L’Unione Europea alla deriva sul fronte della sicurezza, si ritorna alle politiche nazionali, verso altri disastri annunciati.

Fulvio Vassallo Paleologo

Dalla sicurezza dei migranti in mare alla “sicurezza interna dell’Unione Europea”.

Mentre in Italia si vagheggia di aprire nuovi centri di detenzione (CIE) nel vano tentativo di aumentare il numero delle espulsioni effettivamente eseguite,  le scelte politiche dell’Unione Europea, alla fine del 2016, appaiono sempre più frammentate ed orientate al contrasto dell’immigrazione irregolare attraverso accordi di riammissione ( bilaterali più che multilaterali) con le autorità dei paesi di origine o di transito, anche in vista di una possibile collaborazione nelle attività di respingimento verso le coste africane e turche.  Le scelte politiche di alcuni grandi stati europei, come la Germania, ancora di recente aperte nei confronti dei migranti forzati, si stanno saldando con la chiusura dei paesi dell’Europa orientale verso qualunque tipo di immigrazione.

Obiettivo centrale delle autorità di Bruxelles sarebbe la sicurezza all’interno delle frontiere europee che si ritiene minacciata dall’attraversamento delle frontiere esterne da parte dei migranti irregolari. Si vorrebbe “ritornare a Schengen” mentre aumenta il numero dei paesi che ripristinano i controlli alle frontiere interne. L’Hotspot Approach ha creato centri di detenzione amministrativa fuori controllo, nei quali avvengono abusi di ogni genere a partire dall’ingiusto prolungamento del trattenimento amministrativo, sanzionato adesso anche dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. In ogni caso, tale “approccio”, non è servito a contenere il numero dei migranti che dall’Italia cercano di passare in altri paesi europei. Semmai ha prodotto soltanto un incremento esponenziale di “migranti economici”, come sono stati definiti per via amministrativa, destinatari di misure di allontanamento dal territorio nazionale, ineseguibili ed ineseguite. Dalla clandestinizzazione forzata alla disperazione ed alla frustrazione il passo è assai breve e non lascia molto spazio alla speranza di un futuro più tranquillo. Perché tutti rispettino i diritti di tutti, occorrerebbe che per prime le istituzioni applichino le regole dello stato di diritto.

A Bruxelles si pensa di peggiorare il Regolamento Dublino III che rimane inapplicato in molti casi di ricongiungimento familiare e di clausole umanitarie.  La Relocation promessa dall’Agenda europea sulle migrazioni del maggio 2015 è completamente fallita, ma non si riesce ad imporre a tutti i paesi UE il rispetto di clausole vincolanti di solidarietà.  Di fatto si precludono i canali di mobilità legale all’interno dell’Unione e si favoriscono mafie di ogni genere e trafficanti di terra, che lucrano sulla domanda di passaggio da un paese all’altro, spesso anche sulla pelle di minori e di migranti particolarmente vulnerabili, come coloro che hanno subito torture. Più di recente, al fin troppo sfruttato rischio “invasione”, si sono sovrapposti molteplici allarmi derivanti dalla confusione tra “clandestini”, termine tornato in voga, e potenziali terroristi. Quando è noto, in base a tutte le indagini fin qui svolte nei diversi paesi europei, che i diversi attentati che sono stati effettuati negli ultimi due anni in Europa sono riferibili a persone dotate di documenti di soggiorno, tanto che sono stati  puntualmente ritrovati proprio nei luoghi nei quali si sono verificati gli attacchi terroristici.

Si parla tanto di incrementare la collaborazione tra le polizie europee e tra queste le corrispondenti polizie dei paesi di origine,  ma  viene da chiedersi, se già la collaborazione, nella fase dei riconoscimenti necessari ai fini dei rimpatri, appare assai scarsa, quale collaborazione si potrà trovare nella persecuzione delle grandi reti criminali e terroristiche che spesso, proprio nei paesi terzi, hanno sedi inattaccabili e godono di collusioni politiche ai massimi livelli.  Il caso del presunto capo dei trafficanti eritrei, che è stato arrestato a Khartoum dalle autorità sudanesi e consegnato negli scorsi mesi alla magistratura italiana, che  autorevoli fonti inglesi sostengono  oggetto di uno scambio di persona, dovrebbe fare riflettere sulla effettiva disponibilità dei paesi coinvolti nel Processo di Khartoum, e interessati ai Migration compact proposti dall’Unione Europea, di collaborare positivamente nella lotta a trafficanti e terroristi. Una distinzione che in paesi molto vicini all’Italia, come la Libia, diventa sempre più difficile.

Eppure la collaborazione di polizia a livello europeo dovrebbe portare a risultati immediati.  Gli strumenti normativi ed i mezzi non dovrebbero mancare. Nessuno richiama più l’ultimo  Regolamento n. 1624 del 2016 istitutivo della Guardia costiera e di frontiera europea, che prevede, con un atto legislativo di natura vincolante, perché adottato con procedura di codecisione, una collaborazione più intensa tra le autorità di polizia dei diversi paesi UE in vista di un maggiore controllo delle frontiere.  Si tratta in sostanza di una espansione delle attività dell’Agenzia Frontex, che viene dotata di una base legale più ampia, e di una sua maggiore autonomia nello stabilire rapporti diretti con le autorità di polizia dei paesi terzi, anche in vista di possibili operazioni di rimpatrio o di respingimento.

Tutto l’impianto del nuovo Regolamento europeo, che dal 10 ottobre 2016 dovrebbe avere carattere vincolante per i paesi membri, appare orientato alla predisposizione di interventi rapidi alle frontiere esterne, stabiliti sulla base di programmi di interventi elaborati all’interno dell’agenzia e deliberati dal suo Direttore, e di contrasto dell’immigrazione irregolare, attraverso accordi con le autorità dei paesi di origine o di transito, anche in vista di una possibile collaborazione nelle attività di soccorso in mare e di riammissione o di respingimento verso i porti di partenza. Lo stesso regolamento costituisce un fondamento legislativo essenziale, che finora era mancato, per le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera come gli accordi tra Italia e Sudan del 4 agosto 2016,  che sino a questo momento erano rimaste frutto di accordi di polizia o Memorandum d’intesa (MoU) privi di una base legale, tanto sul piano internazionale che nel diritto interno.

Secondo quanto affermato nei “considerando” del Regolamento n.,1624 del 13 settembre 2016,  “Il Regolamento “istituisce una guardia di frontiera e costiera europea per garantire una gestione europea integrata delle frontiere esterne, allo scopo di gestire efficacemente l’attraversamento delle frontiere esterne. Ciò implica affrontare le sfide migratorie e le potenziali minacce future a tali frontiere, contribuendo così a lottare contro la criminalità grave di dimensione transfrontaliera,al fine di garantire un livello elevato di sicurezza interna nell’Unione, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e salvaguardando al contempo la libera circolazione delle persone al suo interno”.

Lo stesso Regolamento costituisce dunque un fondamento legislativo essenziale per le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera che sino a questo momento erano rimaste frutto di accordi di polizia  privi di una base legale, come quelli stipulati ad agosto del 2016 tra l’Italia ed il Sudan. Sono previsti accordi dell’Unione Europea con i paesi terzi per semplificare le operazioni di respingimento e di riammissione, ma non sembra esservi alcun richiamo alla necessità di concordare con questi stessi paesi, come oggi l’Egitto, e domani la Libia, né un effettivo rispetto dei diritti fondamentali dei migranti in transito, comunque esposti ad abusi ed al rischio di respingimenti sommari, né una qualsiasi attività coordinata nelle attività di ricerca e salvataggio al limite tra le acque territoriali e le acque internazionali ( tra le 12 e le 24 miglia dalla costa).

Al di là delle solenni dichiarazioni di principio  e del richiamo al diritto internazionale ed ai diritti umani, gli accordi con paesi terzi che non rispettano quei principi, ed in genere i diritti umani, svuotano di effettività le norme di salvaguardia che il Consiglio ed il Parlamento Europeo hanno inserito nel regolamento n.1624 del 2016 dopo un faticoso dibattito interno. Nelle politiche europee, e nelle scelte militari e di polizia che ne conseguono, non si attribuisce alcuna importanza alla situazione dei paesi nei quali si vorrebbero ricacciare i migranti respinti o espulsi dall’Unione Europea. Gli obblighi di salvataggio in mare, già sanciti dal Regolamento europeo 2014/656/UE , per quanto richiamati dal Regolamento sulla Guardia di frontiera e costiera europea rischiano di restare inevasi per la mancanza dei mezzi europei delle operazioni Frontex ed Eunavfor Med.

La parte più consistente del nuovo Regolamento che istituisce la nuova Guardia di frontiera europea riguarda il rimpatrio (return) dei migranti giunti irregolarmente in Europa o la loro riammissione nei paesi terzi di transito, in virtù dei nuovi accordi che consentono tali operazioni in forza di un consistente contributo economico europeo, sotto forma di cooperazione allo sviluppo. Non sembra che questa massiccia base normativa abbia aumentato in modo significativo la capacità espulsiva dei diversi paesi europei, probabilmente per il costo sempre più elevato dei rimpatri forzati ( e  dei correlati centri di detenzione amministrativa), oltre che per la scarsa collaborazione della maggior parte dei paesi di origine e transito. Come non sembra di immediata praticabilità la proposta europea di aprire campi di contenimento o di detenzione dei migranti in Niger.  Ed è anche significativo che nei propositi di rimpatri di massa lanciata proprio alla fine dell’anno dal nuovo ministro dell’interno Minniti,  sia del tutto scomparso il tradizionale richiamo al supporto dell’Unione Europea, e sembri invece rilanciarsi la via degli accordi bilaterali con i paesi terzi da cui proverrebbero i migranti “irregolari”. Una prospettiva ben diversa rispetto a quella enunciata con grande enfasi a livello europeo fino a poche settimane fa.  Anche su questo terreno non sembra che il principio di “solidarietà”, inteso in chiave puramente repressiva, possa funzionare davvero.

La lotta al terrorismo andrebbe fatta non con l’incremento delle misure espulsive di massa ma con attività di intelligence e interventi di soluzione pacifica e negoziata dei conflitti nelle aree di crisi dalle quali provengono gli input per le azioni terroristiche, compiute sempre più spesso da soggetti isolati, che agiscono sulla base di appelli generici che provengono dall’esterno dell’Unione Europea.  Eppure si pensa che anche gli accordi con i dittatori o con i governi militari che controllano molti paesi terzi di provenienza, già inefficaci sul piano del contenimento delle partenze dei migranti e delle operazioni di riammissione forzata, possano contribuire alla lotta contro il terrorismo.  Come solo l’inclusione sociale e la tolleranza reciproca possono sconfiggere, al contrario, il terrorismo, anche sul piano delle relazioni internazionali la partita andrebbe giocata contrastando tutti quei regimi che non rispettano i diritti umani. Come dimostrano i casi dell’Iraq e della Libia la democrazia non può essere “esportata” con le armi.

In queste fasi recenti di avvitamento della crisi libica, e di violenze crescenti che subisce la popolazione civile, compresi i migranti in transito, nessuno in Europa pensa di comporre sul piano diplomatico un conflitto che è alimentato da interessi commerciali sempre più forti, e nel quale si sta permettendo all’Egitto di Al Sisi di giocare un ruolo centrale. Con l’Egitto, paese con cui l’Unione Europea sta concludendo ulteriori accordi per il contrasto dell’immigrazione “illegale”. Se la prospettiva che si sta accogliendo è quella della spartizione della Libia, al di là delle conseguenze imprevedibili derivanti dalla presenza di Daesh in territori che, al centro delle contese, diventano terra di nessuno, non si potrà certo pensare di arginare con operazioni militari in mare, ma anche a terra, un numero crescente di migranti forzati, e tra questi anche di molti libici.

La stessa previsione di accordi di riammissione tra la Libia (o quello che ne rimarrà) ed i paesi terzi che si trovano al suo confine meridionale, come il Mali, il Sudan ed il Niger, con deportazioni  “sperimentali” già avviate da mesi, appare poco praticabile su vasta scala, quale che sia il contributo economico che l’Unione Europea sembra pronta a pagare, sul modello degli accordi già stipulati con la Turchia di Erdogan. Si è visto subito come le autorità  maliane abbiano rispedito in Francia un primo gruppo di immigrati irregolari che il governo francese sperava di potere espellere e rimpatriare  a Bamako.

Le conclusioni del recente Consiglio Europeo di dicembre, sulla scorta del Vertice di Bratislava,confermano la chiusura rispetto all’ingresso di potenziali richiedenti asilo in Europa e l’insistenza su misure di stampo puramente repressivo delle migrazioni tutte,  con la totale esclusione di canali legali di ingresso.  Il tentativo di stipulare Migration Compact con alcuni paesi africani va in una direzione che non favorisce lo sviluppo ma tende solo ad arruolare anche la cooperazione internazionale e le randi agenzie umanitarie nella lotta contro la mobilità umana.

Anche se nella Roadmap ipotizzata a Bratislava per i prossimi mesi di presidenza maltese sembra accentuato l’investimento sui sistemi di controllo alle frontiere orientali, piuttosto che un maggiore impegno di Frontex o di Eunavfor Med in Mediterraneo. L’unica prospettiva che a Bruxelles, e nelle capitali europee, si accantona è quella della creazione di canali umanitari e di vie di ingresso legale e protetto, tramite la concessione di visti di ingresso per motivi umanitari da parte delle ambasciate e dei consolati dei paesi occidentali, e non solo europei. Una prospettiva che potrebbe salvare migliaia di persone altrimenti condannate dalle attuali politiche europee a morire in mare o a marcire nei lager libici. L’Unione Europea rimarrebbe altrimenti priva di una strategia complessiva tanto sulle questioni fondamentali della sicurezza che per fare fronte agli arrivi dei migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale (seguita in prevalenza da migranti provenienti dal Corno d’Africa e dai vari stati dell’Africa subsahariana).

La sovrapposizione tra la questione della lotta al terrorismo con quella, ben diversa, del controllo della mobilità dei migranti ( quello che chiamano il “controllo dei flussi migratori”), anche attraverso la riapertura dei centri di detenzione ( CIE) che erano stati chiusi in passato, e della effettività delle misure di allontanamento forzato, avrà effetti devastanti, anche sul piano del senso comune e del consenso elettorale, allontanando di molto quella coesione sociale che tutti auspicano a parole ma che, senza l’inclusione dei migranti, e senza prospettive di regolarizzazione successiva e permanente dei cd. irregolari, diventa una parola vuota di effetti pratici.

Piuttosto che ricercare altre intese per istruire la Guardia Costiera libica nelle attività di blocco dei migranti e di riconduzione in Libia, si dovrebbero individuare metodi di collaborazione per soccorrere nel modo più efficace le persone a rischio di naufragio e nel ricondurle su un territorio nel quale possano fare valere una richiesta di asilo e non siano a rischio di subire abusi ed estorsioni.  Ma andrebbero anche verificate le condizioni di trattenimento dei migranti “illegali” nei tanti centri di detenzione in Libia.

Appare altresì evidente che le persone che in futuro dovessero essere sbarcate in territorio libico dovrebbero avere garantito il pieno ed effettivo accesso dei diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto di asilo, e che, in assenza di tali condizioni, dovrebbero essere sbarcate in un altro luogo, dunque in un altro paese, definibile con certezza come place of safety”.

Il porto di sbarco definibile come “place of safety” deve trovarsi all’interno di un paese che garantisca l’effettiva applicazione della Convenzione di Ginevra e delle altre Convenzioni internazionali che salvaguardano i diritti della persona umana. Questo paese oggi non è certo la Libia, o quello che ne rimane, nei diversi governi che si contendono il controllo del paese, anche perché la Libia non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Gli stati europei non possono scaricare soltanto sull’Italia e sulla Grecia gli obblighi di ricerca e salvataggio in un luogo sicuro. I gommoni o le imbarcazioni più piccole usate dai trafficanti possono soltanto uscire dalle acque territoriali libiche ( 12 miglia dalla costa) ma non sono in grado di resistere ad una navigazione più lunga, potendo al massimo raggiungere 30-40 miglia dalla costa, anche per la carenza di rifornimenti e per la particolare esposizione delle persone che trasportano, agli eventi atmosferici.

Chi riferisce dei compiti della missione EUNAVFOR MED citando il numero dei barconi dei trafficanti che sarebbero stati distrutti durante gli interventi delle navi europee non sa evidentemente di cosa sta parlando, o peggio vuole imbrogliare l’opinione pubblica, perché non c’è alcun bisogno di distruggere gommoni utilizzati per le partenze dalla Libia, mezzi che sono comunque destinati ad affondare da soli a poche ore dalla partenza dalla costa.  In caso di burrasche il loro destino è segnato e possono fare naufragio anche pochi minuti dopo la partenza, comunque entro la fascia di acque territoriali libiche, nelle quali gli interventi delle diverse autorità che si autodefiniscono come “Guardia costiera libica”, hanno prevalente funzione di arresto in vista di una successiva detenzione dei migranti “illegali”, piuttosto che di una vera e propria operazione di soccorso.  Sono numerose le testimonianze delle violenze e degli abusi dei migranti “soccorsi” dalla Guardia Costiera libica e rigettati nei tanti centri di detenzione dove imperversano trafficanti e poliziotti senza scrupoli.

L’Italia e l’Unione Europea, sotto la spinta di elettorati sempre più condizionati dai partiti populisti e dai nazionalismi più beceri, non si possono sottrarre ad una attività di ricerca e soccorso che preveda comunque intese, anche con le autorità libiche, volte comunque a favorire lo sbarco dei naufraghi in porti “sicuri”, quali in questo momento non possono certo definirsi i porti libici.

L’obiettivo principale dovrebbe essere costituito dalla salvaguardia del diritto alla vita, dalla protezione dei diritti dei più deboli e vulnerabili, come i minori non accompagnati e le donne vittime di tratta, in sintesi dalla messa in sicurezza dei migranti soccorsi in mare, non dal loro allontanamento, a tutti i costi, inclusa la vita, dai confini europei.

L’immediata apertura di canali legali di ingresso per i migranti in fuga dalla Libia e il ritorno delle missioni civili di ricerca e soccorso in mare nelle acque limitrofe alle coste libiche costituiscono le uniche possibili soluzioni per una crisi migratoria che, se verrà ulteriormente accresciuta la pressione militare nella lotta contro i trafficanti, o peggio, se si praticheranno respingimenti collettivi avvalendosi della Guardia costiera libica addestrata per coordinarsi con  i mezzi di Eunavfor Med e di Frontex nella ripresa dei gommoni in fuga verso l’Europa, rischia di tradursi in una serie ininterrotta di naufragi o di affondamenti, con migliaia di morti e dispersi. L’allontanamento, e comunque la oggettiva riduzione, delle navi umanitarie impegnate nelle attività SAR al largo delle coste libiche, e la delega di queste attività alla cd. Guardia costiera libica, costituiscono un pessimo segnale per il futuro, che lascia prevedere un ulteriore aumento delle vittime alle frontiere marittime, le frontiere impossibili.