’Unione Europea. L’Unione Europea dovrebbe cessare immediatamente qualunque forma di collaborazione con la Guardia costiera di Tripoli che non garantisce alcun rispetto dei diritti umani e della integrità fisica delle persone bloccate in mare  e riportate in territorio libico come “migranti illegali”. Non lo chiede soltanto Amnesty, lo impongono le Convenzioni internazionali che il nostro governo continua a violare malgrado le condanne ricevute dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei casi Hirsi e Khlaifia. Ma ormai il tema della sicurezza stravolge la tutela dei diritti fondamentali.

Secondo le  Conclusioni  dell’ultimo Consiglio Europeo di Bruxelles, “Sarà portata avanti la vigilanza su tutte le rotte migratorie, tra cui quella dei Balcani occidentali. Continueremo a rafforzare e a sfruttare appieno le capacità operative della Guardia di frontiera e costiera europea e delle altre agenzie. Un controllo efficace delle frontiere esterne dovrebbe consentire di eliminare i controlli temporanei alle frontiere. Ma sul contributo effettivo, ed economico al controllo delle frontiere esterne, dopo le risorse dilapidate con le missioni di Frontex, non si sbilancia più nessuno, soprattutto sul tema della necessaria garanzia dei diritti umani e degli obblighi di soccorso sulla rotta del Mediterraneo centrale, quella sulla quale si continua a registrare il maggior numero di ingressi via mare in Unione Europea. Anche il governo italiano nutre al riguardo molti dubbi sul contributo effettivo che potrà garantire una Unione Europea sempre più divisa.

Gentiloni afferma ancora come occorra “una cooperazione costante e rafforzata con i Paesi di origine e di transito, nonché il potenziamento della cooperazione regionale nelle attività di ricerca e soccorso, che costituisce tuttora una priorità elevata”, e dunque che “ la cooperazione con i Paesi di origine e di transito deve essere rafforzata al fine di contenere la pressione migratoria alle frontiere terrestri della Libia e di altri paesi limitrofi”. Anche se si tratta di cooperare con governi di paesi come il Sudan, il Niger, l’Egitto o la stessa Libia ( parte Tripoli), in prospettiva anche l’Etiopia e l’Eritrea, che si caratterizzano per documentate e ricorrenti violazioni dei diritti umani. Non si vede poi da dove dovrebbero arrivare le ingenti risorse richieste da una tanto estesa “esternalizzazione” dei controlli di frontiera.

Rimane comunque confermato, almeno sulla carta, che tra le priorità indicate dal Consiglio europeo e riprese dal governo italiano vi dovrebbero essere, il rafforzamento della cooperazione regionale nelle attività di ricerca e soccorso e l’accelerazione del sostegno UE alla formazione e all’equipaggiamento della guardia costiera libica., o meglio di quella che viene definita come “Guardia costiera libica”, anche se in realtà ha un ambito operativo molto ridotto, corrispondente ai pochi territori a terra controllati dal governo Serraj, con l’appoggio di alcune milizie di Misurata. Di misure concrete non se ne vedono, né vengono resi noti i protocolli attuali di coordinamento tra la Guardia Costiera libica e la Guardia costiera italiana, non potendo valere certo per intero quelli stipulati dal governo Prodi nel 2007. Occorre fare chiarezza sulle reali attività di coordinamento dopo che in recenti occasioni di interventi in area SAR (Search and Rescue) a ridosso delle acque libiche, il Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC) ha ordinato alle navi umanitarie di ritirarsi e di attendere l’arrivo delle motovedette di Tripoli. Eppure, malgrado tutto, sono ancora le navi delle ONG che devono farsi carico della maggior parte dei soccorsi, dopo l’allontanamento delle navi della missione TRITON di Frontex, la stessa agenzia che poi è salita sul banco degli accusatori, denunciando presunte complicità tra i trafficanti e gli operatori umanitari.

Appare dunque sempre più probabile un ulteriore peggioramento delle condizioni dei migranti intrappolati in Libia, mentre non si vede un termine per le partenze, anche trenta gommoni in due giorni come nell’ultimo fine-settimana, dunque almeno tremila persone che dovrebbero essere soccorse e trasferite in un luogo sicuro, e non in un porto libico nel quale rischiano di essere preda ancora una volta dei trafficanti che li hanno già venduti ed abusati.

Sono del resto la stessa Unione Europea e l’agenzia Frontex che ammettono il fallimento delle politiche di sbarramento e di dissuasione, basate anche sull’attacco sistematico alle ONG che continuano a fare soccorso in mare, in acque internazionali, fino a 14 miglia dalla costa libica, a fronte del ridimensionamento dell’operazione Eunavfor Med e del ritiro della maggior parte dei mezzi già impegnati, nella stessa zona, lo scorso anno nell’operazione TRITON di Frontex.

I mezzi di informazione, se non si tratta di gettare fango su chi fa soccorso in mare, nascondono all’opinione pubblica, peraltro ormai assuefatta e complice, le tragedie che si compiono in acque internazionali, e nei territori libici dove detta legge la violenza delle bande armate. Eppure, basterebbe una ricerca in rete per scoprire come stanno davvero le cose in Libia, esattamente come confermato nei rapporti di Amnezty International, di MSF e di Human Rights Watch.

Si nasconde anche il vero numero delle vittime in mare, anche perché ormai le stragi che si verificano con cadenza settimanale sono comunicate con grande ritardo in quanto le uniche fonti di notizia non sono più istituzionali, ma risalgono alle denunce sempre più drammatiche dei superstiti, raccolte dall’UNHCR e dall’OIM, negli Hotspot e negli altri luoghi di sbarco,dopo che i numerosi funzionari Frontex, che intervistano per primi i migranti sbarcati a terra, concentrano la loro attenzione sui presunti scafisti e sulla individuazione dei trafficanti e di possibili testimoni ai quali promettere un permesso di soggiorno. Senza nessuna attenzione per i diritti delle persone ancora traumatizzate e senza ascoltare i loro racconti quando possono chiamare in causa l’assenza di soccorsi ed il ritiro delle missioni europee.

I Migration compact ( accordi di cooperazione) con i paesi di origine e transito, malgrado il fallimento conclamato del Processo di Khartoum, evidente dopo i risultati negativi del vertice de La Valletta a Malta il 3 febbraio scorso, vengono ancora riproposti come la strada maestra da seguire, anche se non si comprende sulla base di quali risorse finanziarie. Mentre si comprende ormai molto bene che i paesi europei per tentare di mettere in sicurezza le frontiere esterne ( ammesso che ci si possa riuscire in questo modo) sembrano disposti a stingere accordi con le peggiori dittature come quella sudanese. Ed a far morire per mare migliaia di persone, tra questi sempre più numerosi proprio sudanesi, come in effetti si sta verificando. Persino la Repubblica Ceca, esponente dei “falchi” europei riuniti nel gruppo di Visegrad ( Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca) esprime il suo sostegno per la delega alla Guardia Costiera libica delle attività di arresto e di respingimento dei migranti in mare. Ed i piani dell’Unione Europea, malgrado il fallimento del processo di Khartoum, continuano a guardare al Sudan come un partner decisivo per fermare le migrazioni dirette verso l’Europa.

The EU’s action plan will involve building the capacities of Sudan’s security and law enforcement agencies, including a paramilitary group known as the Rapid Support Forces (RSF), which has been branded as Sudan’s primary “border force.” The EU will assist the RSF and other relevant agencies with the construction of two camps with detention facilities for migrants. The EU will also equip these Sudanese border forces with cameras, scanners, and electronic servers for registering refugees. There are legitimate concerns with these plans. Much of the EU-funded training and equipment is dual-use. The equipment that enables identification and registration of migrants will also reinforce the surveillance capabilities of a Sudanese government that has violently suppressed Sudanese citizens for the past 28 years. Sudan’s strategy for stopping migrant flows on behalf of Europe involves a ruthless crackdown by the RSF on migrants within Sudan. Dogged by persistent armed uprisings led by opponents protesting chronic inequalities in the distribution of national wealth and political power in its periphery regions, the Sudanese government has always relied on a plethora of militia groups to counter insurgencies.

Adesso, dopo gli attacchi alle ONG che fanno soccorso in mare, sembra che la parola d’ordine sia diventata quella di sbarrare le frontiere meridionali della Libia, un compito che si vorrebbe affidare alle missioni militari e non alla pacificazione della regione, una regione sempre più tormentata da una crescente presenza di milizie jiahdiste.

Sembra addirittura che l’Unione Europea voglia progettare una missione in Sahel proprio al fine di bloccare il traffico dei migranti, senza considerare le ragioni politiche ed economiche che rendono da anni possibile quel traffico.

Si sommano così menzogne su menzogne, e propositi irrealizzabili, oltr che basati su dati inesistenti, che hanno come unico scopo quello di aumentare il consenso elettorale, trasmettendo a chi deve inserire una scheda nell’urna la falsa percezione della sicurezza che deriverebbe da accordi tutti da concludere, con paesi che non sono neppure in grado di garantire un minimo di legalità se non i diritti umani al loro interno, e che di colpo vengono evocati come partner dell’Unione Europea nella “lotta contro l’immigrazione illegale”. Per questo danno fastidio le voci indipendenti di chi denuncia come stanno davvero le cose, e per questo è altamente probabile che gli attacchi contro le ONG che non si piegano ad un ruolo “embedded” si ripeteranno ancora in futuro. Intanto le ONG sotto attacco fanno sentire la loro voce e rilanciano denunce importanti anche dai paesi di transito nei quali sono impegnate.

Interview with Jean-Guy Vataux, MSF head of mission in Libya

23 June 2017

Jean-Guy Vataux, head of mission in Libya, explains how MSF is providing assistance to migrants, refugees and asylum seekers. Most of them have been robbed, taken under the control of criminal networks, abused, jailed, beaten up or tortured. Some have died.  Since July 2016, MSF has provided lifesaving and primary healthcare to refugees and migrants detained in Tripoli. A  new project opened in early 2017 to find ways to assist migrants, refugees and asylum-seekers in the Misrata area. These activities are now expanding.

MSF provides medical and humanitarian aid inside detention centres in Misrata.  How is it going?  What is the situation there?

In and around Misrata, the teams started activities few months ago in three detention centres, formally under the authority of the Directorate for Combatting Illegal Migration (DCIM).

The number of detainees varies from one week to the next. They have been stopped at sea by the Libyan coast guards or arrested in towns, at checkpoints, etc. Some arrive here after being transferred from other detention centres in Tripoli. We have also met people who have lived and worked in Libya for years. A migrant who moved to Libya with his family can be jailed simply because he tested positive for hepatitis C.

In the detention centres, the majority of health issues affecting the patients are directly linked to the conditions there and the violence that marked their journey: skin diseases, scabies, diarrhoea, respiratory infections, muscular pain, wounds, but also psychosomatic disorders. MSF provides referrals to secondary and specialised care for those who need it, such as patients with fractures, and distributions hygiene and relief items.

While it is possible to marginally improve detention conditions, let us not lose sight of the core issue: people are jailed, theoretically awaiting expulsion, following an opaque process that denies them their basic rights.

According to the International Organization for Migration (IOM), around 7,100 people are detained in the 27 detention centres officially operated by the DCIM, mostly in Tripoli. What about other migrants, refugees and asylum seekers in the country? Can you tell us more about them?

The IOM identified over 380,000 migrants currently in Libya. People held in detention centres under the authority of the DCIM only account for a relatively small proportion of the total migrant and refugee population in Libya.

Some came to work in Libya, which once was an economic Eldorado for nationals from neighbouring countries.  Others work to try secure funding for the Mediterranean crossing, working under conditions that fall within the scope of forced labour, and spending time in detention. Some  are just beginning their journey across Libya.

The journey through the Libyan desert and time spent in the “unofficial” centres – the connection houses and warehouses run by criminal networks – are described as excruciating experiences by those who survived. This remains a blind spot for us.

In 2016, around 5,000 people drowned in the Mediterranean, and in 2017 the toll is already estimated at 2,000 people as of June. But how many die before reaching the coast and embarking on boats?  

Men detained in Abu Salim detention centre, in Tripoli, Libya.

What is MSF trying to do to assist them?

This month, we opened an outpatient clinic in Misrata town to reach out to migrants and refugees who live and work here under various conditions. In addition to providing them with free and confidential healthcare, we want to better understand their challenges. The respect of medical confidentiality is key in such contexts, where developing certain diseases can be grounds for detention and expulsion.

Then there is the question of how to help people in the worst moments of their migration journey.  So far, we do not have an answer. We continue to attempt to negotiate access to people on the road to the coastal cities. We will see what kind of working space we are able to negotiate or not. The risk of failure is significant.  We certainly need to develop other operational methods. Our team regularly goes south of Misrata, where the corpses of those who are referred to as “migrants” are taken to the local morgue. There are reportedly around ten corpses a week.

La situazione internazionale, affidata a rapporti di dominio economico e militare che violano quotidianamente i diritti dei popoli, non lascia molto adito alle speranze di pacificazione, ed alle vecchie crisi se ne potrebbero sommare anche di nuove, con effetti proprio sulle sponde del Mediterraneo.

La prima ripercussione in Africa della grave crisi tra il Qatar e la cordata guidata dall’Arabia Saudita è stato il ritiro del contingente del piccolo emirato dai territori del Gibuti contesi al confine con l’Eritrea: entrambi gli Stati hanno scaricato Doha, schierandosi con Riad e il Qatar di tutta risposta ha tolto il suo presidio di peacekeeping da Gibuti che denuncia la rioccupazione dell’area da parte di Asmara. La crisi locale aggiunge instabilità al corridoio strategico tra il Corno d’Africa e la penisola araba, già minato dalle conseguenze della guerra civile in Yemen, in corso dal 2015 senza accenni di tregua.

Alcune proposte per una via alternativa, per soluzioni pacifiche alle crisi, per garantire una mobilità umana controllata ed un maggiore rispetto dei diritti umani sono state avanzate da tempo ma continuano ad essere sistematicamente ignorate.

La deterrenza che si vorrebbe praticare adesso in Africa, voluta da Bruxelles e dal governo italiano, produce tragedie che si nascondono ad una opinione pubblica sempre più infarcita di menzogne contro i migranti e chi li assiste. Occorrerebbe aprire canali legali di ingresso e si sbarrano quelle poche vie di fuga che esistono.

Ormai e’ guerra aperta contro chi non si allinea alle politiche governative. Si criminalizza la solidarietà e si assolve chi omette i doveri di ricerca e di soccorso. Attendiamo di vedere a quali risultati porteranno le inchieste della magistratura sulle stragi del 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa e dell’11 ottobre 2013, a sud di Malta. Intanto, ad ogni soccorso, riparte la campagna di diffamazione delle ONG, le menzogne sono diventate senso comune. Gli imprenditori politici della paura incassano il loro vantaggio elettorale. Quando si realizza nella storia una tale inversione di senso, con politiche criminali e criminogene che prevalgono sugli obblighi di solidarietà e di accoglienza, quando politici e agenti criminali detengono il monopolio dell’uso della forza e chi assiste e salva vite umane viene messo sotto inchiesta, se non direttamente condannato dai “tribunali popolari” istituiti sulle pagine dei giornali e nei siti web, allora davvero possiamo dire che il fascismo, in forme diverse e tecnologicamente evolute, e’ ritornato, nei tanti populismi che si affermano nelle urne elettorali. Non è a rischio la sicurezza individuale, sono ormai compromessi la democrazia costituzionale e lo stato di diritto. Per tutti.