Usa la tortura come sistema ma è partner dell’Italia sull’immigrazione

di Emilio Drudi

Ha fatto della tortura un sistema per controllare il Gambia e mantenere il potere, soffocando ogni forma di libertà. Sembrava, dopo più di venti anni, che fosse stato finalmente spodestato dalle ultime elezioni. Ma la vittoria delle opposizioni su Yahya Jammeh è durata soltanto pochi giorni. Dopo aver ammesso e accettato, a sorpresa, la sconfitta, con un discorso trasmesso dalla televisione di Stato il 3 dicembre, una settimana più tardi, la notte tra sabato 10 e domenica 11 dicembre, anziché passare le consegne ad Adama Barrow, il leader avversario, Jammeh ha contestato i risultati delle urne, annunciando che non ha intenzione di lasciare la presidenza che occupa dal 1994. Senza esito le pressioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e di una delegazione di Stati africani perché rispettasse le regole democratiche. Inascoltate le proteste della coalizione che ha vinto le elezioni. Proteste limitate, peraltro, dal rischio di finire in galera, come è già accaduto, per anni, a chiunque fosse “sgradito” al regime.

Ecco, questo personaggio è uno dei partner principali dell’Italia per il controllo dell’immigrazione dall’Africa verso l’Europa. Uno dei capi di stato che magari potrebbe essere citato a modello dal nuovo ministro degli esteri, Angelino Alfano per il programma di “accordi internazionali perché i migranti non partano”, annunciato a un giornalista del Tg-2 un minuto dopo essere diventato il “capo” della Farnesina. Con Jammeh, infatti, un patto di questo genere l’Italia lo ha già sottoscritto qualche mese fa. Un patto che prevede, tra l’altro, il rimpatrio forzato delle migliaia di giovani che sono stati costretti a fuggire dal Gambia, ma che vengono respinti dall’Europa perché, nonostante la dittatura, non sono accolti come rifugiati e richiedenti asilo, ma considerati “migranti illegali” provenienti da un “paese sicuro” e dunque respinti.

Yahya Jammeh, in effetti, ha sempre tentato di accreditare una immagine di “normalità” per il Gambia, negando persecuzioni e torture. E il Governo italiano pare abbia voluto credere a questa immagine, forse nella speranza di un cambiamento. Ma appena un cambiamento si è prospettato, il regime lo ha subito soffocato. E si è avuta contemporaneamente una durissima conferma della tortura come sistema.

E’ venuta, questa conferma, dall’ex numero tre della Nia, i servizi segreti gambiani, fuggito in Senegal nel 2013, dopo essere stato a sua volta arrestato e torturato, con l’accusa di aver collaborato con un gruppo politico contrario al regime. Si chiama Ousmane Bojang: riparato a Dakar, non ha avuto timori a rilasciare una lunga intervista ad Amaury Hauchard, inviato del quotidiano francese Le Monde in Africa, perché – dice – tutti conoscono il suo nome ma nessuno il suo volto. Il racconto che ha fatto è raccapricciante: Le Monde lo ha pubblicato il 13 dicembre 2016 nell’edizione online.

“Il compito della Nia – ha esordito Bojang – era quello di cercare informazioni, come tutti i servizi segreti del mondo. Non facevamo arresti. Quelli erano un compito della polizia. La svolta si è avuta nel 2006, dopo il fallito colpo di stato che avrebbe dovuto rovesciare Yahya Jammeh. Da quel momento Jammeh è diventato paranoico. E’ cambiato tutto: ha cominciato a usare la Nia per i suoi affari personali… A partire da quell’anno molti uomini politici sono stati arrestati dalla Nia. Come Halifah Sallah (presidente del Pdois, un partito d’opposizione: ndr) oppure Omar Jallow (presidente del Ppp, un altro partito: ndr)…. Insomma, gli arresti si sono moltiplicati e la situazione è precipitata”.

E’ da questo momento che anche le torture si sono fatte sistematiche: “La pratica della tortura – è sempre il racconto di Bojang – è diventata ricorrente. Io ero lì quando gli autori del colpo di stato sono stati torturati nella sede della Nia. E molti ci sono morti nelle sale di tortura. I prigionieri erano legati, mani e piedi, con delle corde. Non con le manette. Con delle corde, come gli schiavi. Gli infilavano la testa in un sacchetto. Un sacchetto di plastica nera, simile a quelli usati nei supermercati. Fino a soffocarli. Inoltre venivano colpiti con spranghe pesanti. Ancora e poi ancora. Non si possono immaginare le urla di quei prigionieri. A trovarsi nelle vicinanze, si potevano udire, queste urla e le suppliche, anche all’esterno della sede della Nia. Oppure venivano appesi per i piedi, sottoposti a scosse elettriche, bastonati. Parecchi dei protagonisti del colpo di stato sono stati assassinati in questo modo nel 2006: Alpha Ba, Malafi Corr…”. La stessa sorte hanno subito, secondo quanto ha denunciato Ousmane Bojang a Le Monde, giornalisti e collaboratori del sito d’informazione pubblicato dal fronte di opposizione che si è creato nella diaspora. I loro nomi sono stati scoperti e pubblicati grazie ad hacker “pirati” che sono riusciti a entrare nella rete. Un attimo dopo sono scattati gli arresti. E tutte le persone catturate sono finite nei locali della Nia.

Bojang nega di aver partecipato direttamente a questi massacri, pur avendovi assistito. “Io non sono un carnefice – ha dichiarato a Le Monde – La Nia non era composta da carnefici. Questo ruolo è svolto da uomini di Jammeh. Sono una squadra di assassini. Sicari. Sono il braccio armato di Jammeh. Vestono di nero, con un cappuccio che lascia scoperti solo gli occhi. A parte torturare le persone su incarico del presidente, non fanno nient’altro. Sono loro che arrestano e torturano. Dopo il 2006 Jammeh non si fida più nemmeno dei suoi alleati più vicini: è per questo che ha creato i ‘sicari’. Che prendono ordini solo da lui… La Nia è soltanto una copertura”.

Questo sistema, a dieci anni dal mancato colpo di stato, continua ancora. Anzi, si è intensificato in seguito al nuovo colpo di stato tentato nel 2014. Secondo alcune Ong (a cominciare da Amnesty) – come riferisce Le Monde – sarebbe stato ucciso in carcere, in circostanze mai chiarite, anche Solo Sandeng, segretario nazionale dell’Upd, un partito di opposizione, arrestato nell’aprile del 2016. “All’epoca del colpo di stato – ha riferito Bojang – Jammeh ha detto di voler dare una punizione esemplare. Ma poi non si è fermato. L’uso della tortura è continuato ed è tuttora in vigore. Qualche volta, Jammeh, parlando al telefono con i sicari, dice: ‘Non voglio più rivederlo’. Allora quelli uccidono il malcapitato… I corpi delle vittime sono sepolti in segreto e non se ne sente più parlare. Mai nessuno è stato restituito alla famiglia. Dove sono le salme dei nove prigionieri spariti nel 2012? Dov’è il corpo di Solo Sandeng? Me lo chiedo io stesso…”.

Fin qui Ousmane Bojange nell’intervista a Le Monde. Anche a voler “fare la tara”, ritenendo che abbia calcato la mano per un senso di vendetta, resta evidente l’orrore del quadro che ha dipinto. Che il racconto non sia lontano dalla realtà, del resto, lo conferma il fatto che il contenuto della sua denuncia non è  una novità in assoluto. Denunce analoghe sono arrivate in questi anni dalla diaspora gambiana ma, soprattutto, dalle relazioni di varie Ong, come Human Rigth Watch e Amnesty che, nel rapporto 2016 parla di violazione dei diritti umani, repressione del dissenso e della libertà, sparizioni forzate, persecuzione degli omosessuali, rifiuto di cooperare con le Nazioni Unite e, appunto, tortura. Bojang, semmai, ha fornito un quadro d’assieme della situazione, aggiungendo particolari, circostanze, nomi, descrizioni. Una situazione di cui il Governo italiano non può non essere a conoscenza. Eppure non ha esitato a cercare un accordo con Yahya Jammeh per bloccare in Africa chi scappa dal Gambia e rimandare indietro quelli che sono riusciti ad arrivare in Europa. Senza porsi il problema della sorte che li attende quando saranno stati riconsegnati al regime.