Stefano Galieni
Abbiamo incontrato Nancy Porsia, giornalista, freelance e producer, esperta di Medio Oriente e Nord Africa, nel novembre del 2015, quando partecipò al nostro primo convegno organizzato come ADIF, a Palermo dal titolo “Pace e diritti nel Mediterraneo. Da allora, di pace e di diritti se ne sono visti pochi, la situazione è andata via via peggiorando in tutto lo scacchiere, nel 2016 si è avuta la punta massima di morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa e quest’anno non sembra voler segnare discontinuità positive con il precedente. Anzi anche l’intervento generoso di alcune Ong per andare a salvare le persone in procinto di naufragare – stante l’assenza di interventi istituzionali europei dedicati appositamente alle operazioni di SAR (search and rescue) è sotto attacco da parte di FRONTEX, delle destre italiane ed europee e da una parte dei media internazionali. Indagini di alcune procure, una apposita indagine conoscitiva in merito realizzata dalla Commissione Difesa del Senato, non hanno ad oggi portato ad individuare alcuna ipotesi di reato. La vulgata che si cerca di far passare secondo cui la presenza delle navi umanitarie costituirebbe un pull factor, un fattore di attrazione per i migranti che fuggono dalla Libia, è smentita in continuazione. L’ultimo rapporto in tal senso è stato realizzato da alcuni ricercatori della Goldsmiths University of London.
Lo studio è stato realizzato da Charles Heller, Lorenzo Pezzani e appunto Nancy Porsia che ha curato l’analisi delle reti dei trafficanti libici. Nancy Porsia in Libia ci ha vissuto dalla fine della rivoluzione e conosce bene il paese, tanto da aver collaborato in materia con testate di tutto il mondo. L’abbiamo incontrata durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto dal titolo estremamente netto “Blaming the rescue” (accusare i soccorritori) e l’abbiamo poi intervistata per avere un quadro più approfondito della situazione in quel paese. Il testo che segue, testimonianza di una persona che, oltre le indubbie capacità professionali, ama e conosce il popolo che ha seguito, conferma che di giornalisti come lei, che rifuggono approssimazioni e generalizzazioni ma accettano la complessità dei fenomeni, abbiamo estremamente bisogno per cambiare la narrazione dall’origine.
Abbiamo parlato con te della situazione in Libia nel novembre 2015. Poi ogni tanto ti abbiamo intercettata. Da allora come è cambiata la situazione?
«Sicuramente le milizie libiche hanno avuto la possibilità col passare del tempo di organizzarsi meglio e di strutturarsi in una modalità da “mafia” a tutti gli effetti. Non più collaborazioni sporadiche fra un gruppo e l’altro ma una vera e propria struttura mafiosa come la intendiamo secondo il fenomeno italiano. L’espandersi di questa struttura mafiosa è stata resa possibile dall’anarchia che attualmente regna in Libia, ma è stata non solo avallata, ma ha assunto una dimensione ancora più potente per l’intervento di mafie preesistenti, straniere e internazionali come quelle nigeriane e sudanesi, parlando nello specifico dello smuggling dei migranti. In sostanza la mafia nigeriana e quella sudanese hanno creato veri e propri corridoi o canali attraverso cui operare il trasporto di esseri umani. Questo ha portato ad un nuovo livello del sistema di sofisticazione del business o sia ad una sua vera industrializzazione»
In che senso?
«Si è passati da una gestione al dettaglio del proprio territorio da parte delle milizie ad una gestione industriale, in cui ogni milizia diventa quasi come un operaio fordista e ha una mansione ben precisa in un ingranaggio più grande. Quindi l’industrializzazione data dall’internazionalizzazione del fenomeno mafioso, ha portato, per la legge dei grandi numeri, ad un aumento degli stessi migranti. Perché come per ogni altro prodotto industriale e non manifatturiero o non artigianale, il prezzo è sceso. C’è una varietà maggiore anche nell’offerta che quindi risponde esattamente alle dinamiche classiche di una economia di scala. Questo anche perché è mutato il quadro internazionale. Nel frattempo, a marzo del 2016, veniva firmato l’accordo Turchia UE. Sulla scorta di quell’accordo alcuni gruppi armati, che rientrano nella zona grigia delle formazioni armate riconosciute o presunte tali dal Governo di Unità Nazionale che era entrato a Tripoli proprio fra marzo e aprile del 2016 e poi sono stati comunque integrati e sono a libro paga del governo Serraj hanno, sulla scorta dell’accordo turco, fiutato l’affare. Quindi la politica della gestione migratoria dell’Ue in generale ha creato un precedente e i gruppi armati libici hanno iniziato a vedere al modello turco come un modello da seguire e quindi anche chi non c’entrava niente con la gestione dei migranti ha cercato in qualche modo di entrare business»
In che modo?

di Francesco Malavolta
«Ad esempio aprendo arbitrariamente centri di detenzione per migranti, chiedendo il riconoscimento poi del Ministero dell’interno. Altri invece hanno cominciato a compiere raid notturni nei quartieri notoriamente abitati da migranti per poter poi sciorinare i risultati davanti all’UE e quindi accreditarsi come interlocutori o partner credibili o che comunque portano a casa il risultato. Questo è stato l’effetto sugli “state actor”, gli attori statali. Invece quello di cui parlavo prima è stato l’effetto sugli smugglers, ovvero gli attori non statali ma proprio chi sposta le persone lucrandoci. Dopo di che è andato aumentando il livello di criminalità, nella società libica in generale, per via della caduta drastica della stessa economia del paese. Perché nonostante l’export del petrolio sia in costante aumento da un anno, tanto è che oggi si parla di quasi 900 mila barili di petrolio al giorno esportati, vanno considerati altri fattori. Intanto il calo del prezzo del petrolio al gallone, e poi l’emorragia interna dello stesso petrolio estratto per via dello smuggling del diesel. Si tratta di un prodotto raffinato che generalmente non si esporta, anzi è per consumo interno. La Libia compra il 30% del diesel e della benzina dall’Italia, dall’ENI, vende ovvero prima il petrolio grezzo all’ENI e poi ne ricompra il prodotto raffinato. La Libia è in grado di raffinare il 70% del prodotto che poi consuma internamente ma di questo 70% almeno il 50% finisce nel mercato nero dello smuggling. E questo è un altro canale emorragico dell’economia libica. Anche perché si tratta di prodotti sussidiati per cui il governo ci mette già sul tavolo un bel po’ di milioni del budget. Quindi succede che il livello di criminalità nel paese aumenta e di conseguenza ci sono più criminali che rapiscono i libici stessi, oltre che i migranti, e che si danno al traffico dei migranti stessi».
È cambiata quindi anche la figura dello smuggler
«Si passa da una dimensione di smuggling, ovvero lo smuggler professionista, in grado di offrire un servizio, dietro pagamento, comunque richiesto, che risponde ad una domanda del mercato – per quanto le condizioni siano sempre precarie – ad una dimensione di traffiking. Sono i criminali che iniziano ad operare il business dello spostamento degli esseri umani, dal punto A al punto B quindi dal sud della Libia alla costa nord»
Durante la conferenza stampa hai suscitato un certo scalpore volendo distinguere le diverse figure
«Si e mi rendo conto che nel linguaggio comune far comprendere questa differenza non è facile. Non si tratta di nominalismi ma di individuare figure diverse che si muovono con modalità e ruoli diversi. Io sto cercando di proporre, partendo dall’utilizzo della lingua italiana, la differenza fra “passatore” e “trafficante”. Credo sia importante per poter comprendere e affrontare meglio i problemi. Proviamo quindi a operarle queste distinzioni: il passatore è un uomo d’affari che opera nell’illegalità, al di fuori dal quadro normativo e legislativo. Aiuta persone senza documenti validi, a passare le frontiere. Ovviamente lo fa dietro remunerazione. Dopo di che non è il passatore che crea lo stato di necessità del migrante stesso ma è la persona che risponde a chi è in stato di necessità, in questo caso creato dalle scelte di politica migratoria dell’UE. (la Fortezza Europa). Però il passatore di suo è un businessman, un service provider, un fornitore di servizi, che appunto fornisce un servizio richiesto dal mercato. Tra il passatore e il migrante c’è sempre un rapporto di reciproca consensualità. Il loro rapporto è regolato dalla relazione fra domanda e offerta e quindi dal prezzo del servizio stesso. Qualora il migrante non dovesse accettare le condizioni del servizio offerto è libero di cercare altrove un altro fornitore».
E in cosa si differenzia dal “trafficante”?
«Il trafficante è invece una persona che sposta gli esseri umani al di là della loro volontà quindi in forma coercitiva. Da non confondere con chi opera la tratta. Per tratta intendiamo il fenomeno secondo cui uomini, donne e bambini, vengono prelevati dal loro posto di origine contro la loro volontà e venduti come “bene” sul mercato, non più come migranti ma come lavoratori, quindi a lavori forzati, come merce per il mondo della prostituzione, per il traffico di organi, quindi c’è una natura coercitiva alla base del processo. La tratta è soprattutto inerente alle ragazze e bambine nigeriane. Nel fenomeno del traffico a cui stiamo assistendo oggi in Libia, abbiamo una dimensione secondo cui i migranti si mettono in viaggio in piena consapevolezza e per loro volontà. Una volta arrivati però in Libia, per via di questa struttura mafiosa di cui parlavamo prima, vengono passati da un trafficante all’altro che non li vende come schiavi ma come migranti stessi. Cioè loro restano una merce sul mercato ma sempre in qualità di migranti. Il trafficante, contro la loro volontà li fa passare da un punto A a un punto B, da Sabah verso Tripoli, piuttosto che verso Garian, non sono i migranti a scegliere che rotta prendere. E quando vengono rapiti vengono abusati, nei loro diritti fondamentali, per ottenere dei riscatti da parte delle famiglie. Poi però vengono comunque rimessi sulla strada verso l’Europa, secondo quella che è la loro volontà, la volontà dei migranti.
Vengono passati di mano in mano contro la loro volontà, come nella tratta, ma sempre in qualità di migranti e non di oggetti sessuali nelle mani di chi li smercia. Dopo di che sappiamo che ci sono comunque abusi di ogni tipo. Però quando parliamo di traffico vengono trafficati in quanto migranti e non in quanto prostitute, non in quanto bambini per pedopornografia o quant’altro. Sono questi i 3 fenomeni. In Libia abbiamo assistito per anni al fenomeno dello smuggling, quindi ad una rete di passatori con una “regia centralizzata” regolata dal regime che adottava la cosiddetta “diplomazia di frontiera”. Oggigiorno invece, con il caos che devasta e insanguina il paese, siamo passati da questa struttura di passatori al “traffico”.
Al traffico e anche alla tratta, infatti il numero delle donne nigeriane che arrivano in Italia è in netto aumento. Queste sono le basi. Prima accennavo alla differenza fra attori statali e attori non statali. È un “attore statale” la politica migratoria europea che ha impattato sul Dipartimento dell’anti migrazione irregolare libico. Prima parlavo di come la politica europea ha impattato sulla gestione stessa dello smuggling. In realtà il business dello smuggling e del traffiking è stato più che altro creato dal vuoto stesso libico, che ha lasciato spazio a mafie esterne che hanno preso il sopravvento e hanno in qualche modo istruito i venditori al dettaglio fra i libici riuscendo a creare una rete internazionale. Ma i libici sono sempre rimasti venditori al dettaglio, solo che sono stati inquadrati in un sistema organizzato da altri e ormai c’è una rete transnazionale che parte dal Sudan, da Agadez e da Khartoum e arriva fino a Berlino o Londra»
Sono sistemi che secondo te ad oggi coesistono?
«No lo smuggling è sempre meno presente, gli smugglers non sono persone dedite al crimine, hanno fatto il passo indietro perché nelle circostanze attuali non è possibile non essere coinvolti in qualche modo nell’ondata di violenza che ha impattato sul traffico. Molti hanno preferito darsi ad altro tipo di traffici, più “puliti” e meno rischiosi come il diesel o come la droga, che magari per loro è più “pulita” rispetto al trafficare in esseri umani. I trafficanti hanno preso più potere rispetto ai passatori che ora si dedicano ad altri traffici, come dicevo del diesel, della benzina, della valuta estera. Molti hanno preferito darsi a questo altro tipo di business che ovviamente risulta più pulito anche perché sul momento non fai del male a nessuno, non ti sporchi le mani col sangue. È il caso di uno smuggler che ho seguito io dal 2014 che ha mollato questo giro e si è dedicato ad altro anche perché non rientra nella sua etica, nella sua morale. Finché riusciva ad offrire un servizio, senza la coercizione, per lui tutto ritornava, oggigiorno no».
C’è un momento preciso in cui si è realizzato questo cambiamento?
«No è stato un passaggio graduale. Le spinte sono state plurime. La spinta dall’Europa che si è concretizzata nell’accordo con la Turchia e la spinta derivante dal ruolo delle mafie transnazionali, della Nigeria e del Sudan che, come sappiamo, hanno mafie super organizzate da decenni, non è un fenomeno nuovo. Ed è una componente geopolitica da tenere assolutamente in considerazione, non un dettaglio. Hanno una potenza e una forza significativi quanto quella della politica migratoria europea a livello di determinazione degli eventi».
Una affermazione pesante ed impegnativa
«Che vale al di là del fatto che incide l’esportazione di armi dai nostri paesi in tutti quelli africani e al di là degli accordi economici con tutti i signori della guerra. Sia chiaro: nelle popolazioni nell’Africa, come nell’Asia, quando parliamo di Mediterraneo, (potremo dire la stessa cosa dei paesi latino americani rispetto agli Stati Uniti), lo stato di necessità è lì per via delle politiche economiche internazionali dei G8, dei famosi G8 e G20. Ma le mafie di cui parlavo riescono ad organizzarsi per determinare i flussi. Quindi diventano determinanti quanto la politica migratoria europea. È chiaro che alla base c’è la fortezza Europa, nel senso che se tu apri le frontiere, anzi non dico le frontiere ma servizi più sensati nelle ambasciate sparse in giro per il mondo, magari la redistribuzione equa sarebbe già lì e il potere di queste mafie diminuirebbe».
Quindi come negli Anni Venti per l’alcool è il “proibizionismo” che alimenta le mafie?
«Certo e vi faccio un esempio molto banale. I libici ancora oggi, non sono un paese di tradizione migratoria. I perseguitati politici sotto Gheddafi andavano via ma la Convenzione di Ginevra è oggi ferma. I rifugiati politici andavano bene dopo la Seconda Guerra Mondiale qui invece stiamo parlando al massimo di protezione umanitaria e sussidiaria, non certo di persone a cui viene riconosciuto lo status di rifugiato politico che sono mosche bianche. La Libia non è un paese di tradizione migratoria, gli altri paesi mediterranei si. Da almeno un ventennio i bambini di molti paesi, nascono e crescono con l’idea che l’alternativa è l’Europa. Per entrare in Europa ci vuole il viaggio irregolare e loro non hanno alcuna sorta di reticenza sociale rispetto a questa cosa. La Libia invece si. Succede quindi che ancora oggi, i miei amici libici arrivano a spendere fino a 10 mila euro per ottenere un visto regolarmente, attraverso l’iscrizione all’università in Italia o a Londra, i master e cose varie. E molto spesso, anche quando fanno tutte le procedure in modo corretto, vanno in Tunisia, perché le ambasciate non sono in Libia. Vanno in Tunisia anche se non si possono più permettere il viaggio per affrontare pure questo viaggio. Tenendo conto che anche lì c’è un abuso dei diritti. Perché poi il loro passaporto viene trattenuto per due settimane e molta gente deve tornare a lavorare mentre non si possono spostare. Quindi abuso dei diritti a destra e sinistra, comunque loro ci provano. E arrivano a spendere fino a 10 mila euro per poi comunque vedersi una bella stampa di rifiuto (rejected) sul loro passaporto da una ambasciata qualsiasi dell’area Schengen. E per questo rejected siccome oggi abbiamo un database condiviso nell’area Schengen, non potranno fare più alcuna richiesta per i successivi 5 anni, in nessuno degli altri paesi. I libici fanno ancora tutta questa procedura, hanno ancora la pazienza di spendere tutti questi soldi perché c’è ancora quella reticenza sociale secondo cui se parti da irregolare sei uno sfigato. Io mi chiedo: per quanto ancora durerà questa reticenza sociale? A breve, e infatti già i libici iniziano a partire con il barcone, la gente, in massa, non proverà più a cercare i canali regolari uro. Anziché entrare irregolarmente ed essere una spesa a carico degli europei contribuenti, Se potessero entrare regolarmente contribuirebbero dal giorno 1 alla nostra economia, pagherebbero per studiare nelle nostre università e pagherebbero l’affitto. Invece li costringiamo ad entrare irregolarmente e a diventare una spesa a carico del contribuente. Li stiamo portando ad un livello di esasperazione per cui a breve e in massa, salteranno a piè pari il passaggio per vie regolari e si imbarcheranno direttamente. E noi sappiamo che i libici, con 200/500 euro, perché potrebbero prendere un gommone che costa 5000 euro, ci salirebbero in 20 e arriverebbero in Italia evitando gli abusi nelle carceri. Arriverebbero al massimo spendendo 500 euro su un gommone super sicuro, in condizioni metereologiche favorevoli, con il cocktail ancora fresco. Io ancora mi chiedo per quale motivo molti miei amici facciano ancora la trafila per il visto regolare. Il risultato è lo stesso, poi ti fanno l’application ottieni l’asilo e ti puoi iscrivere all’università. Quindi quale è la differenza? È soltanto una deficienza sociale. Questo ci fa capire quanto sia assurda la politica migratoria europea. E tanti miei amici ci stanno pensando. Potrebbero contribuire alla vita economica italiana in maniera corposa, arriverebbero con un passaporto che contiene il microchip, con tutti i dati e anche chi chiede sicurezza sarebbe soddisfatto. Il governo italiano avrebbe anche la possibilità di chiamare Tripoli e di chiedere chiarimenti rispetto ad ogni ingresso. Ma molti di coloro che hanno preso il rejected stanno mettendo i soldi da parte dicendo che il prossimo tentativo sarà sul barcone».
E invece quale è la situazione in Libia, dal punto di vista militare, al di là del fatto che Serraj controlla una piccola porzione del paese
«Non so che dirti perché la situazione è assolutamente una incognita. Tanti gruppi in gioco e tante forze che intervengono. Ci sono Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Egitto e Unione Europea che è quella che in qualche modo cerca di mettere le pezze. Però le potenze regionali stanno facendo tanti danni. Sono potenti e diventa difficile riuscire ad isolare i guerrafondai libici che in fondo sono pochi. Perché da parte della popolazione libica c’è una grande richiesta proprio forte, intima, di stabilità- Perché non sono stupidi Le potenze regionali si scontrano fra loro in Libia perché è un campo di gioco fondamentale dal punto di vista geopolitico, non è una partita nazionale. E probabilmente a breve si avrà comunque una divisione del paese»
Quella in 3 zone (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan)?
«Magari. Il problema, secondo alcuni analisti libici è troppo tardi per questa ipotesi. Prima ci deve essere una guerra totale, sarebbe meglio se ci fosse stato questo passaggio un paio di anni fa. Sarebbe stata più indolore. Certo non completamente ma sarebbe stata meglio accettata»
Quindi dici che c’è il rischio di una guerra totale?
«Si, anche se non ti so dire se come, se ad alta o bassa intensità. E io non riesco a dirti se c’è ancora una via o spazi di manovra per la retromarcia, perché ci sono troppi, troppi attori coinvolti. Quindi diventa davvero complicato neutralizzare tutti i guerrafondai che non sono solo libici ma soprattutto esterni. Io mi auguro con tutta me stessa che si riesca a trovare una stabilità, la speranza è l’ultima a morire però sospendo il giudizio, oggi una soluzione non la vedo».
Temi un intervento europeo o NATO diretto?
«Contro chi? Io ormai non sono più necessariamente contraria te lo dico molto sinceramente, perché comunque ci sono degli obiettivi con cui puoi usare soltanto la forza per togliere la metastasi. Perché poi il lavoro a lungo termine è un lavoro socio culturale che prende più tempo e porterà a lavorare con la società civile ma questa è un’altra cosa. In un’ottica invece proprio militare non sono totalmente contraria ad interventi ma non riesco proprio ad immaginare come. Si dovrebbero eliminare tutti i capi delle milizie, decapitare i gruppi che tengono in ostaggio il paese e magari si riesce ad assestare un colpo a questo circuito. Ma chiunque lo faccia sa bene che poi la Turchia piuttosto che gli EAU cercheranno i sostituti ai capi eliminati. Credo che comunque l’Italia in primis stia cercando una via d’uscita. Credo che la Libia per l’Italia sia un grattacapo e che l’Italia sia l’unica a mantenere un linguaggio non dico pacifico però moderato. Al di là delle critiche che si possono muovere al governo italiano, a Minniti, sulla gestione dell’immigrazione, quando si tratta di fare analisi della situazione politica in Libia, sono sempre molto cauti. E io questo atteggiamento lo rispetto. Non sono fanatici come altri governi, che parlano anche di cose che non conoscono. Infatti il governo italiano quando è andato a sud della Libia è andato per proporre del denaro che serva a compensare le morti nelle varie tribù. E questa potrebbe essere una strategia anche interessante. Certo è anche assistenzialismo. A differenza della Francia che invece è andata dal generale Haftar e gli ha messo a disposizione tutto il suo arsenale, l’Italia è andata lì a dire “fate la pace” almeno riusciamo ad eliminare gli elementi di contrasto e di dissidio fra i gruppi. Il che non è malvagia come politica, la retorica italiana è sempre stata su questo tono infatti non mi dispiace. Io non sono per nulla patriottica però per essere realista, devo dire che temevo peggio. L’Italia cerca sempre di abbassare i toni di guerra perché ci sono altri interessi in ballo. Dopo di che qualcosa va fatto e stiamo parlando di emergenza per evitare che la Libia superi la “linea rossa”. Per linea rossa si intende quella fase di una guerra civile in cui il conflitto riguarda tutti e fra bombardamenti, distruzioni, eserciti che si combattono per le strade, la vita non è più sicura per nessuno, come accade in Siria. La Libia, a livello di conflitto non ha superato la linea rossa. Il conflitto è ancora a bassa intensità, si esce, si va a scuola, al mercato. I civili disarmati sono generalmente al sicuro, salvo sporadiche sparatorie. La Libia è molto al limite ma non l’ha superato la linea rossa.
C’è anche l’interesse legato all’ENI
«Si chiaro ed è per via dei loro interessi che si stanno muovendo in maniera abbastanza intelligente e lo fanno in nome e nella direzione di volere la stabilità del paese. Questo da sempre. Infatti hanno già riaperto l’ambasciata. E i libici di questo sono stracontenti. La riapertura di una ambasciata e soprattutto europea per loro è sinonimo di speranza. E poi è anche un segnale politico nel contesto internazionale. La politica italiana, al netto della questione migratoria, dove valgono altre emergenze elettorali, manda un segnale diverso»
Certo che la “questione migratoria è centrale”.
«Anche su questo però dovremmo fare chiarezza. L’Italia è anche vittima della cattiveria europea che si traduce nell’applicazione di “Dublino”. Da noi non si riesce neanche a far accettare il fatto che l’ospitalità sia sostenibile. Perché in realtà, anche dopo quello che è emerso con la mafia italiana dell’accoglienza, un sistema più armonico, su dimensioni europee, sarebbe assolutamente sostenibile. Comunque i leader politici italiani, quelli almeno che governano si sono sempre espressi a favore dell’accoglienza e questo è un dato che come italiani dobbiamo riconoscere a differenza di quanto accade in tanti paesi. Dopo di che siamo in prima linea e siamo vittime della nostra stessa mafia. Quindi le spese per l’accoglienza aumentano per un fenomeno opaco. Però i leader politici italiani continuano a dire “l’accoglienza fa parte dei nostri valori”. Come cultura italiana e questa è una cosa bella, anche andando al di là della campagna elettorale, non fanno il gioco dei grillini. Il Pd è sempre rimasto almeno a livello di retorica in questa logica. Dopo di che il governo italiano è vittima della convenzione di Dublino firmata da Berlusconi che era un paroliere truccatore. La politica italiana in Libia non è malvagia dopodiché dobbiamo analizzare con chi si collaborano quelli dell’ENI. Perché poi si apre il vaso di Pandora andando a vedere a chi l’ENI concede la gestione della sicurezza dei suoi impianti e non lo fa mai in forma diretta ma attraverso la National Oil Corporation senza sporcarsi mai le mani. Insomma è molto complesso però in generale almeno quella italiana non è una retorica guerrafondaia»
Proprio in queste ultime ore intanto si stanno susseguendo incidenti con la guardia costiera libica
« Nel giro di pochissime settimane vedremo il collasso di questo patto di sangue fra FRONTEX e la Marina libica. Anche il panel di esperti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, presentato il 1 giugno, ha ammesso nel rapporto consegnato la natura mafiosa di alcune dinamiche all’interno della guardia costiera libica. Lascia trasparire intenzioni politiche, rispetto al patto di sangue fra EURONAVFOR-MED e la Guardia costiera. Ma si tratta di cose note che sono come il segreto di pulcinella. Fonti autorevoli hanno puntato l’attenzione sull’Unità della Guardia Costiera di Zawiya, per il traffico di benzina, diesel e presumibilmente non solo. Da quella base controllano il porto in cui sono sospettati di essere guardie e trafficanti. Non so quanto la Guardia costiera, col suo comando centrale, possa farci qualcosa. Non credo controllino il territorio. Se gli italiani metteranno i soldi sul piatto si impegneranno anche loro. anche loro, magari anche dovendo mediare con i mafiosi».
Certo che il Memorandum di febbraio, il, MOU, fa preoccupare
«Si tratta di un tentativo UE di creare una sorta di corpo nazionale per il controllo dei confini marini. Cercheranno di realizzarlo anche al confine meridionale. In generale non è una decisione sbagliata. In un paese dove non c’è uno stato o un esercito, non avere strumenti significa esporre il paese al traffico di armi e al terrorismo. Io sono favorevole ad un supporto da parte della comunità internazionale per creare un corpo militare nel paese anche attraverso un training a lungo termine. In Libia un vero esercito non è esistito neanche sotto Gheddafi ma c’erano solo forze armate nazionali. Ma al breve termine il Memorandum viene utilizzato soltanto per passare la consegna del controllo della costa alla guardia costiera libica e questo creerà solo disastri, a livello sociale, politico ed economico, Per la sicurezza libica è giusto controllare i confini, anche dal punto di vista internazionale ma creerà problemi per come sarà utilizzato. Nell’immediato rafforzerà una struttura mafiosa preesistente che si è organizzata negli ultimi 3 anni. La ricaduta immediata la pagheranno i migranti e questa è una contraddizione di cui l’Europa ormai vive. Ma a differenza di quanto accaduto con la Turchia, qui ne risentono sia i migranti che i libici, libici che sono in ostaggio. I turchi stanno diventando ostaggi del proprio presidente, i libici lo sono del proprio paese».
Cosa si pensa in Libia della vicenda delle Ong. Preoccupa il fatto che la Guardia costiera stia allontanando le navi umanitarei
«In parte c’è una questione “culturale”. Per un libico in generale è assurda l’idea che l’Europa voglia aprire i confini, per loro è disorientante vedere che ci siano iniziative come quelle delle Ong che sfidano il governo per accogliere migranti. Difficile capire come possano agire al di fuori del controllo dei propri governi. All’inizio molti si domandavano: ma sono militari? Chi sono? Hanno sostituito Mare Nostrum? L’Europa intanto ha cominciato a dire “ora basta con le navi che soccorrono”. Ma l’idea di una doppia dimensione, anche in contrapposizione, ovvero governanti e società civile è difficile da far comprendere. Per cui adesso la Guardia costiera dice che le navi delle Ong stanno intralciando il loro lavoro. In Libia se il governo prende una decisione, gli altri devono smettere e credo che ci sia anche un indottrinamento europeo per usare slogan ben precisi contro le Ong. Alcune cose non le possono dire alcuni rappresentanti europei e lo fanno dire ai libici. Per i libici le Ong sono intralcio, rappresentano occhi indiscreti. Controllano anche se i soccorsi vengono prestati rispettando i diritti dei migranti. La Guardia costiera libica a volte non va per il sottile. L’importante è portare il risultato a casa, a qualsiasi costo. E questo non volendo generalizzare il comportamento di tutti i militari. Comunque questo aspetto avrò modo a breve di verificarlo meglio. Mi imbarco in settimana sulla Prudence, una nave di MSF, per un lavoro di approfondimento sul tema. Potrò vedere le cose da quel punto di vista».
A tal proposito, come mai ormai si parte solo o quasi con i gommoni?
« I gommoni vanno letti come alternativa ad un percorso più complicato rispetto all’acquisto dei barconi in legno. Il barcone lo devi acquistare in un porto esterno alla Libia, devi essere discreto, comprarlo ad Alessandria piuttosto che Al Zarzis, poi far sparire il nome dell’acquirente e il numero di matricola del natante. Il gommone invece lo compri in loco e incontri meno difficoltà».
Circolano voci in Italia per cui si prospetta la realizzazione di un nuovo grande centro di detenzione per migranti nei pressi di Tripoli. Ti risulta?
«Non credo che ci sia la voglia di centralizzare la detenzione. Resteranno i preesistenti. Centralizzando si toglie a qualcuno che ora ha la possibilità di mangiarci. Che se ne apra un altro con un mandato ben preciso è possibile. Potrebbe essere il centro in cui mettere insieme le persone pronte per i rimpatri che ora effettua l’OIM ad Abu Slim, dal gennaio 2016. Si tratta, secondo l’OIM di rimpatri volontari assistiti»
Considerando quindi la Libia un “paese sicuro” che rimpatria verso altri “paesi sicuri”?
«L’OIM voleva ottenere le stesse condizioni in Tunisia ed Egitto ma è stata mandata a casa. La stessa Angela Merkel si è fatta qualche migliaio di chilometri per incassare un rifiuto. Non vogliono essere considerati paesi terzi sicuri in cui fare le identificazioni prima dei rimpatri. L’OIM, sta facendo missioni per tutta l’Africa: dal Niger, alla Nigeria. L’ OIM ci mette la faccia, nel suo centro, quando dispone i rimpatri. Gli altri invece sono in mano alle autorità libiche».