L’analista di Statewatch Yasha Maccanico ci ha mandato la traduzione aggiornata del suo testo sull’Ottavo Rapporto della Commissione europea su relocation e resettlement: Eighth report onrelocation and resettlement: Commission welcomesincrease in relocations and ignoresharmfulsystematiceffects
Ottavo rapporto su relocation e resettlement: la Commissione europea magnifica l’aumento dei trasferimenti e ignora i dannosi effetti sistemici delle sue politiche
Introduzione
L’ottavo rapporto su relocation e resettlement pubblicato dalla Commissione europea l’8 dicembre 2016 esprime un compiacimento per gli sviluppi che stanno degradando l’Unione Europea in modo da assicurare che l’emergenza prevedibilmente provocata dalle sue politiche e dal sistema disfunzionale dei Regolamenti Schengen/Dublino continui, particolarmente nei paesi mediterranei in prima linea (Grecia e Italia). A più di un anno dall’inizio della messa in atto dell’Agenda europea sull’immigrazione, del piano d’azione dell’UE sull’immigrazione e in particolare dell’introduzione dell’approccio hotspot in Italia e Grecia, appare sempre più evidente come, lungi dal fornire assistenza agli Stati in prima linea, questi vengano puniti per la mancata attuazione di un modello elaborato per penalizzarli.
Infatti, mentre si registrano notevoli progressi per quanto riguarda l’identificazione, la selezione e la raccolta delle impronte digitali delle persone non appartenenti all’Unione Europea che arrivano, le misure compensatorie previste non si stanno concretizzando. La prima è costituita dalla relocation per redistribuire i rifugiati tra gli Stati membri, con procedure che prima erano quasi inesistenti e ora sono lentissime, mentre la seconda, la riforma del sistema Schengen/Dublino, mantiene l’approccio adottato finora, la cui prospettiva porta inevitabilmente alla trasformazione dell’Italia e della Grecia in recinti permanenti per i cosiddetti “clandestini” o “migranti irregolari”. Le relocation dovrebbero diventare una misura permanente per promuovere la redistribuzione degli oneri solo per richiedenti d’asilo definiti in modo molto limitato, ma gli Stati membri rifiutano perfino di attenersi alle quote bassissime delle rilocalizzazioni obbligatorie che si sarebbero dovute già eseguire. A volte questi rifiuti assumono toni polemici, come nel caso del governo ungherese, che, nell’ottobre 2016, ha indetto un referendum in proposito.
Parlare di chi arriva come di “persone” – uomini, donne e bambini –è una misura necessaria di fronte al modo strumentale in cui i documenti istituzionali usano i termini “migrante” e “rifugiato”, demolendo il diritto di chiedere asilo attraverso la deumanizzazione dei primi e la ridefinizione restrittiva dei secondi, secondo il modello selettivo adottato per le procedure negli hotspot. Questo modello è stato elaborato in modo che il riconoscimento del diritto di richiedere asilo da parte dei cittadini siriani e di altre nazionalità (attualmente, in Italia, anche eritrei, iracheni e yemeniti) – le cui domande sono accolte nel 75% dei casi, secondo i dati Eurostat – comporti l’esclusione di tutti gli altri, frettolosamente classificati come “migranti economici” allo scopo di deportarli.
Ciò che manca in questa narrativa è il grande numero di persone che stanno arrivando, molte delle quali potrebbero ragionevolmente avere i requisiti per ottenere lo status di rifugiati o la protezione internazionale. Queste persone vengono lasciate per strada, consapevoli che, dopo la registrazione e l’esclusione dal diritto di chiedere l’asilo in base al principio della nazionalità, le autorità hanno ordinato loro di andarsene. Il modello proposto dalla Commissione considera queste persone un problema tecnico da risolvere attraverso il loro contenimento, la detenzione e il rimpatrio, in modo da esacerbare la crisi nei paesi di primo approdo, allo scopo di restituire “credibilità” alla politica europea dei rimpatri. Si tratta di un approccio che mira a perfezionare un sistema le cui tendenze intrinseche alla crisi collocano entrambi i paesi più esposti (Grecia ed Italia) in una situazione permanente e insostenibile di emergenza o di crisi: una crisi che non è giustificata, se si considera il numero degli arrivi e le dimensioni dell’Unione Europea. L’unico aspetto del meccanismo per le relocation che può essere valutato positivamente è che la redistribuzione prevista per rilocalizzare 160.000 persone (una proporzione minima degli arrivi) mostra quanto sarebbe facile per l’UE assorbire il numero di persone che arrivano, se questo onere fosse distribuito in modo ragionevole. Invece viene usato come una giustificazione strumentale per permettere il dispiegamento e l’espansione delle agenzie dell’Unione Europea preposte ad attuare operativamente le politiche d’immigrazione e di sicurezza, come Frontex ed Europol, con un maggiore uso delle banche dati e dei controlli sistematici da parte delle forze dell’ordine e dei servizi per la gestione dell’immigrazione. Queste iniziative sono presentate come un tentativo di assistere i paesi di primo approdo, che invece vengono posti in situazioni impossibili da governare.
Il concetto di distribuzione equa degli oneri è un anatema rispetto agli obiettivi principali di questa politica. Il primo obiettivo è l’acquisizione delle impronte digitali di chiunque entri,al fine di registrare i dati nella banca dati EURODAC, così che l’Italia e la Grecia siano perpetuamente responsabili per qualsiasi richiesta d’asilo essi possano presentare. Il secondo obiettivo è la prevenzione dei “movimenti secondari” a qualsiasi costo, inclusa la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne. Il terzo obiettivo mira ad assicurare che l’emergenza continui sul territorio.
Attualmente, ciò significa estendere la rete dei centri d’accoglienza e di detenzione vicino alle zone di primo approdo, attraverso la creazione di zone di esclusione (preferibilmente sulle isole) e il concentramento delle persone al loro interno, per veicolare l’impressione di una situazione insostenibile. In realtà, tali situazioni si materializzano davvero, perché alle persone non viene permesso di fare alcuna scelta e la “prevenzione dei movimenti secondari” è diventata una priorità assoluta, dopo una prima fase in cui l’acquisizione delle impronte digitali è stata imposta come un prerequisito necessario alla possibilità di usufruire dei diritti umani fondamentali. Questo trapela chiaramente nelle “azioni consigliate per limitare i movimenti secondari” riguardanti l’Italia, affiancate da una politica che normalizza la ricerca degli stranieri da parte della polizia per rimuoverli fisicamente dalle zone in prossimità delle frontiere, preferibilmente per rispedirli nei centri di detenzione o di accoglienza (come avviene anche in Francia, a Calais).
“Come parte delle azioni attuate dalle autorità italiane per limitare gli spostamenti secondari, la polizia italiana continua a ritrasferire i migranti che si sono spostati irregolarmente dal sud al nord del paese verso i centri di accoglienza nell’Italia meridionale”. (p. 12)
Questa indicazione rispecchia le richieste della Commissione, anche da parte della sua portavoce Natasha Bertaud, il 20 di settembredel 2016, dopo che un incendio aveva bruciato delle tende e parte della struttura dell’hotspot di Moria sull’isola di Lesbos, già sovraffollata anche prima di questo incidente.
“Evitare movimenti secondari verso il resto d’Europa, questo significa tenere la maggior parte dei richiedenti asilo sulle isole”.1
Questa ossessione per il contenimento porta inevitabilmente a una crescita delle tensioni, fornendo carburante ideologico ai razzisti e all’estrema destra attraverso la saturazione delle aree di primo approdo, con la presenza a lungo termine di migranti obbligati a vivere nell’indigenza. La presenza di membri di Alba Dorata è stata evidente nelle proteste contro i rifugiati sull’isola di Lesbos.2
La portata dello sforzo istituzionale messo in campo per soffocare l’iniziativa e l’azione degli esseri umani è considerevole, come lo è l’idea che sia normale trasformare delle località, che costituiscono risorse importanti per l’UE e i suoi stati membri, in luoghi di coercizione, violenza e detenzione. Sia le isole greche che la Sicilia e il sud Italia sono luoghi importanti per il loro patrimonio storico e culturale, hanno risorse eccezionali per il turismo in virtù della loro bellezza naturale, e sono sempre state terre di confine, senza che ciò le trasformasse in luoghi di intensa sofferenza umana. Questa osservazione ha a che fare con la convinzione che i danni provocati nel presente in funzione dell’attuazione di politiche d’immigrazione volte a prevenire qualsiasi concepibile rischio futuro (tale è la natura delle attività di analisi dei rischi effettuate da Frontex) siano comparabili all’autolesionismo, a vari livelli. Includono gli atti di autolesionismo ai quali si vedono spinti i migranti in detenzione; l’autolesionismo imposto all’Italia e alla Grecia per perfezionare un sistema che le penalizza strutturalmente; l’autolesionismo attuato dall’UE nel degradare territori che dovrebbero costituire importanti risorse da valorizzare sia per l’Unione nel suo insieme che per gli stati membri in questione. Il modo in cui il mantenimento di questa situazione di “crisi” permette di minare le cornici legali e normative in nome dei controlli migratori dimostra che gli effetti nocivi vanno ben al di là del campo specifico delle politiche migratorie e delle esperienze dei cittadini stranieri non appartenenti all’Unione Europea, e influiscono sia sullo stato di diritto che sul ruolo assegnato alle forze di polizia.
Il rapporto esalta risultati minimi
– 1.406 relocation nel mese record, per cui gli stati membri hanno rilocalizzato 8.162 delle 160.000 persone previste (un tasso intorno al 5%) in più di un anno.
-11.278 persone sono giunte nei due paesi nello stesso mese; più di 1.3 milioni nel 2015/2016.
– Francia (2.091), Paesi Bassi (767),Finlandia (542), Romania (499), Portogallo (459) e Germania (408) hanno effettuato 4.766 delle 6.212 relocation dalla Grecia, oltre il 75%.
-Finlandia (359), Paesi Bassi (331), Francia (282), Portogallo (261), Germania (207) e Svizzera (133) hanno effettuato 1.573 delle 1.950 relocation dall’Italia, oltre l’80%.
– Un solominore è stato rilocalizzato dall’Italia (ne sono arrivati 24.595 nel 2016,fino al 2 dicembre); 171 dalla Grecia (dove si stima ne fossero presenti 2.300 al 17 novembre del 2016).
Il rapporto esprime soddisfazione per il recente aumento di trasferimenti nelle relocation, 1.406 in un solo mese, che portano il totale delle relocation attuate a 8.162 (6.212 dalla Grecia e 1.950 dall’Italia), cifre che sono considerate la dimostrazione di una “continua tendenza ”. Sfidando la logica per sostenere un approccio che non funziona e assicurare che l’emergenza negli stati di primo approdo continui, così da permettere che persistano le gravi violazioni dei diritti umani contro uomini, donne, bambini, vittime della tratta, donne incinte e sopravvissuti alle torture, si fissa un obiettivo mensile di 3.000 persone da rilocalizzare a partire da dicembre del 2016. 2.000 persone sarebbero rilocalizzate dalla Grecia, verso la quale si prepara la riattivazione dei trasferimenti dagli altri stati membri prevista dal Regolamento di Dublino con un chiaro esempio di malafede, e 1.000 persone al mese sarebbero rilocalizzate dall’Italia. Le cifre nel rapporto indicano che 11.278 persone sono entrate nei due paesi (1.883 in Grecia e 9.395 in Italia) nel periodo coperto dal rapporto, dal 6 novembre al 6 dicembre 2016, per la maggior parte delle quali non è applicabile la rilocalizzazione. Sembra che l’obiettivo sia che l’emergenza non scemi mai, così da poter continuare l’adozione e l’implementazione di procedure illegali e di pratiche operative ancora peggiori, come trapela chiaramente nelle “azioni consigliate per limitare i movimenti secondari” riguardanti l’Italia (vedi sopra). Dopo l’acquisizione delle impronte digitali, obiettivo per cui sono state commesse innumerevoli violazioni dei diritti umani, come documentato da molte fonti, tra cui Amnesty International3- delitti istigati dalla Commissione Europea, che è stata perentoria nell’esigere che tali violazioni ricevessero copertura legale – il nuovo obiettivo primario degli hotspot è la prevenzione dei movimenti secondari.
Nell’introduzione del rapporto si segnala la permanente necessità di “intensificare ulteriormente gli sforzi per accelerare le relocation, particolarmente per i minori non accompagnati, e gli schemi per il re insediamento esistenti”. Allo stesso tempo, mentre si indica un aumento nel numero dei migranti presenti in Grecia rispetto al mese precedente, “intorno a 62.000 migranti, dei quali 16.200 sono sulle isole e circa 45.800 nella Grecia continentale”, la cifra totale per l’Italia non viene fornita, perché sarebbe imbarazzante. Sono infatti arrivate 9.395 persone nel periodo coperto dal rapporto: un aumento del 18% rispetto alla cifra per lo stesso periodo dell’anno precedente. Gli eritrei sono il gruppo nazionale al quale è applicabile la relocation per il quale si è registrato il numero più alto di arrivi (888 persone). Basandosi sull’aumento delle relocation realizzate nel mese precedente, le rilocalizzazioni hanno toccato il record di 1.406 persone, con numeri per l’Italia quasi raddoppiati (401) e numeri per la Grecia che paiono stabilizzarsi “intorno a 1,000 al mese”, dati che il rapporto accoglie come una “continua tendenza positiva”. Il nuovo obiettivo – stabilito sulla base di una rimozione graduale degli ostacoli alla rilocalizzazione e l’intensificazione prevista degli “impegni e trasferimenti per le rilocalizzazioni” da parte degli stati membri– è che “tutte le persone qualificate per la rilocalizzazione [siano] trasferite entro il mese di settembre 2017”. Per fare ciò, è stato fissato un obiettivo di 3.000 relocations al mese (2.000 dalla Grecia e 1.000 dall’Italia), da compiere a partire dal dicembre 2016.
Per quanto riguarda il resettlement [dai campi profughi nelle zone di origine in , Giordania e Libano], l’implementazione viene considerata “forte”, visto “il reinsediamento di 13.887 persone fino ad oggi, ovvero più della metà del numero stabilito”. Il punto della questione è che il numero stabilito è imbarazzante, se si considera che ci sono milioni di rifugiati in questi tre paesi. La cifra per la Turchia, tratta da un rapporto del Consiglio per i Rifugiati danese di metà 2016, è di 2.733.044 rifugiati siriani registrati –e ben oltre i tre milioni se si contano anche altri paesi, come Afghanistan, Iran, Iraq, Somalia, ecc. Nel marzo 2016, un documento prodotto dalla stessa organizzazione forniva dati dell’UNHCR che indicavano la registrazione di 637.638 rifugiati siriani in Giordania – secondo le autorità erano circa 1.4 milioni in tutto il paese; 1.048.275 erano stati registrati in Libano – secondo il governo ce n’erano 1.5 milioni; e 2.715.789 erano stati registrati in Turchia.
In questo caso, il rapporto pone l’accento sul “numero record mensile di 2.035” persone reinsediate dall’inizio dello schema, principalmente dalla Turchia, dalla Giordania e dal Libano, segnalando che serve anche per “implementare il meccanismo 1:1 stabilito nella Dichiarazione UE-Turchia” che ha portato al reinsediamento di 2.761 persone dalla Turchia dal 4 aprile 2016. Come per le relocation, un aumento nelle cifre che non può sperare di avere alcun effetto significativo sulla situazione nei territori, tranne per scopi simbolici, viene presentato come un’indicazione che questo schema sta funzionando.
L’Italia e la Grecia si stanno riempendo di centinaia di migliaia di persone che devono essere lasciate senza alcuna speranza di uscire da questi paesi o di viverci in condizioni degne, senza possibilità di richiedere asilo o deportate come migranti economici o irregolari – come indica la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne da parte degli stati ai loro confini settentrionali. Questo è l’elefante nella stanza che il rapporto ignora, dal momento che le procedure introdotte per il funzionamento degli hotspot si basano sull’esclusione su larga scala di chiunque non possa usufruire delle relocation e dunque del diritto di richiedere asilo. Infatti, il numero di arrivi via mare stimato dall’OIM è di più di un milione nel 2015 (1.011.712) ed era di 339.783 all’inizio di novembre 2016. Il rapporto oggetto di questa analisi riguarda soltanto la rilocalizzazione di 8.162 persone (6.212 dalla Grecia e 1.950 dall’Italia), quando sarebbe bastata una semplice nota per dire che le relocation stanno fallendo,venendo meno persino al numero (pur risibile) previsto dai vertici europei, dal momento che il tasso di attuazione è appena il 5% delle 160.000 relocation sulle quali si basava il piano adottato nel 2015. Sia per quanto riguarda le rilocalizzazioni che i reinsediamenti, vale la pena segnalare che la popolazione di tutta l’UE conta ben oltre 500 milioni di persone: 510.152.681 secondo le stime Eurostat del 1° gennaio 2016.4Ciò significa che l’unico modo per sostenere che l’influsso attuale di cittadini extracomunitari è una crisi, tale da cerare emergenza, richiede che siano bloccati nel primo paese dal quale entrano, preferibilmente nelle regioni di sbarco, e che vengano evitati i “movimenti secondari” verso gli altri paesi membri.
Alcune note salienti sulla Grecia, relative al periodo coperto dal rapporto, includono la capacità del sistema di registrazione d’asilo per le nazionalità alle quali è applicabile, che “è attualmente di 175 al giorno o circa 3.500 al mese”, e la Commissione si augura che l’87% dei richiedenti re location pre-registrati possano essere registrati completamente entro la fine di gennaio 2017. Tale “esercizio di registrazione” dovrebbe essere completato entro la “fine di aprile del 2017”, dopo di che il numero di persone che partecipano allo schema dovrebbe diminuire. Quindi, il ritmo delle relocation dovrebbe aumentare fino a raggiungere almeno 2.000 persone al mese dal dicembre 2016 in avanti, e poi 3.000 persone al mese dall’aprile del 2017 in avanti, per evitare un’“accumulazione insostenibile di casi”.Tali obiettivi richiedono che tutti gli stati membri prendano impegni e trasferiscano le persone su una “base mensile stabile”. A novembre 2016, solo otto Stati membri (Germania, Estonia, Francia, Irlanda, Lettonia, Paesi Bassi, Portogallo e Slovacchia) e due Paesi associati (Norvegia e Svizzera) si sono impegnati, offrendo circa 1.560 posti, e sono state realizzate più di mille relocation da parte di 13 Stati membri e due Paesi associati. Nonostante il numero relativamente basso di posti da mettere a disposizione per le relocation previsto dalle Decisioni del Consiglio, né l’Austria (che doveva ricevere 1.491 persone dalla Grecia e 462 dall’Italia) né l’Ungheria (988 dalla Grecia e 306 dall’Italia) hanno presentato impegni formali o rilocalizzato alcuna persona.
Seguendo la stessa impostazione, la relocation di 401 persone dall’Italia viene esaltata come dimostrazione “che gli sforzi da parte della Commissione, le autorità italiane, gli Stati membri e i Paesi associati, le agenzie dell’UE e gli altri partner sul territorio stanno dando i loro risultati”. Viene predetto un ulteriore miglioramento per dicembre, una “tendenza che va rafforzata”, soprattutto visto l’aumento dei candidati per le relocation, specie eritrei (secondo il ministero degli Interni italiano, tra 5.300 e 5.800 eritrei possibili candidati per le relocation si trovano attualmente in Italia). Dei calcoli basati principalmente sul contingente eritreo – pari a “12% dei flussi migratori e 1.800 al mese di media” –portano la Commissione a considerare che un tasso di 1.000 relocation al mese dal dicembre 2016 in poi, che andrà aumentato a 1.500 al mese entro l’aprile 2017, rappresenterebbe “un ritmo di rilocalizzazioni sostenibile”.
Il contesto: gli “hotspot” sono la Grecia e l’Italia, e “hotspot” significa assenza di regole
Al contempo, la preoccupazione iniziale che l’approccio hotspot fosse semplicemente un meccanismo per attuare le politiche violando qualsiasi regola, legge o quadro normativo che potesse ostacolarle è stata aggravata dal fatto che la natura degli hotspot è profondamente eterogenea. In Grecia sono diventati centri di detenzione a lungo termine per le persone che l’UE desidera rispedire in Turchia il prima possibile, in applicazione del vergognoso accordo UE-Turchia annunciato a marzo del 2016 con un comunicato stampa. In Italia, inizialmente dovevano essere dei centri di smistamento la cui funzione principale era registrare, acquisire le impronte digitali, identificare i candidati per le relocation e rendere illegali tutti gli altri attraverso l’adozione sistematica di provvedimenti di espulsione – tecnicamente respingimenti alla frontiera, almeno fino a gennaio 2016).Poi ci furono delle pressioni da parte della Commissione affinché le procedure degli hotspot fossero attuate in qualsiasi porto sbarcassero delle persone. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano propose l’introduzione di “hotspot galleggianti” per accelerare le procedure d’identificazione e in questo clima si arrivò alla pubblicazione delle “Procedure Operative Standard” [POS] per gli hotspot a febbraio 2016. Tutti questi elementi indicavano che l’intero paese si sta trasformando in un “hotspot” per effetto di circolari amministrative.
La pagina 6 del documento POS indica che le procedure per gli hotspot non dovrebbero essere limitate agli “hotspot formalmente identificati” e che possono essere applicate:
“in situazioni diverse dagli hotspot formalmente identificati come possono essere, ad esempio, i luoghi di sbarco diversi dagli hotspot attivi. Inoltre, si ravvisa l’opportunità di considerare queste linee operative come di portata potenzialmente generale, indicativa di un possibile modello per la gestione di qualsiasi flusso misto in ingresso.” (p. 6).5
Questa lettura è rafforzata dalla flessibilità delle regole per la reintroduzione delle frontiere interne tra Stati membri, come è avvenuto ai confini settentrionali delle penisole italiana e greca –come è stato certificato dall’Ottava relazione semestrale sul funzionamento dello spazio Schengen, nella quale si afferma che:
«Sebbene nel 2013 i legislatori avessero convenuto che i flussi migratori non possono, di per sé, giustificare il ripristino dei controlli alle frontiere interne, la Commissione è del parere che l’afflusso incontrollato di un numero elevato di persone prive di documenti o con documenti inadeguati, che non vengono registrate al momento del loro primo ingresso in UE, può costituire una grave minaccia alla sicurezza interna e all’ordine pubblico e può pertanto giustificare l’applicazione delle misure straordinarie disponibili a norma del codice frontiere Schengen». (p. 6).6
Questo orientamento viene oggi ulteriormente intensificato. dato si stanno usando le misure d’immigrazione e , già introdotte per implementare l’area Schengen di libera circolazione, per smantellarla, come confermato dalle recenti proposte per reintrodurre i controlli alle frontiere anche per i cittadini dell’Unione Europea. Infattiai punti 1-4 di una proposta di riforma del “Regolamento (UE) 2016/399[sul Codice frontiere Schengen] per quanto riguarda il rafforzamento dei controlli attraverso le banche dati pertinenti alle frontiere esterne” dal dicembre 2016 in poi, si sostiene che:
“(1) I controlli alle frontiere esterne rimangono una delle principali salvaguardie per l’area senza controlli alle frontiere interne e contribuiscono significativamente a garantire la sicurezza a lungo termine dell’Unione e dei suoi cittadini. Vengono realizzati nell’interesse di tutti gli Stati membri. Uno degli scopi di tali controlli è quello di prevenire qualsiasi minaccia per la sicurezza e per le politiche pubbliche degli Stati membri, a prescindere dall’origine di tale minaccia, anche quando tale minaccia deriva da cittadini dell’Unione.
(2) Dei controlli minimi basati sulla celere e semplice verifica della validità dei documenti di viaggio per attraversare la frontiera, sono attualmente la regola per le persone che fruiscono il diritto di libera circolazione sotto il diritto comunitario. Il fenomeno dei combattenti terroristi stranieri [i cosiddetti “foreign fighters”], molti dei quali sono cittadini dell’Unione, dimostra la necessità di rafforzare i controlli alle frontiere esterne per quanto riguarda […] le persone che fruiscono del diritto di libera circolazione sotto il diritto comunitario.
(3) Quindi, i documenti di coloro che fruiscono del diritto di libera circolazione sotto il diritto comunitario dovrebbero essere controllati sistematicamente nel momento della loro entrata e uscita dal territorio degli Stati Membri usando le banche dati pertinenti che riguardano i documenti di viaggio rubati, sottratti, persi e invalidati per evitare che le persone nascondano la loro reale identità.
(3a) Gli Stati membri hanno l’obbligo di controllare sistematicamente icittadini extracomunitari usando tutte le banche dati all’entrata. Bisogna assicurare che tali controlli si effettuino sistematicamente anche all’uscita.
(4) Per lo stesso motivo, le Guardie di frontiera dovrebbero anche controllare sistematicamente le persone che fruiscono del diritto di libera circolazione sotto il diritto comunitario usando […] il Sistema di Informazione Schengen e altre banche dati pertinenti dell’Unione […]. Ciò avviene senza pregiudicare la consultazione delle banche dati nazionali e dell’Interpol.”7
Tornando al rapporto sulle relocation, la Commissione non riconosce che la logica soggiacente alle sue iniziative richiede la saturazione della Grecia e dell’Italia di persone sbrigativamente escluse e deumanizzate attraverso la loro caratterizzazione come migranti economici e – dopo la chiusura delle frontiere settentrionali – una grande battuta di caccia per deportarle.Ciò viene considerato necessario per ristabilire la “credibilità” della “politica sui rimpatri” comunitaria, la cui implementazione inadeguata viene descritta sia dalla Commissione che da Frontex come un “fattore di attrazione” [pull factor] per l’immigrazione.
Le relocation come pretesto per il degrado di due stati
Le isole greche e italiane erano considerate risorse importanti per l’UE in virtù della loro bellezza come località turistiche, con un importante patrimonio culturale e storico. Se l’UE decidesse di trasformarle in campi di reclusione con tutta la violenza e la coercizione che questo comporta, commetterebbe un grave atto di autolesionismo. Un autolesionismo inscindibile: quello dei casi di autentico autolesionismo attuati sia nei centri di detenzione che negli hotspot, che includono scioperi della fame e atti come cucirsi la bocca, provocare incendi e lesionarsi le dita per ostacolare le operazioni di acquisizione delle impronte, e l’autolesionismo imposto a due paesi i cui territori vengono degradati.Questa è l’unica prospettiva ragionevole per interpretare gli sviluppi attuati dalla primavera del 2015, ed è per questo che la lettura positiva da parte della Commissione sull’aumento del numero di relocation da risibili a leggermente meno risibili è offensivo. Anche se si materializzassero le sue previsioni ottimistiche sulle future relocation, ciò non aiuterebbe a diminuire la pressione sull’Italia e sulla Grecia. Piuttosto, contribuirà a rafforzare la discriminazione istituzionale e – con l’aiuto dell’estrema destra, alla quale sta fornendo obiettivi molto visibili e concentrati – la ricerca del migrante presentata come controllo di polizia per contrastare l’immigrazione illegale potrà diventare una pratica abituale.
Astutamente, il rapporto non segnala che le relocation già previste costituiscono solo una goccia nell’oceano, in rapporto all’arrivo di 1.011.712 persone nel 2015 e le 354.804 persone che hanno attraversato il Mediterraneo nel 2016 (ne sono morte 5.082, secondo il Missing Migrants project dell’OIM).8Non si parla nemmeno del fatto che la grande maggioranza di coloro che arrivano viene sistematicamente esclusa dal diritto di richiedere asilo dalla natura stessa dell’approccio hotspot, e che i piani per gli accordi di riammissione con i paesi terzi limiteranno la possibilità di farlo in seguito. Questo è dovuto anche alla velocità dei rimpatri previsti “senza ulteriori formalità”, in base al modello applicato dall’Italia con Egitto e Tunisia, e alla presenza delle autorità consolari o di polizia dei paesi di origine, prevista anche dal recente accordo con il Sudan. L’unica preoccupazione evidente è quella di usare le relocation come giustificazione per sviluppare le strutture di sicurezza dell’UE(agenzie, banche dati, controlli sistematici di polizia) e per creare una riserva permanente di persone clandestinizzate che le forze dell’ordine dovranno prendere di mira, istituzionalizzando la discriminazione, la violenza e la detenzione arbitraria.
Tale sistema opera anche per smantellare l’area di libera circolazione che è stata usata strumentalmente per aumentare il potere delle agenzie statali, così da prendere di mira gruppi specifici della popolazione e da sviluppare le agenzie sovranazionali. Queste ultime si stanno rivelando inadatte a compiere i propri scopi dichiarati – a parte i meccanismi di valutazione, che celano questo fatto attraverso modelli parziali di analisi – ma anche altamente distruttive, probabilmente più degli elementi inclusi come minacce nelle loro analisi dei rischi, utilizzate per ampliare le proprie competenze e rafforzare il proprio controllo in questo campo.
Il piano per le relocation potrebbe indicare la strada da seguire, ma non è che un pretesto
La cosa più triste di questo “golpe delle politiche d’immigrazione” [l’articolo è imminente] in corso dalla primavera del 2015, che ha preso le forme dell’Agenda europea sull’Immigrazione, del Piano d’azione sull’Immigrazione, dell’accordo UE-Turchia e del Processo di Khartoum, è che il piano per le relocation e l’esperienza acquisita dai paesi in prima linea sarebbero potuti servire per risolvere la crisi. Ma non è questa l’intenzione della Commissione. E non è neanche l’intenzione degli altri Stati membri, che operano all’interno dei limiti politici imposti dalla lotta contro l’immigrazione illegale, facendoli diventare un nuovo “senso comune”, ovvero la convinzione che occorra far entrare il minimo numero possibile di persone perché queste sono state equiparate a gravi minacce di ogni tipo, soprattutto per la sicurezza. Gli Stati membri, quindi, competono per accogliere il più basso numero possibile di persone, e l’esito inevitabile di tale impostazione, che è un anatema per la creazione di un’Unione Europea basata sulla cooperazione e l’aiuto reciproco, è di sacrificare gli Stati membri più esposti ( Grecia ed Italia) attraverso la degradazione dei diritti umani, dello stato di diritto e delle garanzie costituzionali nei loro territori. Nel frattempo si impostano delle politiche affinché falliscano, poiché, se anche si impiegasse il massimo sforzo possibile, non potrebbero accogliere in modo adeguato e in condizioni degne il numero di persone in arrivo, a dispetto di ciò che il Commissario Avramopoulos nel dicembre 2016 ha descritto come “sforzi erculei per gestire la crisi dei rifugiati”.9
La Commissione non è disposta a riconoscere che il suo modello per le politiche d’immigrazione non funziona nella pratica, e questo significa che qualsiasi mancanza va interpretata come effetto di un’implementazione imperfetta. Quindi non importa che i centri di detenzione siano stati certificati come istituti i cui limiti strutturali e regimi di funzionamento provocano violazioni dei diritti umani su grande scala, che non sono causati dai fallimenti nella gestione da parte degli Stati membri o da poche “mele marce” tra le persone che vi lavorano. Sono programmati, in tutta l’UE e in qualsiasi paese dove l’UE è riuscita a esternalizzare i controlli migratori, e si dà il caso che questa sia la soluzione prescelta. Dalla primavera del 2015, la Commissione ha spinto a tutta velocità per la piena implementazione di una politica disfunzionale, provocando gravi conseguenze sia per gli Stati membri che per i migranti. Entrambi andavano puniti per non aver seguito le istruzioni – i migranti continuavano ad arrivare anche se è stato loro proibito; i paesi di primo approdo non attuavano adeguatamente le norme che dovevano essere alla base del sistema Schengen/Dublino, perché avevano capito che si trattava di azioni autolesionistiche. Nel 2014, infatti, la mancata attuazione di pratiche come l’acquisizione sistematica delle impronte di tutte le persone che arrivavano ha fatto sì che il problema della crisi dei migranti e rifugiati alle frontiere dell’UE diminuisse, poiché queste persone avevano una maggiore possibilità di “rilocalizzarsi” da sole e di intraprendere “movimenti secondari”. Questi, e una distribuzione degli “oneri” relativamente egualitaria, che potrebbe basarsi sulle quote calcolate per le relocation, sembrano rappresentare l’unica soluzione percorribile per risolvere la crisi a breve e medio termine, senza porre pressione eccessiva su nessuno Stato membro.
Tuttavia l’intenzione della Commissione è di far persistere la crisi ed esacerbarla, così che possa essere usata per sviluppare ulteriormente le strutture dell’UE per la sicurezza, le sue agenzie, la sorveglianza e la capacità di detenzione, il cui mantenimento ed espansione sono diventati degli interessi economici di per sé.10Ciò significa che non bisogna permettere che l’esperienza degli Stati membri, dei limiti strutturali, e dell’insostenibilità di questo approccio, influenzi le politiche attuate. Questo vale anche per i problemi causati dal concentramento e dal mantenimento dei migranti nelle regioni di primo arrivo. L’Italia usò del resto questo metodo per promuovere un approccio emergenziale fino alle rivolte della primavera araba, nel 2011, quando attuò una redistribuzione in tutto il territorio nazionale, con l’appoggio della Commissione, per motivi legati al rispetto dei diritti umani che ormai ignora, proprio in nome delle politiche europee sull’immigrazione.
Fonti:
European Commission, Brussels, 8.12.2016, COM(2016) 791 final, “Communication from the Commission to the European Parliament, the European Council and the Council”, “Eighth report on relocation and resettlement”,
Fai clic per accedere a eu-com-791-eighth-report-relocation-and-resettlement.pdf
Annex 1: relocations from Greece
Fai clic per accedere a eu-com-791-greece-relocation-annex-1.pdf
Annex 2: relocations from Italy
Fai clic per accedere a eu-com-791-italy-relocation-annex-2.pdf
Annex 3: resettlement