“Disarmi”, l’Africa del ventunesimo secolo in un romanzo fuori dal tempo e dallo spazio

Stefano Galieni

Scrivere di Africa, o meglio di Afriche come suggerisce chi vuole comprendere un continente in cui non sono neanche i confini statuali, disegnati spesso con la riga del colonialismo a definire le complesse dinamiche che lì si determinano, non è facile.

In molti ci provano con reportage, inchieste, ricerche interdisciplinari che però solo raramente arrivano in Italia. Ne scrive chi ha occupato e continua in fondo a occupare il continente – soprattutto in Francia, Gran Bretagna, Belgio e Portogallo – dall’Italia, in parte a causa della rimozione del passato coloniale che poco viene collegato col presente e in parte per la parzialità effimera di tale esperienza, il continente è ancora raccontato e tradotto in maniera superficiale e stereotipata. I conflitti sono ancora definiti quasi esclusivamente “tribali”, parola che permette di allontanarne e distorcerne la percezione. Questo nell’immaginario diffuso e nella definizione che poi si impone alle persone che arrivano in Italia e che stanno cambiando la conformazione sociale del paese, perché in contemporanea i rappresentanti istituzionali e le aziende ancora in grado di esportare i loro prodotti, stanno stringendo sempre più legami politici ed economici con alcuni paesi – quelli meno instabili – in aperta concorrenza con i giganti cinese e indiano.

Certo ci sono siti che cercano di fare informazione seria come Africa Express, e giornalisti che cercano almeno di raccontare alcuni aspetti della vita di chi fugge dalle aree in crisi come Emilio Drudi e c’è una attenzione di vecchia data della stampa di impostazione cattolica, ma poi prevale quasi il deserto.

Ma l’informazione mainstream di fatto langue e l’Africa in Italia resta un mondo fermo nel tempo.

Giuseppe De Mola, operatore di MSF e che quel continente lo conosce bene da alcuni anni ha fatto una scelta che ha un solo modo per essere definita: una scelta efficace.

Ha scelto di utilizzare racconti e romanzi come linguaggio che permette di essere anche svincolati dalla cronaca e di arrivare ad un pubblico più vasto. E se con il suo “Distanze” del 2012, ha sintetizzato in 25 racconti circa 50 anni di storia sudafricana, nella sua ultima fatica “Disarmo”, (Edizioni SEB 27, pp. 152 euro 14) si cimenta nella dimensione del romanzo e apre uno squarcio estremamente significativo sui conflitti in atto in questi anni nel continente.

Non è definito il paese in cui si intrecciano le storie personali e collettive che ne costruiscono la trama ma ci sono gli attori tutti di una delle tante guerre dimenticate: la disperazione dei civili, la crudeltà o l’incapacità di chi governa le secessioni negli Stati, il fango e le armi, la pioggia che cade perennemente e il sogno di una Europa lontana, le Ong e gli operatori Onu, i fantomatici ribelli

Nel leggere il terrore di cui è intriso questo libro saltano agli occhi due considerazioni. La prima è che l’autore ha subito due forti influenze, lo splendido per quanto colonialista “Cuore di tenebra” di Conrad e le risposte a questo approccio violento all’Africa che hanno realizzato grandi scrittori come Chinua Achebe, Wole Soynka, Bessie Head e tanti altri che hanno imposto uno sguardo loro a secoli di oppressione.

Giusepe De Mola, ha compiuto negli anni di attivismo nelle zone più dure di conflitto, una metamorfosi strutturale al suo scrivere. Si è africanizzato non perdendo la sua condizione di europeo, ha tradotto un mondo senza la pretesa di comprenderlo ma volendo intercettarne gli elementi profondi, solo apparentemente incomprensibili. Il fango in cui affogano le speranze di rifugiati, ribelli, ONU e operatori umanitari, governatori e governati, è metafora diretta di un caos che di primordiale non ha nulla, che è moderno, che è il prodotto di logiche di potere esercitate unicamente con violenza e brutalità più plateali che in Occidente. Altro che dimensioni tribali, le sfide che si dispiegano hanno il sapore amaro del mondo che verrà e che non vorremmo che fosse, quello di un romanzo di cupa fantascienza, di blade runner trapiantato in un contesto “nero” ma che riguardano più il presente e il futuro che il passato.

E gli uomini e le donne, anche i bambini che arrivano e approdano sulle coste dell’occidente ricco queste cose le sanno bene. Sanno di essere persone e merce di scambio. Sanno che queste due dimensioni difficilmente convivono senza scontrarsi, sanno che dovranno lottare duramente per non ritrovarsi nella pioggia e nel fango in cui è impantanata l’intera Europa.