La legge che ancora non c’è

In questo assurdo clima emergenziale si è smesso di parlarne, ma il tema della riforma della legge che permette l’acquisizione della cittadinanza italiana resta, a nostro avviso, di importanza strategica. Una classe  politica che volesse  dimostrare  di avere una visione proiettata nel presente – neanche nel futuro – si preoccuperebbe  di includere, anche attraverso il superamento di disposizioni legislative ormai superate, offrendo a chi vive ormai stabilmente in Italia o addirittura vi è nato, da genitori stranieri, gli strumenti per sentirsi alla pari. Il testo fermo al Senato, di cui scrive su Confronti la nostra amica Corallina Lopez Curzi, che pubblichiamo, racconta di una proposta anche insufficiente rispetto alla sfida ma che garantirebbe a 1 milione di persone, soprattutto giovani, di poter contare nelle decisioni che vengono prese nel paese in cui hanno deciso di vivere. Un milione, molti di più anche quantitativamente dei 180 mila richiedenti asilo sbarcati nel 2016 e che sono divenuti ormai mediaticamente la rappresentazione totalizzante dello “straniero”. Ma noi gli “stranieri” li realizziamo in casa, impedendo a questi giovani, alcuni anche ormai grandi, di poter dire la propria e preferiamo impiegare risorse per cacciare chi arriva piuttosto che valorizzare chi è qui e intende  restarci. Ringraziamo Confronti per averci permesso di pubblicare l’articolo che abbiamo ritenuto opportuno integrare con i link ai riferimenti legislativi e alle vicende di cui il testo racconta. Buona lettura.

Corallina Lopez Curzi*

Un “plebiscito”: così è stato definito il referendum costituzionale del 4 dicembre, quando gli italiani si sono recati in massa alle urne, con un’affluenza da record (quasi il 70%). Non proprio tutti, però, hanno potuto esprimere la propria preferenza sulla proposta di riforma costituzionale: nella concitazione pre-elettorale, tra le polemiche sul voto degli italiani all’estero ed il delirio sulle matite cancellabili, è passata quasi inosservata l’esclusione dal voto di una consistente fetta di popolazione. Sono gli “italiani senza cittadinanza”, figli di una patria che non li riconosce: sono circa un milione, tra cui molti che avrebbero voluto votare ma non hanno potuto perché, pur essendo nati o cresciuti in Italia, tutto quello che hanno è un permesso di soggiorno rinnovabile.

Italiani senza cittadinanza, italiani senza voto

Come spiega Xavier Palma del movimento #Italianisenzacittadinanza, «escludere i giovani dal referendum è una politica suicida, che taglia la coscienza al proprio futuro, noi giovani “Italiani senza cittadinanza”: un milione tra bambini, adolescenti e adulti, giudicati esclusivamente in base alle scelte migratorie dei nostri genitori. Impedirci di votare dovrebbe essere considerato antidemocratico».

Una campagna sui social media ha cercato di sollevare l’attenzione sulla intollerabile esclusione, chiedendo a tutti di metterci la faccia per chiedere l’immediata calendarizzazione della tanto attesa riforma della legge sulla cittadinanza. Ma intanto il 4 dicembre a quelle centinaia di migliaia di italiani è stato negato il diritto di votare e, ancora peggio, le cose non paiono affatto prossime a cambiare.

Come è potuto succedere? Il disegno di legge sulla riforma, approvato alla Camera in prima lettura già nell’ottobre 2015, è da allora bloccato alla Commissione Affari costituzionali del Senato, sepolto sotto una coltre di emendamenti (oltre 7000, quasi tutti presentati dalla Lega Nord). Con buona pace dell’ex premier Renzi, che aveva definito l’approvazione della riforma come priorità «in cima al programma dei mille giorni».

Ora il ddl 2092 (“Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”) è infine tornato in calendario alla Commissione Affari costituzionali del Senato, ma resta da capire se la riforma sarà praticabile dopo i cambiamenti nello scenario politico seguiti al referendum. Con il rischio che quella legge (insieme a tante altre, come quella sulla tortura) slitti ancora, a chissà quando. E che, intanto, ancora una volta si vada a votare negando a tanti italiani il fondamentale diritto al voto.

«In questa fase di incertezza ai vertici – commenta, Paula Baudet Vivanco (#Italianisenzacittadinanza) – siamo preoccupati per il futuro della riforma, ma siamo sempre determinati a far capire ai parlamentari quanto sia fondamentale dimostrare che i bambini dell’Italia sono uguali, che nessuno deve essere considerato secondario e che quindi vanno tutti tutelati con pieni diritti, cominciando con quello di non essere espulsi dal proprio Paese. Vogliamo garanzie in questo senso, iniziando dall’accesso al diritto al voto per difendere democraticamente i valori della nostra Costituzione».

Cittadinanza: come è oggi e come cambierebbe con la riforma

Per fare il punto, andiamo con ordine. Innanzi-tutto, come funziona l’attuale legge sulla cittadinanza italiana? Nel nostro paese la cittadinanza è disciplinata dalla legge n. 91 del 1992, secondo cui è sempre riconosciuta iure sanguinis: si diventa insomma cittadini italiani innanzitutto per nascita, e cioè se si è figli di almeno un cittadino italiano (e, in realtà, anche se si è nati in Italia da genitori apolidi o ignoti, che non possono quindi trasmettere la propria cittadinanza). Oltre alla cittadinanza per nascita ci sono poi anche alcuni casi in cui il diritto si può acquisire in un secondo momento, ad esempio se si viene adottati o se si sposa un cittadino italiano.

In secondo luogo: cosa prevede esattamente la riforma della legge sulla cittadinanza? Iniziamo con il dire che il nodo emendamenti è parecchio rilevante proprio perché il testo approvato dalla Camera è già un accordo al ribasso rispetto alla proposta iniziale. La proposta è una sintesi di oltre venti disegni di legge, tra cui quello di iniziativa popolare presentato dalla campagna “L’Italia sono anch’io”, ma il testo attualmente all’esame del Senato è il risultato di una serie di compromessi e presenta alcune limitazioni rispetto alla sua formulazione iniziale. Nello specifico, è composto da quattro articoli disciplinanti l’acquisizione della cittadinanza per ius soli (temperato) e per ius culturae: relativamente al primo, si prevede infatti una versione limitata del paradigma classico dello ius soli – che vorrebbe il riconoscimento della cittadinanza a chi nasce sul territorio dello Stato – chiedendosi in aggiunta che almeno uno dei genitori abbia il permesso di soggiorno o ne abbia comunque fatto richiesta prima della nascita del figlio.

Nella prima stesura del ddl si faceva invece più opportunamente riferimento alla mera residenza regolare in Italia da almeno cinque anni di uno dei genitori: come sottolineato dall’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), con la specificazione della necessità della titolarità di un permesso di soggiorno di lungo periodo Ue – che ha dei requisiti piuttosto stringenti per l’ottenimento (specificatamente un reddito minimo non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e la disponibilità di un alloggio idoneo) – si rischia infatti di pervenire a una definizione della cittadinanza “per censo”, nel senso che i bambini nati in Italia finirebbero per essere distinti nell’accesso alla cittadinanza a seconda delle capacità economiche delle proprie famiglie. In un certo senso, come spiegato dalla deputata Celeste Costantino (Sinistra ita – liana – Sel), così «si usano i genitori per limitare i diritti dei bambini».

Il secondo tipo di acquisizione della cittadinanza disciplinato dalla riforma è lo ius culturae, che garantirebbe a quanti sono nati in Italia da genitori senza il permesso di soggiorno richiesto ed ai minori stranieri giunti nel nostro paese prima del compimento dei tredici anni la possibilità di ottenere la cittadinanza a seguito del compimento di un ciclo scolastico nel nostro paese. La legge si occuperebbe dunque solo di minori, mancando così di cogliere l’opportunità preziosa per pervenire a un miglioramento dei requisiti e delle procedure previste per la naturalizzazione degli adulti. Il correttivo parziale del valore retroattivo, che permetterebbe l’applicazione alle seconde generazioni adulte ancora non italiane: per la precisione, una norma transitoria consentirebbe di ottenere la cittadinanza italiana anche alle persone titolari dei requisiti previsti per lo ius culturae che avessero già superato il limite d’età previsto per la presentazione della domanda, a condizione che dimostrino cinque anni di residenza legale sul territorio nazionale.

In altre parole? Una riforma che non è perfetta, ma che rimane comunque fondamentale, e perciò indilazionabile, per riconoscere ad oltre un milione di “italiani di fatto” – persone nate o cresciute in Italia e che considerano l’Italia la propria casa – i diritti di cui dovrebbero godere e che gli sono oggi ingiustificabilmente negati. Per cui non resta che la speranza ostinata di vedere finalmente resa positiva quella legge che ancora, insopportabilmente, non c’è.

*Pubblicato su Confronti