Le parole del delirio, non solo una recensione

Stefano Galieni

…e poi capita di leggere un libro di cui avverti l’urgenza e l’importanza. Magari sei deviato dal fatto che oltre che avere una profonda e radicata stima per chi lo ha scritto, ci hai vissuto parte importante del tuo percorso formativo, non solo politico e sei portato a guardarlo con occhi diversi. Magari immagini di indovinare le smorfie, gli sguardi, i pensieri, le piccole manie quotidiane che hanno fatto parte della gestazione del volume, ne senti il calore e la forza o pretendi addirittura, in maniera megalomane di conoscerne parte delle radici. Eppure da questo libro della mia antica amica Federica Sossi, Le parole del delirio, Immagini in migrazione, riflessioni sui frantumi (Ed Ombre Corte, pp.176, 15 euro) si esce travolti, presi come da un vento forte, antidoto reale per affrontare il delirio. Apparentemente parlarne sembra facile: ci sono eventi, legati fra loro dai mille accadimenti che sono intercorsi in questi ultimi due anni, avendo al centro le fughe di uomini e donne verso l’Europa. Ci sono immagini, scattate come se facessero parte del montaggio di un film e poi un vagare impietoso attorno ad alcune parole chiave, le parole del delirio vere e proprie, quelle che si stagliano in maniera forte sull’autrice, che la fanno interrogare sul proprio essere e sul proprio essere stata, che la portano in mille percorsi angusti e a volte lugubri che sembrano l’anticamera della follia. Ma la follia, quella disperante e distruttrice, quella che annulla l’umano a cui ancora ci si aggrappa non è nell’autrice ma nelle parole, nelle leggi, nelle forme inafferrabili del Potere che le determina, nel ripetersi stanco e monotono di un male radicato e profondo contro cui non sembrano poterci essere forme di opposizione praticabili. Le parole sono quelle del sistema che governa ma anche quelle di chi vi si oppone, le azioni e le reazioni afferiscono allo stesso meccanismo infernale da cui sembra impossibile potersi sottrarre. Servono gesti di vita, pochi, che ogni tanto fanno capolino nelle parole scavate e sofferte, per lasciare una impalpabile possibilità di resistenza. Ma non bastano.

E qui si intrecciano altri livelli di lettura, che rendono questo volume ancora più prezioso.

Il primo è la presenza incombente, ossessiva, a volte addirittura fastidiosa, del punto interrogativo, di mille domande espresse con forza, urlate o piante, sussurrate o piantate nel fianco come un coltello. Sono domande a cui né chi scrive né chi legge riesce a dare risposte definitive. Se si è dall’altra parte del Sistema di Comando, sono domande che portano al delirio, come le parole, all’impotenza e alla consapevolezza di essere in un contesto, in un tempo, dove non esiste tempo per risposte efficaci. Il confronto, incontro con i corpi e i volti di chi forza le barriere dell’Europa e che si tenta di governare con le parole buone e perfide del sistema di controllo e repressione, è impari, dimostra data dopo data, parola dopo parola, una sproporzione nei rapporti di forza forse mai vista nella storia. Il sistema permea carnefici e vittime, le riporta allo stesso ordine, in una gerarchia feroce e implacabile, quanto inutile, cerca di rendere inutile e perdente ogni forma di ribellione o disobbedienza, di rendere sporca anche la “solidarietà” (una delle parole del delirio) per renderla, come i trattati (altra parola), come i “Paesi terzi sicuri” (altra parola), come parte di un contesto normato e defraudato di qualsiasi potenzialità eversiva.

Ma, ed è fondamentale, “le parole del delirio” sono messe in discussione, anche se fra mille dubbi, dai punti interrogativi, che come i corpi che non si adeguano, come le ragazze ospitate dall’autrice che rifiutano il cibo ma si curano della propria bellezza, come le madri tunisine che non si rassegnano alla scomparsa dei propri figli. Lasciano margini di dubbio e forse spazi di ribellione inesplorata.

Voglio leggere – e qui pesa il rapporto antico e sodale con Federica Sossi – in questi interstizi, quegli spazi di rivolta per cui ella negli anni ha unito passione militante e impegno intellettuale. Passione ed impegno con cui a volte era inevitabile scontrarsi, ma che nelle divergenze a volte sterili, costruivano un substrato forse intoccabie  di saperi e di vissuti. Nel testo si avvertono tentativi, forse maldestri, di cesura con quel passato comune, ma riaffiorano i guizzi, i legami mai sopiti, il bisogno anche individuale di rivedere sprazzi di rivolta non codificata. A leggerlo in prima battuta si potrebbe sprofondare nella cupezza di un pessimismo senza sbocchi eppure l’autrice sembra suggerire o intuire che la storia non è finita.

L’aiutano i suoi, i comuni, punti di convergenza dettati dalle buone frequentazioni. Dettati dall’essersi nutriti di Michel Foucault e Hannah Arendt, Walter Benjamin e Antonin Artaud, Jacques Derrida ma anche Edgar Allan Poe o Joseph Conrad, come tanti altri e altre, più recenti magari o più lontani nel tempo e nei temi affrontati ma altrettanto capaci di offrire senso e segno a quanto accade oggi. E non si tratta delle citazioni necessarie a rendere più “alto” il valore di un testo ma di interconnessioni inevitabili, di frasi scritte nel secolo passato mentre la guerra incombeva e che riaffiorano oggi nella guerra permanente e a pezzi che stravolge l’esistenza di decine di milioni di persone che teniamo opportunamente distanti.

Un testo privo di conclusioni e frutto del frammento che sono oggi le nostre coscienze, anche quelle più attive, anche quelle rimaste nel contesto, forse marginale della militanza e della resistenza. Ma viene da dire all’autrice, all’amica, alla compagna di lotte, cose che certamente già sa. Viene da dirle grazie per l’intelaiatura realizzata con questo lavoro, grazie per le parole scritte che personalmente, per inguaribile ottimismo, continuo a non ritenere mai né neutrali né inutili.

Sono parole di incitazione alla rivolta perché dalla comprensione estrema, quella che spesso non abbiamo avuto il tempo di cercare, potrebbe scaturire una rivoluzione più profonda e corposa, in cui le menti e i corpi si devono sentire coinvolti.

E viene da dire, rompendo la logica di una recensione, che il dolore e la spossatezza di mille battaglie combattute e forse perse non costituiscono la sola chiave di lettura possibile. Oggi, che i governatori delle frontiere sembrano poter dominare ogni intercapedine del pensare collettivo, spuntano come tenaci fiori nel deserto, embrioni di riscatto ingovernabili.

Oggi il Potere che tutto sembra potere, non può e non riesce a dare stabilità politica e neanche esistenziale alla propria onnipotenza e basta che dei giovani solidali decidano di stare da un’altra parte a Ventimiglia come a Bolzano, a Calais, come a Tunisi, a Istambul come a Idomeni, che si re- destabilizzi l’ordine costituito.

A differenza di anni passati i governi cercano di reprimere anche in maniera apparentemente più ottusa di come eravamo abituati, ogni segnale di dissenso. Anche portare un the caldo, una coperta, salvare una vita contiene embrioni eversivi.

E viene da dire: «Credici in questi embrioni Federica, coltivane le energie, continua a metterci del tuo, continuiamo a farlo incuranti del tempo e delle ferite. Abbiamo visto in tanti gesti ed azioni che dimostrano come non sia detta ancora la parola fine. Per quanto sangue e sofferenza, per quanti lutti ed oppressioni, gli anni che ci aspettano tenteranno di portare ancora».

Le parole del delirio, come ogni altro segno della presenza umana, potrebbero mutare direzione.

Buon vento, magari vento di insperabili rivoluzioni, quelle a cui alludi, fatte di corpi che violano le norme e di lettere rubate, come il buon Poe insegnava, che riescono a passare inosservate ma scavano.