Bolzaneto e l’ammissione 16 anni dopo ma manca ancora la legge sulla tortura

L’articolo della nostra Alessandra Ballerini, uscito il 9 aprile sull’edizione  genovese di Repubblica, apparentemente non rientra nei nostri canoni. Ma ne siamo certi? Oggi forse più di ieri, attraverso il combinato disposto di due leggi che criminalizzano lo status giuridico di chi è fuggito dal proprio paese e quello di chi “arreca danni al decoro urbano”, si potrebbe  in molti contesti istituzionalizzare quanto avvenuto tanti anni fa a Genova. Magari con meno spargimento di sangue e senza risvolti giudiziari ma con la possibilità che sindaci, prefetti, questori e forze dell’ordine stabiliscano limiti insuperabili anche all’agibilità democratica e che questo avvenga in un contesto in cui le stesse garanzie giuridiche sono diversificate per provenienza, status legale, classe. Una prospettiva che dovrebbe preoccuparci  e che ci dovrebbe far interrogare anche sul nostro passato recente abilmente rimosso. E fra gli elementi  strutturali che non sono mai cambiati in Italia ha alto valore, non solo simbolico, il rifiuto, a volte manifesto altre palesato in maniera più ipocrita di introduzione del reato di tortura. Eppure sono tanti i casi in cui quello che è accaduto a persone in mano alle istituzioni andrebbe configurato proprio come tortura e, per tornare alle nostre ragioni, lo sguardo torna al rapporto di Amnesty sugli Hotspot. Tante testimonianze di trattamenti inumani e degradanti che si configurerebbero proprio con  quel nome “tortura” che tanto urta buona parte del mondo politico. Ricordare i fatti della Diaz, come tanti altri episodi tragici della vita italiana, potrebbe aiutare a far comprendere che questo nodo non ha solo valore  simbolico ma segna cultura e storia di un paese.

 

Alessandra Ballerini*

CREDO che sia stato in quei giorni, di quella stagione che non si può più chiamare estate, che tutto ha iniziato a franare. Già da prima di quel maledetto 20 luglio, a dire il vero, le nostre illusioni di “nativi democratici” sull’intangibilità di alcuni diritti (almeno ora e qui) davano segni di cedimento. Vedere la propria città blindata, trovarsi i lucchetti e le catene al portone, la toponomastica divisa in zone rosse, il rumore degli elicotteri, la follia mediatica che azzardava improbabili ipotesi di attacchi chimici o lanci di sacche di sangue infetto, offrivano l’idea che qualcosa di enorme stava per accadere. Alcuni di noi ancora si curavano le ferite di qualche mese prima nelle manifestazioni di Napoli, ci si riuniva, si pensava e discuteva per ore su come prevenire gli scontri. Si mediava per conquistare centimetri della nostra città che si voleva inaccessibile ai civili. E poi in piazza: i primi lanci di lacrimogeni, le prima fughe scomposte, l’adrenalina che rende sorprendentemente rapidi gambe e pensieri. Paura e rabbia. E poi Carlo. E le mamme, le fidanzate, gli amici che chiamano interrottamente i nostri numeri, quello stampato sulla maglia gialla “in dotazione” ai legali del Genoa social forum e quello dei nostri cellulari (ormai pezzi di modernariato), per chiedere notizie degli “scomparsi”, dei manifestanti fermati dalle forze dell’ordine ed inghiottiti per ore nel nulla. E poi la Diaz. Per chi come me in quella scuola aveva imparato a scrivere, la ferita di quella notte colpisce irrimediabilmente fino all’infanzia, guasta persino i ricordi. Sangue ovunque e urla. E il pianto impotente e attonito di chi è miracolosamente scampato alla mattanza e in quella scuola entra subito dopo che l’ultima divisa ne esce, spavalda e colpevole. E poi, ancora, le corsie degli ospedali a tentare di proteggere i feriti da ulteriori violenze e dall’espulsione in massa ordinata contro manifestanti stranieri (alcuni decreti verranno notificati direttamente nei reparti di degenza) per liberarsi fisicamente di scomodi testimoni.

Ma è stata la caserma di Bolzaneto, l’orrore che si è consumato per trenta ore tra quelle mura, a rendere quella frattura irreversibile. Abbiamo passato settimane di quell’estate, che estate non era, a leggere e far tradurre le testimonianze dei torturati. Abbiamo letto e ascoltato ogni parola. Abbiamo visto i segni sui loro corpi e sentito decine di deposizioni perfettamente corrispondenti nei loro indecenti particolari: l’ingresso tra colonne di agenti che ad ogni passo infierivano con calci e manganelli, le impronunciabili canzoncine che erano costretti ad intonare i prigionieri, la posizione vessatoria mantenuta per ore in piedi a braccia alzate fino a quando i muscoli urlano, le offese contro il corpo e le idee. l’impossibilità ad andare in bagno se non a porte aperte con esplicite minacce di violenze sessuali, le visite “mediche” da nudi tra risa e umiliazioni, i piercing strappati a forza e le mani fratturate. Le botte, gli insulti e le vessazioni. In una parola: le torture. Ecco, le torture sono state il punto di non ritorno. Sistematiche, organizzate e impunite. Dopo quella interminabile estate, abbiamo compreso che è possibile, anche qui e ora, che uno Stato, alcuni suoi apparati, decidano e scelgano luoghi e procedure adatte per torturare, sistematicamente e ostentatamente, dei cittadini privati della libertà personale, garantendo la sostanziale impunità ai carnefici. Oggi, grazie alla causa promossa contro il governo italiano dalle vittime di Bolzaneto alla Cedu, l’Italia è costretta a pronunciare timidamente quella parola indecente, tortura. Abbiamo le vittime, abbiamo i carnefici (seppure impuniti), abbiamo la parola, ma ancora manca il reato che la punisca e ne sancisca la sua intollerabilità. Senza una legge che preveda e sanzioni questo crimine contro l’uomo (e in un certo senso contro l’umanità) e senza che finalmente, a 16 anni di distanza venga chiesto scusa da chi ha ordinato, eseguito o permesso quella ferocia criminale, non potrà iniziare il processo di riparazione di questa nostra ferita collettiva. Senza una norma che la sanzioni non ci potrà essere riparazione

*da Repubblica, 9 / 04 / 2017