Nuova inchiesta sui morti di Ceuta: un esempio per l’Europa

 

di Emilio Drudi

Si profila una speranza di giustizia per i morti di Ceuta, annegati a un passo dal sogno di arrivare in Europa. Già, i morti di Ceuta: la strage di migranti con cui si aprì il 2014, quando in un’alba grigia la Guardia Civil bloccò decine di disperati che cercavano di raggiungere a nuoto il territorio spagnolo dal Marocco. Gli agenti non esitarono a sparare proiettili di gomma e lacrimogeni contro quelle teste e quelle braccia che si agitavano e arrancavano, in acqua. Creando una barriera insuperabile. Fatica, terrore, freddo, panico hanno fatto il resto. Alla fine si contarono 15 vittime. Cinque cadaveri furono spinti dalla corrente sulla spiaggia di Tarajal, dalla parte di Ceuta; dieci, invece, trascinati indietro, sulla riva marocchina, al di là dell’alta barriera di filo spinato che protegge il confine della Spagna.

Era il 5 febbraio. Per queste vite spezzate sono stati incriminati 16 tra funzionari e agenti della Guardia Civil in servizio quella notte alla frontiera. Il procedimento, però, nell’ottobre del 2015 si è concluso con una archiviazione: nessun colpevole, nonostante la tragedia si fosse consumata sotto gli occhi di numerosi poliziotti e, per di più, nel corso di un respingimento attuato con il pugno di ferro. Secondo i giudici di Ceuta, in sostanza, quegli agenti avevano agito in base al mandato ricevuto per difendere i confini nazionali. E quei profughi non erano “uomini in mare in grave pericolo di vita”, ai quali bisognava prestare soccorso, ma clandestini che avevano corso volontariamente il rischio di entrare illegalmente in Spagna.

“Buone notizie. L’istruttoria sostiene che non ci sono indizi che gli agenti abbiano fatto un uso inadeguato del materiale di dissuasione contro il gruppo di subsahariani che tentavano di arrivare alla spiaggia di Tarajal dal Marocco”, festeggiarono i responsabili della Guardia Civil in una serie di messaggi diffusi sul web. Aggiungendo che non c’era un protocollo specifico per regolamentare l’uso dei proiettili di gomma e dei lacrimogeni in acqua, quasi a dire che questo tipo di “contrasto” poteva ritenersi legittimo ed eventualmente da replicare in caso di necessità.

Sembrava un capitolo definitivamente chiuso, nonostante le proteste di numerose Ong, giornalisti, volontari, associazioni che si occupano dei diritti dei migranti. A tre anni di distanza, invece, il capitolo si è riaperto: il Tribunale provinciale di Cadice, da cui dipende l’ufficio giudiziario di Ceuta, il 13 gennaio scorso ha “bocciato” l’archiviazione e contestato tutta una serie di lacune nell’inchiesta, specificando che, trattandosi della vita di numerose persone, occorreva fare di tutto per andare più a fondo e ricostruire i fatti con la massima precisione possibile.

I giudici di Cadice, in particolare, rilevano che non sono stati ascoltati né i testimoni presenti sul luogo della tragedia né, tantomeno, i sopravvissuti. Anzi, che in pratica si è fatto poco o nulla per individuare ed interrogare testi attendibili, fermandosi di fronte alle prime difficoltà di rintracciarli e accontentandosi della documentazione prodotta dalla Ong Caminando Fronteras che, per quanto precisa e preziosa, non poteva sostituire il racconto diretto di chi ha vissuto quei momenti drammatici. Non solo: non si è provveduto nemmeno a ordinare un esame efficace e importante come l’autopsia sulle cinque salme che il mare ha portato fino all’arenile di Ceuta. E poi, quasi a confermare l’impressione che ci fosse come una fretta di concludere, quattro di quei cinque poveri corpi sono stati sepolti senza essere neanche identificati, non tenendo conto della necessità di dare una risposta ai familiari dei ragazzi annegati,

nel caso – come poi in effetti è avvenuto – avessero cominciato a cercarli. Solo in seguito la Guardia Civil ha trasmesso all’Interpol elementi utili per l’identificazione.

Per tutti coloro che in questi anni si sono battuti contro l’archiviazione, la decisione del Tribunale di Cadice è un “fatto storico”, per certi versi rivoluzionario. “E’ un provvedimento – ha dichiarato Helena Maleno, portavoce di Caminando Fronteras, al quotidiano El Diario – che finalmente tratta le vittime come persone. Corregge, cioè, una dinamica radicata per cui sembrerebbe che a morire alla frontiera non sono degli uomini e delle donne. Queste vittime sono sempre state trattate da cani… Come non fosse accaduto nulla. Una dinamica di disumanizzazione, che è stata avallata dall’archiviazione dell’inchiesta, lì dove si afferma che ‘i migranti non sono persone in pericolo, bisognose di aiuto, in mare’…”. “E’ la prima volta – ha aggiunto Patricia Fernandez, avvocato di un’altra Ong spagnola, sempre a El Diario – che viene imposto l’obbligo di una inchiesta approfondita ed efficace sui diritti delle vittime della frontiera. Tanto più importante se si considera che la risoluzione del Tribunale di Cadice rivela che queste persone sono morte sotto la ‘supervisione’ diretta delle forze di sicurezza dello Stato”.

Può essere, insomma, una svolta per smantellare la politica di chiusura delle frontiere della Fortezza Europa, attuata con ogni mezzo, a prescindere dalla sorte dei disperati che bussano alle porte per chiedere aiuto. Per la Spagna, innanzi tutto. Ma non solo per la Spagna. Questo intervento del Tribunale di Cadice può diventare un precedente per la stessa Unione Europea, che questa politica di militarizzazione e di chiusura ha scelto di attuarla lungo tutti i suoi confini, in mare e in terra. In mare con il mandato assegnato, ad esempio, alle motovedette dell’agenzia Frontex, le quali – come si è scoperto mesi fa nell’Egeo – in diverse occasioni non hanno esitato a sparare per fermare i battelli dei migranti che dalla Turchia cercavano di raggiungere le isole greche. Talvolta ferendo le persone che erano a bordo. O come accade – denunciano varie Ong – lungo la frontiera di terra tra la Bulgaria e la Turchia, protetta da barriere di filo spinato simili a quelle di Ceuta e Melilla e spesso anche dalle fucilate della polizia. Anche qui, appunto, quasi non si trattasse di persone, disperati bisognosi di tutto, ma di avventurieri che assaltano e minacciano l’Europa.

“Ora vedremo come si concluderà questo procedimento aperto dal Tribunale di Cadice – dice Enrico Calamai, portavoce del Comitato Nuovi Desaparecidos – ma intanto hanno ragione le Ong spagnole: è già significativo che siano state evidenziate le carenze ed anzi lo ‘spirito’ stesso con cui è stata condotta la prima inchiesta a Ceuta. D’ora in poi nessuno potrà più dire che i migranti intercettati, in mare o in terra, non debbano essere aiutati perché avrebbero ‘scelto di correre il rischio’ di tentare di varcare i confini europei senza le ‘carte in regola’. Occorre ascoltarne le ragioni, uno per uno, come prevede il diritto internazionale. Stando a quanto è emerso dalle notizie di stampa, insomma, la risoluzione di Cadice è un colpo contro i respingimenti di massa e contro la violenza che troppo spesso viene utilizzata per attuarli, mascherandola, questa violenza, sotto formule vaghe come ‘mezzi di dissuasione’, ‘regole d’ingaggio’ o altre giravolte di parole simili. Non ci sono regole che tengano se violano i diritti fondamentali dell’uomo, a cominciare da quello alla vita stessa. Credo, anzi, che sia una tappa importante proprio per il momento difficile e doloroso che stiamo vivendo, con l’Europa sempre più decisa non soltanto a militarizzare le sue frontiere ma ad esternalizzarle più a sud possibile, nel cuore stesso dell’Africa, incaricando altri Stati di svolgere, a pagamento, il lavoro sporco di sorvegliarle e di respingere i profughi. Perché poco importa chi fa o chi farà questo lavoro sporco: sono responsabili in uguale misura l’esecutore e il committente”.