Stefano Galieni
Ci pare utile, proporre alcune rifessioni legate alla cronaca per poi riproporre, quasi un anno dopo, la recensione di un libro inchiesta, realizzato da Leonardo Palmisano e da Yvan Sagnet, sullo sfruttamento di migranti e autoctoni nelle campagne italiane. Un libro che svelava il volto peggiore di un paese a cui servono braccia ma che rifiuta persone, anzi le preferisce ammassate nei ghetti dove si muore, come è successo a Rignano Garganico, 2 giorni fa o le si sgombera per impedire che il vivere insieme porti a pensare di poter lottare insieme. La letteratura su questo tema è tanto vasta quanto troppo poco frequentata da chi poi ne scrive, solo dopo qualche evento delittuoso, sulla stampa mainstream. Vengono in mente le ricerche curate da Enrico Pugliese, pubblicate poi nel volume Immigrazione e diritti violati il volume di Stefania Ragusa, Le Rosarno d’Italia o i tanti coraggiosi articoli pubblicati su Terrelibere, da giornalisti come Antonello Mangano di cui abbiamo già ospitato contributi.
Questi ed altri lavori, di valore scientifico, politico e per certi versi anche etico, perché segnano la distanza che separa fra chi vuole vedere e chi vuole nascondere la realtà. E allora la denuncia va portata fino in fondo e va detto, senza tentennamenti che i due lavoratori morti nella loro baracca che bruciava sono le prime vittime della stretta securitaria imposta dal governo secondo cui, per riportare la sicurezza in Italia bisogna andare a scovare i lavoratori irregolari dove sono impiegati e dove vivono, colpendo ed espellendo loro. Guai a volerli proteggerli e a punire chi, alla luce del sole li sfrutta. Le leggi ci sarebbero ma questo è il mercato. Il ghetto di Rignano esisteva da anni, faceva comodo a caporali e agrari del foggiano per andare a prendere sul posto le braccia da sfruttare, lo sgombero effettuato il primo marzo, in alcuni casi senza neanche lasciare il tempo ai suoi abitanti di prendere le proprie cose, la promessa di un altro alloggio migliore a cui non solo molti lavoratori non hanno creduto ma che di fatto metteva ancora più a rischio la necessità di continuare a lavorare, aveva portato prima ad un corteo sotto la prefettura di Foggia e poi alla decisione di almeno un centinaio di lavoratori di restare nel ghetto. Per chi ci è stato, pur nelle tante contraddizioni di una vita comunitaria con le sue opacità, era anche divenuto luogo di autogestione e di ribellione. 5 anni fa era nata addirittura una web radio, Radio Ghetto appunto, per dare voce agli sfruttati e alle loro vertenze ma anche questo evidentemente danneggiava chi lucra sulle loro braccia. Campagne in lotta, racconta una propria versione dell’accaduto che se confermata getterebbe sul fatto una luce ancora più sinistra, intanto la vicenda si allontana dagli schermi e dalle pagine dei giornali. Tanto di lavoratori che sostituiranno i due uccisi ce ne sono in abbondanza.
Ghetto Italia, oggi peggio di ieri
Nel marzo del 2005 veniva presentato pubblicamente un lavoro redatto dagli operatori di Medici Senza Frontiere dal titolo emblematico “I frutti dell’ipocrisia“. Alla conferenza stampa con l’attuale presidente di Msf Italia Loris de Filippi, davanti al tavolo, erano messi in ordine altalenante pomodori e arance. Il racconto che venne sciorinato con passione e dati precisi raccontò di un inferno di sfruttamento e di schiavitù, soprattutto nel Meridione. Lavoratori migranti impegnati nell’agricoltura con salari da fame e condizioni sociosanitarie, abitative, lavorative oscene, inaccettabili. Sul banco degli imputati c’erano tutti: istituzioni, ispettorato del lavoro, sindacati dei lavoratori e organizzazioni imprenditoriali, la politica che dall’alto non impediva questa vergogna e il quieto vivere coperto da inquietanti sguardi di omertà criminale che animava i luoghi dello sfruttamento. Msf consegnò il rapporto invitando i giornalisti a scriverne, i magistrati ad intervenire, la politica sana ad agire, era il tentativo di indignare quella parte di società civile che compera la frutta a 2 euro all kg e scopre che a chi la raccoglie giunge una percentuale infinitesimale di tale profitto e si domanda dove finisce il resto.
Per un po’ se ne parlò anche sui giornali, poi tutto cadde nel dimenticatoio. Fino a quando le rivolte di Rosarno, Castelvolturno, Nardò, gli scioperi e le stragi di lavoratori che ricordavano che le organizzazioni criminali si combattono anche incrociando le braccia e rifiutando le umiliazioni, riaccesero preoccupazioni e speranze. Preoccupazioni per chi vedeva messo a rischio non solo un profitto sicuro ma temeva l’estendersi di tale conflittualità, temeva e forse teme tuttora di ritrovarsi forza lavoro non disposta alla logica della subalternità e dell’obbedienza, condizione fondamentale per mantenere “vivo” un settore produttivo.
Dieci anni dopo Yvan Sagnet, uno dei protagonisti della lotta contro i caporali di Nardò, in quel pezzo di storia epica e dimenticata che si consumò alla Masseria Boncuri nel 2011 e il docente di sociologiaa Leonardo Palmisano hanno compiuto un viaggio intero nel nuovo inferno, partendo proprio da Nardò per attraversare il Sud (Puglia, Lucania, Calabria, Campania e Sicilia) e poi il Lazio ma toccando i luoghi apparentemente incontaminati della Franciacorta, nel bresciano e in Piemonte. Ne hanno tratto un libro che fa male, che fa vergognare e incazzare, che impone di fermarsi e capire. Pubblicato nel settembre scorso “Ghetto Italia” (Fandango Edizioni, pp.250, 15 euro) è un libro necessario e scomodo, tanto è che gli autori che hanno fatto nomi e cognomi, raccontato luoghi riconoscibili, ricostruito reti criminali e di dolore, sono stati più volte minacciati. Storie, testimonianze dirette, volti racconti di mille ghetti, cifre di guadagno per lavoratori, per caporali, padroni e grandi industrie della trasformazione agroalimentare, in una crescita esponenziale e disumanizzante. Si disumanizzano le condizioni di lavoro, nei ghetti si vendono tanto i panini, l’acqua, il posto per dormire, i rapporti sessuali, il trasporto nei campi, tutto passa e si afferma in scenari da cui sembra impossibile sfuggire. Non ci sono i fili spinati visibili, ci sono quelli subdoli e potenti del ricatto economico, del potere del più ricco e del più violento e si crepa anche in questi ghetti, capita spesso a migranti e sta capitando, nella crisi, anche ai primi italiani. Gli autori ad un certo punto riprendono un punto buio della nostra storia scrivendo: «Cosa pensano di noi, questi nuovi esclusi? Vale, forse, la lezione di Hannah Arendt, quando in una lunga conversazione televisiva con Günter Gaus, parlò di Gleichschaltung, di Uniformazione, di conformità, di graduale e quasi impercettibile adeguamento della maggioranza a un pensiero escludente ma comune, che può travolgere perfino gli affetti, quelli presenti e quelli potenziali. Abbiamo messo in castigo le relazioni sociali con questi alieni/braccianti/stranieri. Loro, i migranti, sono i nostri ebrei, e noi, purtroppo, i loro nazisti piccoli piccoli. La loro ghettizzazione non è soltanto il sintomo della decadenza italoeuropea, ma l’esplosione di un malato conformismo nazionale, di un razzismo che vibra i suoi colpi con l’indifferenza, con la xenofobia e con lo schiavismo nei campi e nella prostituzione. Non viviamo in un banale razzismo contro i neri, ma siamo spinti contro tutti i più poveri, contro tutti i più ricattabili: contro tutti i non aventi diritto a qualcosa».
Parole troppo dure? Le storie individuali e collettive raccontate in questo volume denso, in cui i due viaggiatori incontrano pagina dopo pagina i volti e i luoghi di uno schiavismo globale, al ribasso rispetto a 10 anni fa, con meno garanzie – malgrado le leggi promulgate – e meno resistenza visibile, un vortice diverso regione per regione, a volte anche da una provincia all’altra, ma accomunato dalla logica per cui il futuro non esiste quindi sfruttare e farsi sfruttare è una condizione perenne, quasi naturale, come è naturale essere poveri, come è naturale che si chiamino ragazze giovani a lavorare per molestarle, o costringerle alla prostituzione, come è normale che si creino gerarchie sociali in cui ci sono anche e spesso connazionali di chi viene sfruttato a poter fare da kapò. Il tutto in un settore economico in forte crescita, con l’ 80% dei prodotti destinati all’esportazione e con infinite possibilità di creare condizioni di lavoro sane, di sviluppo diffuso per intere aree depresse del Paese.
Oggi le pagine dei nostri giornali e la nostra memoria è piena di sbarchi e di conflitti, di fili spinati e di legislazioni inique fatte per chiudere la “Fortezza Europa”. Ma contemporaneamente non commettiamo il rischio di non voler vedere quanto accade nella periferia interna della nostra fortezza, nei luoghi meno visibili e battuti dalle telecamere. Quello che avanza è il neoschiavismo di rapina che non discrimina più: colpisce neri e cittadini dell’Est Europa ma anche madri e figlie autoctone, in un tritacarne che riporta ad un passato ancora più lontano, quello per cui chi lavorava la terra era solo e soltanto merce.
Non abbassiamo la guardia, presto i loro salari saranno la norma, non solo in Italia.