Uno dei temi su cui come ADIF intendiamo intervenire molto nei prossimi mesi è quello del lavoro. Ovviamente ci interessa provare a toccare i nessi fra lavoro e immigrazione troppo spesso rimossi da un presente che vede solo emergenze ma che pure è forte nel pensare della pubblica opinione.
Capita di ascoltare, nei luoghi pubblici, così come nelle aule parlamentari o nei talk show ad una sorta di schizofrenia. Il timore di chi dice contemporaneamente “vengono a rubarci il lavoro” e un momento dopo “stanno tutto il giorno senza fare niente a spese nostre”. Il tema è in realtà complesso, andrebbe a nostro avviso trattato affrontando le tante articolazioni presenti nello stesso mercato del lavoro e – peri richiedenti asilo – nell’approccio all’accoglienza. Andrebbe affrontato – e questo tenteremo di fare- evitando la contrapposizione fra autoctoni e “stranieri” ma soprattutto vorremmo ascoltare le posizioni di chi questi temi li affronta quotidianamente ed anche con posizioni diverse. Iniziamo ospitando l’intervento di Enrico Pugliese, sociologo, che da tanti anni si occupa di immigrazione e che sul tema del lavoro ha elaborato numerose e utili ricerche. Quello che segue è il suo parere in cui non mancano provocazioni utili ad alimentare la discussione. Per questo lo ringraziamo
Enrico Pugliese
Personalmente sono contrario in linea di principio al servizio civile, se non come alternativa al servizio militare. Ogni tanto compare in giro la ipotesi di una sorta di servizio civile obbligatorio per gli immigrati: una sorta di obbligo di lavoro in cambio dell’accoglienza e del mantenimento, ma anche – in altra versione come opportunità di inserimento tramite il lavoro.
Di un intervento del genere – anch’esso a carattere obbligatorio – si parlava tempo addietro per i giovani disoccupati italiani. Io sempre trovato balzana questa idea sempre espressione di due atteggiamenti dai quali sono lontanissimo: quello pedagogico (basato sulla convinzione che la perdita di tempo del servizio civile avesse una funzione educativa) e quello disciplinante, figlio dell’autoritarismo.
Il diritto-dovere del lavoro (dovere che si può esplicitare solo nelle mura in cui siano rimossi i vincoli all’accesso al lavoro) è interno allo spirito della nostra Costituzione (e della rimozione dei vincoli si parla del comma due dell’articolo tre). Ma questo non ha nulla a che fare con imposizioni come il servizio civile obbligatorio.
Un generale programma di occupazione socialmente utile – non parlo di buche keynesiane – mi pare invece che sia urgente per tutti coloro i quali hanno difficoltà a trovare lavoro ma anche per il paese. La necessità di non-grandi opere nel Mezzogiorno dove si concentra la disoccupazione è evidente. Ma iniziative importanti di questo genere implicano scelte di politica economica espansive capaci di incrementare la domanda di lavoro e l’occupazione.
Questa è una digressione solo apparentemente fuori luogo. Serve per dire che ci sono tanti dignitosi modi per dare opportunità lavorative ai giovani e ad altre categorie svantaggiate sul mercato del lavoro senza costringerli in cambio di nulla. Nell’idea del servizio civile è la parola “servizio” che mi preoccupa. Il diritto al lavoro – uno dei bisogni umani fondamentali come pensava persino Freud – viene tradotto e degradato in un obbligo non si sa a quale scopo, se si escludono quello pedagogico e quello di disciplinamento. Attualmente in Italia abbiamo già una istituzione che si chiama appunto Servizio Civile che non fa – per quello che ho capito -né bene né male. I giovani che vi accedono (su loro richiesta) alla fine trovano lavoro nelle aree dove già si trova lavoro comunque. E quelli che stanno in aree dove il lavoro non c’è non trovano niente. Forse si formano (chi sa poi a che?) come sostengono alcuni, dimenticando poi che di formazione istituzionale alle spalle ne hanno in genere più del necessario data la struttura della domanda di lavoro nel nostro paese.
E con questo passiamo agli immigrati, anche perché dopo qualche uscita di rappresentanti istituzionali o di organizzazioni cattoliche e un po’ di confuso dibattito ora c’è anche qualche proposta ufficiale. Senza entrare nel dettaglio, la prima cosa che viene da chiedersi è: perché servizio civile per gli immigrati e non ad altre categorie sociali? Non certo per motivi formativi: spesso, se rifugiati, hanno un livello di educazione scolastica molto superiore a quello della domanda di lavoro corrente. Bisogna disciplinarli? Bisogna renderli degni di firmare l’accordo di integrazione.? Bisogna fargli perdere il gusto mediterraneo del dolce far niente O bisogna toglierli dalla strada? Insomma non trovo una spiegazione.
Devo tuttavia dire che paradossalmente su quest’ultima idea (quella di toglierli dalla strada) – spesso espressa da chi non ha simpatia per gli immigrati – mi trovo parzialmente d’accordo perché vi trovo anche il riferimento a una esigenza degli immigrati stessi, il bisogno di lavorare, di fare qualcosa: appunto quella esigenza umana notata da Freud e ben inquadrata storicamente da Polanyi. Da questo punto di vista gli immigrati sono come gli altri con gli stessi bisogni, diritti e gli stessi doveri.
‘Togliere i giovani dalla strada’ fu uno dei risultati (e anche degli obiettivi) di esperienze nobili e grandiose come il Work Project Administration del New Deal in America. E chi – qualcuno di loro è ancora vivo – ne beneficò ancora ne parla come di una grande esperienza. Ma questo non ha nulla anche fare con il servizio civile obbligatorio. Fu una opportunità che riguardò molti milioni di giovani e meno giovani: non un ‘servizio civile’, ma auna civilissima politica per l’occupazione e il reddito dei giovani lavoratori. Non un obbligo ma una opportunità a carattere universalistico, cioè non per i neri, non per i gli immigrati, per questi o per quelli.
Ma dove io smetto di essere d’accordo con me stesso – intendo con la mia visione di fondo sul tema contraria a qualche forma di impegno non retribuito sindacalmente — è nel caso della cosiddetta ‘emergenza profughi’. Qui dare l’opportunità di tenersi impegnati in maniera utile per sé e per tutti a delle persone, a degli immigrati, è un’idea che condivido, purché ad alcune condizioni minime delle quali dirò più in avanti. Noi abbiamo in Italia un sistema per richiedenti asilo – il sistema Sprar – diffuso in tutto il paese, che ha garantito una collocazione molto spesso decente a questa sezione (crescente in questa fase) del flusso di immigrati. Ma da qualche mese il sistema Sprar non è più in grado di rispondere alla domanda, crescente di richiedenti asilo: non ce la fa più. I potenziali fruitori sono divenuti troppi e i nuovi arrivati non hanno trovato spazio. Perciò – secondo la linea del Ministro del precedente governo, Angelino Alfano – questi sono stati collocati presso strutture gestite da cooperative che ricevono il finanziamento in una situazione di assenza di regole e di definizione dei compiti e dei doveri (tranne quello di ospitarli), fuori da ogni controllo che non sia quello distratto e poco interessato alla qualità dell’attività da parte dei prefetti.
In questo modo questa nuova ondata di profughi resta sostanzialmente per strada e i nuovi richiedenti asilo non hanno nulla da fare. La loro presenza ha avuto un effetto negativo sulla opinione pubblica: non si sa che fanno, non si sa perché sono arrivati in questo quel paese, etc. E soprattutto si creano delle brutte mitologie. Quella più pericolosa, artatamente diffusa da molta stampa, è che lo stato mantiene questi immigrati dando loro trentacinque euro al giorno.
Questa cifra non è casuale perché corrisponde grosso modo a quello che percepiscono le strutture di accoglienza per ogni singolo immigrato che ospitano e assistono. L’immigrato richiedente asilo riceve una somma giornaliera di circa due euro e mezzo per le spese personali, in cosiddetto pocket money. E non più di quello.
La differenza tra i centri gestiti dalle nuove cooperative alla Alfano (CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria) e il sistema Sprar è che le prime non devono render conto di nulla a nessuno se non al prefetto e non devono avere un chiaro, discusso e approvato, programma di assistenza. Ma soprattutto esse non sono sottoposte in alcun modo a un controllo e a un rapporto di eventuale collaborazione con gli enti locali. Non intendo dire che tutte queste cooperative siano gestite da imbroglioni. Ne basta però qualcuna per inquinare, data l’assenza di norme. La questione è che il sistema stesso si presta e in un certo senso invita all’imbroglio.
Ma c’è di più. Una cooperativa può essere in mano a brave persone, ospitare e dare da mangiare a questi giovani richiedenti asilo – in genere si tratta di giovani – e limitarsi a percepire la retta lasciandoli poi ciondolare per la campagna o per il paese dove essi si trovano. Non è richiesto alcun progetto formativo e comunque niente che li tenga occupati. Perciò si crea una situazione di malessere.
È da qui che mi viene l’idea che – senza grandi illusioni sul piano formativo e soprattutto lontano da ogni ipotesi disciplinante – si possa e si debba fare qualcosa, possibilmente qualcosa che sia anche di utile alla comunità, per tener occupati e fuori dalle strade questi immigrati giovani, a volte minori o ‘sedichiaranti’ tali.
Vengo dunque al punto delle condizioni. Ci devono essere secondo me da una parte condizioni che rispettino la dignità della persona nella fattispecie dell’immigrato. Ma anche delle condizioni che non li mettano in una condizione di discriminazione positiva, che non li facciano essere o sembrare privilegiati rispetto ai giovani locali. Se si offre loro una opportunità lavorativa pagata decentemente i giovani disoccupati locali – per esempio nel Mezzogiorno dove ce ne sono tanti – si sentono effettivamente discriminati. “Perché – già dicono sulla base di equivoci e informazioni sbagliate – a loro si e a noi no?”. Qui sta pone veramente il problema. Non è una cosa di facile soluzione.
Eppure secondo me si può chiedere in cambio del mantenimento e della piccola paga (la quale è talmente misera da non far gola al locale) un contributo in termini di lavoro socialmente utile. Non solo lo si può chiedere, offrendo effettivamente qualcosa, ma lo si può pretendere. Tanto più se la richiesta è affiancata da qualche attività formativa (penso a corsi di lingua italiana). Insomma dovrebbe valere l’antico principio della lesser eligibility, della minore preferibilità che governava i provvedimenti di welfare all’inizio in Inghilterra. In altri termini l’opportunità lavorativa, il tenersi impegnato, deve avvenire in condizioni salariali (la piccola paga o poco più) che non siano desiderabili per i giovani lavoratori italiani, occupati o no. Si può chiedere ai richiedenti asilo e li si può informare del fatto che questo impegno avviene in cambio del mantenimento. Farlo vivere come obbligo morale in cambio della temporanea accoglienza nella prospettiva del superamento della condizione di richiedente asilo. Alla fine si tratta certamente di un servizio (fatto in cambio del mantenimento) e di una soluzione civile. Il lavoro deve essere ‘fuori mercato’ perché non si parli di dumping salariale.
Vedo tuttavia già due rischi in tutto questo. Da una parte in ambiente cattolico, dove il nesso tra volontariato e impegno lavoro sottopagato o lavoro di religiosi e di altri è molto meno chiaro di quanto sia necessario, vedo un rischio di paternalismo e di eccessiva autonomia nella gestione. Dall’altra c’è l- – l’ho già sentita e ben registrata – l’opposizione laica a carattere parasindacale e ideologico: “Nessuno deve lavorare gratis a salario inferiore a quello contrattuale. L’iniziativa implica una forma di lavoro nero. Etc, etc.”. Per quel che riguarda questa seconda linea la mia paura è che in realtà con la pretesa di chiedere molto- sia pure cose giuste -si finisca per non ottenere nulla e aiutare la prosecuzione dello status quo con tutte le implicazioni che ciò determina.
Partendo quindi dalla necessità di occupare i richiedenti asilo credo che ci sia da impegnarsi per soluzioni da gestire a livello locale secondo orientamenti ovviamente decisi a livello nazionale. Le occasioni lavorative in attività socialmente utili ad hoc e fuori mercato (perché pagate in cambio della ospitalità e della piccola paga attuale magari un po’ rivalutata= dovrebbero essere decise e attuate in tempi brevissimi dall’ente locale (e finanziata dallo stato). Esse dovrebbero rappresentare per gli interessati una alternativa preferibile al ciondolare senza aver nulla da fare (attirando l’odio e il rifiuto della popolazione locale con gli imprenditori politici del razzismo che si stanno già dando da fare). Ma dovrebbero rappresentare una alternativa meno preferibile (torna la lesser eligibility) a lavori veri di mercato a livello locale o altrove tanto per gli immigrati (quando il loro status gli permetterà di lavorare) che per i locali.