Imprenditori “a casa nostra”

Fra i temi su cui intende lavorare  ADIF nel prossimo anno avrà sicuramente rilevanza quello che riguarda il mondo del lavoro. Lavoro migrante in partenza ma come pretesto per definire condizioni che a volte separano ma molto spesso uniscono  le problematiche degli autoctoni e di chi invece è presente in Italia e in Europa da molti anni. Uno spaccato diverso da quello che oggi emerge come immaginario mediatico, dove i migranti sono tornati ad essere “quelli dei barconi” o i potenziali terroristi. Uno spaccato più grande, sono oltre 5 milioni i cittadini stranieri residenti in gran parte occupati, rispetto ai 170 mila sbarcati nel 2016, sono quelli che stanno costruendo e in parte rivoluzionando la composizione sociale del paese, sono quelli che anche attraverso forme di riscatto sociale, dalla sindacalizzazione alle vertenze in atto alle lotte anche se parziali contro lo sfruttamento, esprimono voglia di cambiamento e di affrancamento da situazioni di sudditanza. Iniziamo ad affrontare il tema non partendo, come spesso accade, dalle condizioni di lavoro più disperate, al limite dello schiavismo, ma da un  rapporto sull’imprenditoria migrante. Con questa prima riflessione accenniamo appena molti temi su cui sarà il caso di tornare con estrema attenzione e necessità di capirne di più.

Stefano Galieni

Potrebbero non incontrare il gradimento degli esponenti che fanno della caccia allo straniero la propria ragion d’essere, i dati resi noti nei giorni scorsi dal Centro Studi e Ricerche IDOS, nel Rapporto su Immigrazione e imprenditoria 2016. Sì, perché sottraggono terreno a chi vorrebbe continuare a considerare i cittadini provenienti da altri paesi esclusivamente come incapienti che abbisognano dell’assistenza dello Stato e che quindi, nella vulgata circolante, sottraggono risorse “agli italiani”. Ora, premesso che in un normale paese regolato da leggi di semplice buon senso, molti di coloro che sono in Italia da tanti anni avrebbero già dovuto essere cittadini italiani, e che una parte consistente di questi, attraversato il periodo di lavoro dipendente o precario, hanno trovato la forza e le idee per mettersi in proprio, il rapporto Idos su Immigrazione e Imprenditoria (il terzo), pubblicato ancora una volta in inglese e in italiano, mette in evidenza alcuni elementi che fanno riflettere.

In premessa c’è da dire che un testo di questo tipo rompe l’equazione perentoria per cui migrante è colui che giunge col barcone in Sicilia per essere parcheggiato nelle diverse tipologie di centri di “accoglienza”. Il rapporto, come sempre fanno le ricerche serie, in particolare quelle di IDOS, racconta una realtà più complessa, stratificata negli anni, numericamente significativa e che ha modificato di fatto la struttura sociale del nostro paese, a dispetto di leggi più o meno xenofobe, nonché di politici xenofobi di belle speranze.

Il primo elemento su cui riflettere, forse il meno visibile ma il più importante, è che, nonostante i vincoli e i limiti burocratici che in Italia da sempre governano, e rallentano, i processi di sviluppo autonomo, l’economia si dimostra al solito più pronta della politica a valorizzare la mobilità sociale di molti uomini e donne di origine straniera. Forse oggi, per chi ancora non è cittadino UE, è più facile conquistarsi posizione e riscatto sociale divenendo imprenditore, anche se solo “di se stesso”, piuttosto che trovare riconoscimento nell’ambito dei diritti civili.

Certo, la crisi economica colpisce eccome: eppure, secondo l’indagine sulle Forze Lavoro di Eurostat, il numero di lavoratori autonomi che non sono cittadini UE è aumentato in 10 anni del 52,6%, e di un punto in più in Italia, arrivando a rappresentare il 6,3 di tutti i lavoratori autonomi in Europa. In Italia si tratta soprattutto di cittadini non comunitari (il 69,9%) e di questi un sesto ha dei lavoratori alle proprie dipendenze. Molte sono ditte individuali (8 su 10) esposte alla fragilità di un sistema economico frastagliato e perennemente in bilico, ma è in crescita anche il numero delle società di capitale (4,1%), indice di maggiore stabilità.

Nel complesso sono oltre 550 mila le aziende a guida immigrata registrate in Italia, che rappresentano circa il 9,1 del totale e che producono il 6,7% della ricchezza complessiva, oltre 96 mld di euro. Una parte di pil di cui questo paese non può più fare a meno, e che sembra destinato a crescere a ritmi elevati.

Il secondo aspetto estremamente importante è, per così dire, un corollario del primo. Questa fragile imprenditoria sembra rivelarsi come unico serio antidoto per affrontare la crisi strutturale che attraversa l’Italia e non solo. Negli ultimi 5 anni  (il quadro si completa con la tabella a fianco), quelli in cui si annaspa fra terrore dello spread, sciagurate politiche di austerity e interventi tesi tanto a colpire i lavoratori dipendenti quanto a imporre un carico fiscale micidiale alle piccole imprese, le aziende a conduzione straniera sono aumentate del 21%, circa 96 mila in più, a fronte di una contrazione di quelle a guida italiana che segnano un – 2,6%. Quest’ultimo dato si riferisce a 149 mila aziende che hanno chiuso, e che solo in parte sono state riequilibrate dall’aumento del 10,1 % delle società di capitali.

Ci spiace per gli xenofobi da cortile, ma non esiste alcuna correlazione fra i due fenomeni: l’aumento delle aziende “straniere” non è la causa della diminuzione di quelle “autoctone”. Mentre le prime si affacciano ora nel mercato, pur con tutte le vulnerabilità del caso – e sarà interessante fare un bilancio più approfondito nel prossimo quinquennio -, nelle seconde, oltre al carico fiscale pesa la comune assenza di processi di innovazione ma anche il calo endemico di alcuni comparti produttivi delocalizzati in altri paesi o di fatto ceduti. Pesa l’età degli imprenditori autoctoni, disposti a rischiare di meno nella produzione e di più in borsa, pesa un ricambio anche generazionale nella gestione delle imprese, spesso poggiate su un nucleo familiare.

Da una parte sembra esserci energia, forse anche spregiudicatezza nel gettarsi in un contesto per niente sicuro; dall’altra si trova spesso stanchezza, rassegnazione, sfiducia in ogni possibilità di crescita e conseguente impiego dei capitali nelle speculazioni finanziarie.

Anche la tipologia delle aziende e la provenienza di chi le mette in piedi, contribuiscono a definire un quadro forse poco prevedibile di questa nuova composizione sociale. Il commercio è il primo ambito di attività con circa 200 mila aziende. E, nonostante la crisi del settore, cresce anche l’edilizia, con oltre 129 mila imprese a guida straniera. Anche in questo campo le imprese a conduzione straniera crescono continuando a segnare un trend positivo anche se limitato ( +1% nel 2014), ma negli ultimi anni quelle a conduzione italica risultano calate del 7,5%. Il terzo comparto per dimensione che vede la presenza di aziende dirette da migranti è quello manifatturiero, con circa 43 mila aziende, in gran parte a dimensione artigianale (4 imprese su 5), che sommate a quelle edili che si definiscono artigiane porta alla cifra di 180 mila imprese.

I dati contano anche da questo punto di vista, e portano a dire che il 13,1% delle imprese registrate come artigiane è gestito da nati all’estero. In questo ambito, forse più che in altri, si evidenzia quello che è un vero e proprio ricambio generazionale i cui effetti ancora debbono stabilizzarsi. Artigianato significa avere insieme elementi di tradizione e di innovazione e in tale contesto, alla già forte presenza immigrata fra carpentieri, falegnami, imbianchini, addetti alla confezione di abbigliamento, si affianca la crescente partecipazione in aziende (soprattutto individuali) che operano nella sartoria, nel giardinaggio, nella panetteria, nella ristorazione take away. Alloggio, ristorazione, servizi alle imprese, cominciano ad imporsi a ritmi sostenuti, mentre permane un forte gap in agricoltura. Mentre rilevare anche imprese o negozi in altri comparti comincia ad essere alla portata di una componente non marginale di ceto medio migrante, in agricoltura pesano i costi di rilevazione e avvio di una azienda, la scarsa redditività (tanto è che per la componente autoctona si registrano cali sostanziosi mentre per quella di origine migrante si ha un segnale comunque positivo), ma l’assenza di capitali interviene in maniera forte ad impedire il successo in tali nicchie economiche.

Fra gli “stranieri”quelli che più si vanno imponendo in agricoltura come imprenditori sono infatti svizzeri e tedeschi, sovente forse figli o nipoti di emigrati italiani e che per il resto poco impattano nella crescita dell’imprenditoria migrante.

Secondo il rapporto sono sei i “gruppi nazionali” più attivi in campo imprenditoriale e che coprono il 54,7% dell’intero fenomeno. Marocco, Cina, Romania, Albania, Bangladesh e Senegal che di fatto si dividono, spesso in maniera uniforme, nei diversi comparti. Il commercio è il settore in cui sembrano eccellere maggiormente coloro che vengono da Marocco, Senegal e Bangladesh, l’edilizia è campo soprattutto di romeni e albanesi, commercio, manifattura, ristorazione e alloggio caratterizzano molto coloro che vengono dalla Cina. Ovviamente tali imprese sono concentrate per mille ragioni nel centro – nord; il 19,1 % in Lombardia e, più a sud nel Lazio, avendo ovviamente come epicentro Roma.

Ma c’è l’altra faccia della medaglia. Una zona grigia che riguarda l’intero “sistema Italia”. Da una parte chi, da cittadino straniero, decide di provare a costruirsi un futuro diverso da quello del lavoro dipendente, si ritrova ad affrontare gli stessi ostacoli che affronta un cittadino autoctono (difficoltà di accesso al credito, assenza di processi di sostegno ai progetti di start up, investimenti pubblici inadeguati e non in grado di far fare un salto di qualità alla semplice economia di base). Le banche sono restie ad aprirsi al rischio e chi non ha una propria liquidità di partenza incontra, migrante o meno, grandi difficoltà. Le imposizioni fiscali poi tagliano il fiato senza possibilità di sbocco. Le leggi sul mercato del lavoro permettono di risparmiare sui contributi dei dipendenti, di pagare con voucher, di sfruttare, ma strozzano le ditte individuali, depredano le “partite IVA” come chiunque intenda rischiare in proprio.

Ma la vera differenza la fa il non avere la cittadinanza italiana: molto maggiori sono le difficoltà che incontrano le persone che pur vivendo magari da oltre 10 anni in Italia, non sono ancora formalmente “italiani” per l’assurdità delle leggi nostrane. Queste persone hanno meno potere contrattuale di fronte allo Stato ma debbono dimostrarsi più ligie ai doveri, soprattutto di carattere fiscale, di ogni altro imprenditore italiano, pena il rischio di perdere non solo l’attività ma anche i pochi diritti acquisiti.

A rimetterci sono, quando ci sono, i lavoratori dipendenti o gli stessi imprenditori di se stessi. Non è infatti tutto oro quello che si mostra. Basta pensare ad orari di lavoro massacranti che non prevedono festività, turni, riposi pagati, malattie o ferie. Si pensi ai tanti negozietti aperti anche ad ore improbabili o nei giorni in cui il mondo è fermo, come durante il periodo natalizio, ai cantieri che si aprono in qualsiasi stagione dell’anno, alle piccole fabbriche che non smettono mai di produrre, in cui magari si dorme anche, per non togliere tempo al lavoro.

Non sono queste attività a sottrarre spazio all’economia autoctona. È l’economia autoctona che o si adegua o finisce con l’essere battuta sul campo, e la responsabilità non è di chi lavora di più ma di chi ha rideterminato i tempi e le modalità di produzione e di vendita, togliendo ogni spazio ai diritti di chi lavora. Da notare infatti come mentre si registra una certa consistenza nelle ispezioni di carattere fiscale, soprattutto nelle attività commerciali, a poco o a nessuno importa delle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti.

Le gestioni di carattere familiare di piccole aziende consentono poi, come ancora accade fra gli autoctoni, numerose forme di sfruttamento celato nei legami di parentela: contratti non adeguati alle mansioni, lavoro minorile, condizioni di lavoro non compatibili con quelli che dovrebbero garantire le leggi vigenti. Il condizionale è d’obbligo. Il calo delle garanzie essenziali è condizione diffusa sul territorio nazionale e, indipendentemente dalla provenienza, i “padroni” (altro che imprenditori) operano sul mercato comprimendo la sola voce su cui si ritiene possibile intervenire, il costo del lavoro.

In questa zona grigia, l’imprenditoria autoctona, tendenzialmente meno attiva ma più solida, manifesta una certa schizofrenia. Da una parte vorrebbe un controllo maggiore sulle “aziende immigrate” per “avere meno concorrenza”, dall’altra tende ad applicare le stesse politiche di contenimento del costo del lavoro giustificandosi proprio con la concorrenza delle merci che arrivano da fuori, o con la narrazione di un presunto ma mai dimostrato scontro inevitabile fra manodopera migrante e italiana che vedrebbe la prima favorita. Una “bufala”, come affermano gli istituti di ricerca più seri. Il risultato è che i lavoratori dipendenti di origine straniera sono quelli che occupano nicchie economiche non più occupate da autoctoni a causa anche dei bassi salari e della totale assenza di garanzie, mentre chi prova a riscattarsi da questo ruolo subalterno si ritrova a che fare con reazioni a dir poco scomposte.

Un esempio riguarda il commercio. Le attività commerciali e di ristorazione oggi vengono vendute anche a prezzi stracciati, con il pretesto che non rendono abbastanza e che su di esse pesa un carico fiscale insostenibile. Ma, un momento dopo la vendita, ci si lamenta del fatto che l’immigrazione sta cambiando l’identità di interi quartieri o città. Negozi e locali di ristoro sono quelli in cui la presenza straniera, al di là del numero, è più visibile e percepibile e in tal senso rivelano la punta dell’iceberg dell’approccio. Il negozio di verdure bengalese da una parte fa comodo, perché compatibile con i propri orari di lavoro, dall’altra infastidisce, perché non solo toglie spazio ai grandi centri commerciali ma garantisce la sopravvivenza soltanto a chi non si pone problemi di separazione fra tempi di lavoro e tempi di vita. Le realtà di questi settori variano solo in parte da città a città ma di fatto si impongono perché incontrano di più i tempi attuali e frenetici di vita, sono gestiti da persone giovani e sono il frutto di una fuoriuscita dal lavoro salariato di una piccola ma significativa popolazione migrante. Un nuovo ceto medio che si affaccia e che con tale percorso, prettamente individuale, attua una forma personale di lotta. Parallelamente ai lavoratori dipendenti che si mobilitano per migliori condizioni di lavoro, i singoli, come è avvenuto nei decenni passati per tanti italiani, investono le proprie esistenze per decostruire un futuro già segnato da tempi determinati da un “padrone”.

La soluzione per non far divenire queste vicende di affrancamento cariche di anni di lavoro autnomo ma forzato, ci sarebbe. Orari compatibili con la vita di clienti e lavoratori, contratti rispettati, minor carico fiscale e riduzione contrattualizzata della giornata lavorativa per i dipendenti. Autoctoni e migranti, of course. Invece da molti anni, le amministrazioni locali, non solo di marca leghista, si affannano a tentare di porre un freno a queste attività, arrivando anche a criminalizzare le macellerie halal, i locali che vendono insieme pizza e kebab, gli internet point e gli sportelli per le chiamate telefoniche all’estero, i negozi che vendono prodotti di ogni tipo destinati tanto a coloro che provengono dagli stessi paesi dei commercianti, quanto a coloro che magari vogliono conoscere o più semplicemente risparmiare senza finire nelle spire di un Mc Donald o dei circuiti della grande distribuzione.

La schizofrenia si riassume in sintesi con un concetto: i punti di pil che l’imprenditoria migrante garantisce, e che permettono di non crollare in recessione, sono necessari, ma il fatto che a beneficiarne siano in parte coloro che lo producono è inaccettabile. Anche perché – e bisogna ripeterlo, nonostante le storture redistributive che crea comunque una imprenditoria senza regole – i figli e le figlie di chi oggi ha trovato queste forme di riscatto sociale, avranno, anzi già hanno, maggiori prospettive per entrare nel mercato del lavoro non in posizione subalterna, con una preparazione di alto livello incentivata dal plurilinguismo. In fondo non c’è molto di nuovo. Molti figli di emigrati dal Meridione al nord negli anni Sessanta, o ancora quelli che per oltre un secolo se ne sono andati verso altri paesi a cercare fortuna, hanno conquistato posizioni di rilievo sociale ed economico proprio attraverso la fuoriuscita dal mercato del lavoro subalterno e cercando nuove nicchie economiche in cui entrare e occupare un ruolo prevalente.

Stante la situazione, tanto della politica che delle scelte economiche che la sovradeterminano, il futuro di questi giovani non sarà in Italia ma in altre parti del mondo dove il loro sapere troverà maggiori prospettive. Aumentando così la gioia dell’attuale Ministro del Lavoro e delle “battute infelici”.