Emilio Drudi
Una barriera di morte: i migranti che cercano di superarla rischiano di essere uccisi. È l’ennesimo allarme sulla Libia: viene, questa volta, dalla Nigeria… Ancora la Libia. Quella Libia con cui l’Italia, per il controllo dell’immigrazione, ha stretto pochi giorni fa un patto che, di fatto, si affida proprio a questa “barriera”, in linea con la politica di chiusura e respingimento adottata ormai da anni. D’accordo con Bruxelles. La Libia, anzi, è soltanto l’ultimo anello della lunga catena di “muri” – fisici o politico/legali – che la Fortezza Europa continua a rafforzare. E contro molti di questi muri anche nelle ultime settimane si è infranta la speranza di migliaia di disperati: in Sudan, intorno alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, in Turchia, in Bulgaria.
Libia. L’allarme viene direttamente dai vertici del Governo nigeriano. Secondo quanto riferisce il quotidiano Libyan Express, riprendendo una nota diffusa dalla agenzia di stampa Nan, l’iniziativa è di Abike Dabiri Erewa, il consigliere particolare del presidente Muhammadu Buhari per gli affari esteri e la diaspora. Punto di partenza: le numerose notizie di migranti ammazzati in Libia negli ultimi tempi, soprattutto migranti “neri” irregolari, provenienti dall’Africa sub sahariana. “Dabiri Erewa – ha scritto il Libyan Express il 23 gennaio – ha detto di non disporre né di particolari né di conferme precise, ma ha ugualmente avvertito i nigeriani di evitare un paese tormentato come la Libia, almeno finché non saranno chiarite queste storie di uccisioni”. Storie alle quali, evidentemente, il Governo di Abuja attribuisce una forte credibilità, tanto da prendere una posizione ufficiale. Del resto sono sempre più frequenti le denunce di maltrattamenti, attacchi, violenze e, appunto, uccisioni, vittime i rifugiati, ad opera delle forze di sicurezza libiche, inclusa la Guardia Costiera.
Pochi giorni prima dell’allarme lanciato dalla Nigeria ne ha parlato anche l’Independent. Il quotidiano inglese, anzi, citando i rapporti di Amnesty, contesta al Governo britannico di continuare a supportare ed addestrare la polizia di frontiera di Tripoli nonostante sia accusata di picchiare, torturare, sparare contro i migranti in fuga, per costringerli a ritornare in Libia, mettendone a rischio la vita e violando le leggi internazionali. Per non dire del rapporto presentato dall’Onu a metà dicembre 2016, nel quale si parla di pesanti complicità, sia a livello centrale che locale, di funzionari statali, agenti di polizia e militari, con i trafficanti di uomini nei cui centri di detenzione la violenza è pratica abituale: pestaggi, umiliazioni di ogni genere, ricatti ed esecuzioni sommarie, lavoro schiavo. E gli stupri sono così sistematici che molte giovani donne, dando per scontato che potranno essere violentate, prima di entrare in Libia assumono per mesi massicce dosi di ormoni e anticoncezionali, per cercare almeno di evitare una gravidanza.
Eppure, proprio mentre tutte queste terribili notizie si ricorrevano, confermando altri pesanti dossier presentati nei mesi scorsi da organizzazioni come Medici Senza Frontiere, Human Rights Watch o Habeshia, il ministro Minniti è volato a Tripoli per firmare un nuovo patto che “consegna” alla Libia la sorte dei migranti, rilanciando l’accordo sottoscritto nel 2008 dal governo Berlusconi e duramente condannato dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo nel febbraio 2012.
Sudan. In linea con il “compito” che gli è stato assegnato con il Processo di Khartoum, il presidente Omar Al Bashir ha intensificato la caccia ai migranti, incarcerandone a centinaia, in attesa di rimpatriarli contro la loro volontà. Anche quando questo “rimpatrio” significa, come nel caso degli eritrei, essere accusati di diserzione, finire in una prigione militare e spesso “sparire” senza lasciare traccia. Le retate si sono intensificate a partire dalla fine di maggio del 2016. A condurle sono i miliziani del Sudan’s Rapid Support Forces (Rsf), più noti come “diavoli a cavallo” per la serie di violenze estreme a cui si sono abbandonati nella martoriata regione ribelle del Darfur. Ora la nuova zona di operazione è la vasta fascia lungo il confine con la Libia o con l’Egitto. All’inizio dell’anno, Mohamed Hamdam Dagolo, il comandante di questi reparti speciali, ha presentato un primo bilancio: oltre 1.500 migranti arrestati. Gli ultimi 115 proprio alla vigilia del rapporto, intorno al 5 gennaio. Si ignora la sorte di queste centinaia di disperati. Così come non si è saputo più nulla dei 40 ragazzi sudanesi, in gran parte fuggiti dal Darfur, riconsegnati il 28 agosto 2016 dall’Italia al Sudan in virtù del patto bilaterale di polizia firmato in gran segreto, pochi giorni prima. E Khartoum ha già presentato il conto per questo “lavoro sporco” di controllo: a parte i finanziamenti già ricevuti circa un anno fa nel contesto degli accordi sull’immigrazione stipulati con l’Unione Europea, il comandante Dagolo ha chiesto formalmente a Bruxelles e a Roma, a nome del suo governo, di revocare e sospendere le sanzioni economiche e l’embargo imposti al Sudan dal 1997 per il conflitto nel Darfur e nelle regioni di Blu Nile e South Kordofan, ai confini con il Sud Sudan.
Ceuta e Melilla. Tra la fine di dicembre e la prima metà di gennaio si sono moltiplicati i tentativi di entrare nelle due enclave spagnole dal Marocco. A volte con assalti in massa alle barriere di filo spinato che circondano i confini. Il più clamoroso a Melilla la mattina di Natale, quando in più di 800, divisi in due gruppi di 500 e 300 migranti, quasi tutti subsahariani, hanno raggiunto di corsa i reticolati. Molti sono riusciti ad arrampicarsi e sono rimasti per ore avvinghiati alla cima, finché, feriti e spossati dalla fatica, sono ricaduti al suolo. Nessuno è riuscito a passare, tranne un paio, finiti casualmente, in gravi condizioni, dalla parte spagnola. Tutti gli altri sono stati catturati dalla polizia marocchina e avviati verso il sud del paese, in uno dei centri di detenzione che sono l’anticamera dell’espulsione forzata.
Finiscono quasi sempre così questi assalti alla disperata. E d’altra parte non può essere altrimenti. Quella barriera, formata da tre cinte, è pressoché inespugnabile. Nella prima, in zona marocchina, la rete è alta sei metri e la parte superiore è costruita in modo da ribaltarsi e far cadere all’indietro chi tenta di arrampicarsi e scavalcarla per saltare dall’altra parte. Soltanto restarvi aggrappati costa un dolore e una fatica enormi, perché c’è anche un groviglio di cavi, intricato come una ragnatela, che ondeggia, si abbassa o si solleva, a seconda del peso e dei movimenti delle persone “appese”. E a volte c’è gente che resiste anche uno, due, tre giorni in quel tormento. Poi c’è la seconda cinta, al centro, anch’essa ribaltabile, ma alta tre metri. Infine la terza, in territorio spagnolo, alta dai 4 ai 5 metri e dotata di ricettori che azionano allarmi e altri sistemi di respingimento. Senza contare il filo spinato. Chilometri di filo spinato. Anzi, di lamelle zincate, affilate come rasoi, che lacerano le mani, le braccia, le gambe, il petto, con ferite profonde. Padre Velasquez, un coraggioso sacerdote spagnolo più volte testimone di tante sofferenze, è stato espulso dal Marocco: ora, nella parte marocchina, non c’è più chi possa documentare questi orrori.
Turchia. E’ a buon punto il progetto di blindare tutta la linea di confine tra la Turchia e la Siria. Così Ankara potrà rispettare meglio il patto con Bruxelles che, in cambio di 6 miliardi di euro, l’impegna a impedire che i migranti possano raggiungere l’Europa. Si prevede di costruire una barriera lunga 900 chilometri. Accelerando i lavori al massimo, nell’ultimo anno sono stati completati i primi 330: un muro di cemento armato rafforzato da filo spinato e sensori. Si sono scelte le zone più “ critiche”, quelle dove i flussi erano più intensi, come Kilis e Hatay, o quelle curde, come Sirnak e Kobane. Altri 300 chilometri sono stati dotati di ostacoli più “leggeri”: ad esempio, reticolati, alte siepi di filo spinato o cavalli di frisia, che formano comunque una barriera tutt’altro che facile da superare, anche perché vigilata costantemente da militari e guardie di frontiera, che hanno l’ordine e non esitano a sparare ad altezza d’uomo: lo dimostrano le decine di morti e feriti segnalati da Amnesty o dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. Ora mancano circa 270 chilometri e si prevede che i lavori procedano speditamente. Di sicuro tra non molto sarà pressoché impossibile entrare: chiusura totale. Che questa sia l’intenzione di Erdogan lo dimostra anche il progetto di realizzare “campi di accoglienza” (c’è chi dice veri e propri villaggi o piccole città) al di là della nuova barriera, in territorio siriano. Campi sorvegliati, in maniera che i profughi non possano nemmeno avvicinarsi al confine con la Turchia. Così il patto con l’Europa sarà rispettato in pieno.
Bulgaria. I lavori di “blindatura” procedono spediti anche in Bulgaria: un muro di cemento e reticolati di circa 270 chilometri lungo la frontiera con la Turchia, dalla quale negli ultimi anni sono passati migliaia di profughi, soprattutto siriani, iracheni e afghani: nel 2016 quasi 20 mila; più di 25 mila nel 2015. Il progetto è a buon punto: la barriera di filo spinato si snoda già per quasi 200 chilometri. Il costo, finora, si aggira sui 50 milioni di euro. Osservata speciale è la regione di Yambol: qui il flusso è sempre stato più intenso che altrove, così i lavori, per una lunghezza complessiva di 35 chilometri, sono stati terminati già nel maggio 2016. “I cittadini bulgari si devono sentire al sicuro: la barriera praticamente non lascia opportunità per gli attraversamenti non autorizzati, nemmeno nelle zone più accessibili”, ha dichiarato il ministro degli interni, Rumyana Bachvarova, cavalcando i sentimenti di paura e spesso di ostilità diffusa nei confronti dei migranti. Non a caso a presidiare il muro in più punti è stato mandato l’esercito. E i militari hanno spesso usato sistemi a dir poco bruschi. Il Belgrade Centre for Human Rights, Human Rights Watch o Save the Children hanno denunciato frequenti casi di maltrattamenti, violenze, rapine, respingimenti arbitrari. Senza contare i miliziani volontari come l’ormai famoso Dinko che, in una intervista alla Tv, ha esaltato la “caccia ai migranti”, vantando di averne intercettati e scacciati oltrefrontiera, “a modo suo”, almeno una ventina e invocando un premio in denaro per questo “lavoro”. Nessuno ha contestato le sue dichiarazioni. Anzi, molti media hanno descritto Dinko come un eroe. Anche i “muri di Stato”, del resto, riflettono questa mentalità.