L’Italia ha “fatto la sua parte” per difendere le frontiere, ma non incassa sconti sul Patto di stabilità né il rilancio della Relocation in Europa.

Fulvio Vassallo Paleologo

Nel 2015, in attesa che si avviassero le tanto attese procedure di Relocation il governo italiano introduceva il “ricorso all’uso della forza” per dimostrare all’Unione Europea la propria capacità nell’identificare i migranti in modo da evitare che andassero in altri paesi europei.

Il governo Renzi ha chiesto per anni il riconoscimento degli oneri sopportati dall’Italia nel soccorso e nell’accoglienza dei migranti, ma non ha mai incassato gli sconti auspicati nè ha goduto della solidarietà europea nella distribuzione dei richiedenti asilo.

Il ricatto economico già esercitato sulla Grecia viene adesso riproposto anche nei confronti dell’Italia, alle prese, anche per sua colpa, con la più grave crisi migratoria della storia recente.  I dati più recenti sulle Relocation lo dimostrano. La scelta di modificare in senso ancora più restrittivo il Regolamento Dublino III ha costituito la risposta dell’Unione Europea, una reazione intrisa di indifferenza e sospetto, neppure fugato dagli impegni assunti con la cd. Roadmap  italiana proposta a Bruxelles lo scorso anno.

Il 4 agosto 2016  il governo italiano, sempre  per dimostrare all’Unione Europea di “avere fatto la sua parte”, aveva sottoscritto un Memorandum d’intesa con il Sudan, instaurando un regime di cooperazione di polizia che permetteva di eseguire respingimenti collettivi in palese violazione dei diritti fondamentali della persona migrante.

Era stata quella l’occasione per sperimentare il cd. Piano Gabrielli, che prevedeva “espulsioni dirette” dopo arresti indiscriminati di migranti irregolari, ma anche regolari, in diverse occasioni, che venivano fatti transitare dagli Hotspot, come quello di Taranto, per essere poi rimpatriati, in violazione delle più elementari norme di diritto internazionale ed europeo che vietano i respingimenti collettivi o i rimpatri nei paesi nei quali si possono subire trattamenti inumani o degradanti (art. 19 del T.U.286 del 1998 e art. 3 della CEDU).

Adesso quello stesso piano Gabrielli è stato rimesso in opera e “aggiornato” dal ministro dell’Interno Marco Minniti, con altre retate ordinate con un “telegramma” ai danni di cittadini nigeriani e di altri paesi con i quali l’Italia ha stipulato accordi di riammissione.

Non sono state ascoltate neppure le preoccupazioni di Amnesty International.

Ancora una volta il nostro governo vuole dimostrare all’Europa che “sta facendo la sua parte”, anche se si tratta dell’allontanamento forzato di qualche decina di persone, capro espiatorio del fallimento delle politiche italiane ed europee in materia di immigrazione ed asilo.

In nome di questa manifestazione di efficienza rivolta all’Europa si violano consolidati principi costituzionali come l’art. 13 della Costituzione , che sancisce l’habeas corpus ed il diritto ad una verifica giurisdizionale delle misure di allontanamento, senza alcuna eccezione.

Non si ha il coraggio di ammettere che, in presenza di un sistema e di prassi criminogene che non consentono alcuna possibilità di ingresso o permanenza legale ( anche a causa del diniego generalizzato dei rinnovi dei permessi) e che stanno negando diffusamente il riconoscimento della protezione ( anche umanitaria), gli accordi con paesi come la Libia, o quello che si vuole intendere per Libia, non servono a nulla.

Non rimane altra via che una regolarizzazione permanente a regime, a partire dal riconoscimento generalizzato della protezione umanitaria a tutti coloro che sono riusciti a fuggire dall’inferno libico. Occorre riaprire i canali di ingresso per lavoro, e regolarizzare quanti sono costretti a lavorare in nero senza potere ottenere un documento di soggiorno

Nei giorni precedenti il Consiglio europeo (informale) di Malta del 3 febbraio scorso, sempre per dimostrare agli altri partner europei che l’Italia “ha fatto la sua parte” nella difesa delle frontiere esterne dell’Unione Europea, il governo italiano stipulava a Roma con il capo del governo di Tripoli, che non ha neppure il pieno controllo dell’intera Libia, un Protocollo d’intesa che riprendeva apertamente gli accordi stipulati nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi, sulla base di Protocolli operativi firmati dal governo Prodi alla fine del 2007.

Se Berlusconi aveva promesso cinque miliardi di lire per un quinquennio, adesso tutta l’Unione Europea mette a disposizione dell’accordo della vergogna con la Libia di Serraj appena duecento milioni di euro.

Ma immediatamente  si è fatta sentire la voce di Haftar, il generale che comanda a Tobruk, ed in Cirenaica, supportato dall’Egitto e dalla Russia di Putin, da sempre contrario al governo di Tripoli e ad alleanze con le potenze straniere occidentali che mettono in discussione il suo peso politico.

La modesta cifra promessa dall’Unione Europea non servirà certo a riconciliare la Libia o a dotare questo paese di un efficace sistema di controllo delle frontiere meridionali, ne, tantomeno, di una Guardia Costiera capace di intervenire tempestivamente nella ricerca e nel soccorso dei migranti fatti partire dai trafficanti indipendentemente dalle condizioni metereologiche  e del  mare, forse anche in queste ore.

Ma la rinnovata azione  italiana, non si limita certo alla Libia. Prosegue infatti la collaborazione con il governo nigeriano, già in corso dal 2007, ed intensificata, a partire dal settembre del 2015 con il supporto tecnico e finanziario dell’Agenzia Europea Frontex sulla base di intese operative conclusa tra questa agenzia ed il governo di Abuja nel 2012.

Da questi accordi e dalle prassi di polizia che ne sono seguite  sono derivate diffuse violazioni dei diritti umani di cittadini nigeriani con il rimpatrio soprattutto di decine di donne potenziali vittime di tratta, dal Cie di Ponte Galeria a Lagos, come accertato dagli esperti che hanno redatto il rapporto per il gruppo GRETA. Periodicamente si continuano ad avere notizie  di charter diretti in Nigeria in cui sono caricati sia uomini che  donne.

I soggetti più vulnerabili, i minori non accompagnati, e le donne schiavizzate dalla tratta sono state le prime vittime delle politiche di sbarramento attuata dall’Unione Europea e dall’Italia.

Malgrado queste continue  dimostrazioni di “avere fatto la propria parte” l’attesa per uno sconto europeo rispetto al patto di stabilità e magari il rilancio delle procedure di relocation è andata delusa. I numeri parlano chiaro, anche se la Commissione Europea si dichiara molto soddisfatta dei progressi in questo campo. Progressi che non si apprezzano certo nei centri di accoglienza italiani dove sono stipati da mesi centinaia di richiedenti asilo ai quali è stato riconosciuto il diritto alla relocation ma che nessun paese europeo vuole più accogliere. Ed è comunque a dir poco curioso che malgrado il conclamato fallimento delle procedure di relocation si stia definendo a Roma la realizzazione di un hub per relocandi da 2000 posti. La gara di appalto risulta già partita e al Viminale parlano tranquillamente di una sua apertura a maggio. Dovrebbe  servire, a detta dei dirigenti  del ministero, a “rassicurare chi ci viene  messo” a far capire loro che il desiderio di andare in un altro paese europeo  verrà presto esaudito. Stanti i segnali che giungono dai paesi UE ci si permette di dubitare.

Adesso, dopo il Consiglio Europeo informale di Malta, dopo avere esposto l’Italia ad una assunzione di responsabilità senza precedenti in un paese diviso e dilaniato da una vera e propria guerra civile, al premier Gentiloni non rimane altro che auspicare un rilancio della “relocation” senza dire neppure una parola sui progetti di revisione del Regolamento Dublino, che continueranno a penalizzare i paesi più esposti alle frontiere meridionali, come Italia e Grecia.

Ci manca soltanto una maggiore pressione del nuovo presidente americano Trump, per spingere l’Italia ad un impegno ancora maggiore in Libia, in un quadro di subordinazione alla NATO, per completare il quadro di totale fallimento della politica estera italiana, improntata soltanto ad una vera  e propria guerra a quella che chiamano immigrazione illegale,  che viene invece alimentata proprio dalla chiusura di tutte le vie di ingresso legali in Europa. Una “guerra ai migranti” che domani potrebbe diventare una vera e propria guerra totale in territorio libico.

Uno sbarramento di tutte le vie di ingresso legali ed anche un coinvolgimento delle forze navali libiche, che si è tradotto nelle intimidazioni rivolte alle navi umanitarie ( ritenute fattore di attrazione) e nel ritiro quasi totale delle navi delle missioni europee.

Una chiusura che è costata migliaia di morti e dispersi, sulle rotte del Mediterraneo Centrale e nei paesi di transito, come la Libia ed il Niger, esattamente quei paesi che adesso si vogliono utilizzare per allestire nuovi campi di contenimento, per i quali la parola più appropriata come definizione rimane quella di lager.

Analogo accordo di riammissione è stato firmato dall’Unione Europea con il Mali, anche in questo caso dopo una frenetica attività diplomatica del governo italiano con il premier Gentiloni in prima linea.

Adesso Gentiloni aspetta che tanto attivismo nel supportare l’Unione Europea nelle politiche di esternalizzazione dei controlli, di difesa dei confini esterni e di riammissione dei migranti irregolari, o peggio della loro esclusione persino dal diritto di raggiungere una frontiera europea per presentare una domanda di asilo, possa essere premiato. Una illusione che durerà lo spazio di un mattino.

Vedremo presto quanto questa politica di negazione dei diritti umani delle persone migranti sia effettivamente servita a restituire maggiore credito all’Italia in campo europeo, e quanto avrà espresso la solidarietà degli diversi stati dell’Unione nei nostri confronti. I leader europei stanno già rispondendo a Trump.

Le partenze dalla Libia intanto continuano anche nei giorni invernali in cui il rischio è ancora più alto. Ad intervenire le navi umanitarie e la Guardia Costiera italiana.  Anche con gommoni aperti che partono e rientrano a Lampedusa carichi di migranti. Sempre più saltuari gli interventi dei mezzi di Frontex, ridotti al minimo, come del resto le unità operative della missione EUNAVFOR MED tutta rivolta alla formazione della Guardia Costiera libica.

Quando si parla o si scrive di partenze dalla Libia si deve parlare meglio di fughe, quando si viene soccorsi in alto mare, quando non si fa prima naufragio. Naufragio non solo nelle acque del Mediterraneo, ma anche in un mare di indifferenza e disinformazione.

Nessuno scrive che in questi stessi giorni la Guardia Costiera libica, probabilmente d’intesa con le polizie europee  si è ripresa centinaia di migranti, che saranno già finiti negli “Holding Center” nei quali la tortura è pratica quotidiana. La verità che si nasconde è soltanto questa. In una sola settimana “Libya’s coast guard intercepted at least 1131 migrants near the western city of Sabratha over the course of a week, a spokesman says”. Oltre mille persone a rischio di stupri e torture, a differenza di quelli che sono stati soccorsi nelle stesse ore nelle acque antistanti la Libia. Un primo prezzo da pagare alle nuove intese con il governo Serraj.

Per il futuro abbiamo soltanto la certezza di dovere contrare altre decine di morti e dispersi sulle rotte migratorie dalla Libia verso l’Europa, mai così tanti come nel mese di gennaio appena trascorso ( oltre 280 vittime su 3000 persone soccorse, quasi il dieci per cento).  Eppure secondo Juncker  toccherebbe proprio all’Italia attuare gli accordi di respingimento con la Guardia costiera libica. Una trappola dalla quale adesso non sarà facile uscire.

In Libia si trovano i problemi, problemi politici e militari che richiedono trattative diplomatiche, non le soluzioni che tutti cercano di garantire a suon di milioni di euro, delegando il lavoro “sporco” all’Italia.

E sembra ormai irreversibile  la distruzione di quello che rimane come diritto di asilo europeo e l’abbattimento delle garanzie di difesa che comunque spettano a qualunque migrante anche se in posizione irregolare.

Un abbattimento di principi cardine dello stato democratico di diritto, che nel tempo non potranno che estendersi agli italiani. Anche a quelli che oggi plaudono ai respingimenti in Libia, agli affondamenti dei barconi carichi di migranti, o all’annegamento di un giovane disperato nella laguna di Venezia.