Le città “sicure”

Stefano Galieni

Zhang Yao Natain, 20 anni, è l’ultima vittima di una città che non accoglie. Il suo corpo trovato 4 giorni dopo la scomparsa di notte notte nei pressi dei binari della ferrovia raccontano di un incubo. Era andata a ritirare il suo permesso di soggiorno per motivi di studio la ragazza, qualcuno le ha scippato la borsa, ha provato ad inseguire chi l’aveva derubata ed è stata investita da un treno da dove neanche si sono accorti di aver divelto una vita. Una famiglia ed una comunità che la piangono, una storia assurda da una metropoli che non è, come ci urlano ogni giorno i fabbricanti di paura, insicura e violenta.

La lettura dei giornali che ne parlano è un indice perfetto di come la narrazione possa spostare l’attenzione sulle ragioni di una morte così inaccettabile. Si toglie al contesto del fatto quegli elementi che problematizzano la vicenda e si pone l’accento su altri, tanto per indirizzare le indagini quanto per evitare di farsi altre domande. Il ritratto è quello di una ragazza di buona famiglia, quello dell’immigrazione “rassicurante” di una studentessa dell’Accademia delle Belle Arti, venuta a cercare alla fonte gli strumenti per poter apprezzare alcuni fra gli aspetti che più hanno fatto grande la cultura occidentale. Ma una ragazza di buona famiglia che si è ritrovata, da sola, nei pressi di un campo rom ed in quel contesto è stata derubata, in quel contesto ha inseguito i ladruncoli e in quel pezzo di periferia romana ha perso la vita. Non si dice “sono stati quelli del campo rom” ma si indica quella come presenza pericolosa a prescindere. Nella sua ingenuità Zhang è anche andata da quelle parti con una “borsa griffata”, quindi una preda appetibile.

Ma sfuggono due elementi che rendono la percezione di questo fatto di cronaca schizofrenico e privato delle sue realtà essenziali. Zhang Yao Natain era uscita di casa per andare a ritirare il suo agognato permesso di soggiorno per motivi di studio. E la domanda, lontana nel tempo come chi da tempo si occupa di questi temi è: ma perché una persona entrata peraltro anche regolarmente (nonostante la Bossi -Fini e le sue idiozie) in Italia, deve recarsi nell’Ufficio immigrazione della questura, allo “Sportello Unico, per ritirare un documento che è un suo diritto? Perché non può averlo per posta visto che dopo aver riempito tutte le caselle necessarie per la domanda on line ha spedito per posta la sua richiesta? O al limite, perché non poteva averlo dagli uffici del proprio municipio di residenza? Semplice perché nel tanto arrabattarsi di chi dichiara di voler semplificare la vita delle persone (da anni si è governati da sedicenti semplificatori) il Permesso di Soggiorno, come ogni altro documento che riguarda chi è per lavoro o altre ragioni (studio compreso) regolarmente presente in Italia, è ancora gestito dal Ministero dell’Interno e dai suoi uffici periferici. Ci vorrebbe poco, per semplificare la vita di milioni di cittadini, basterebbe che tali pratiche venissero sbrigate nei municipi o nei Comuni, si stabilirebbe un rapporto più immediato e positivo con le istituzioni, le questure, impegnate in altro, non dovrebbero dislocare personale apposito a tale impegno. Dover andare in questura per ritirare o chiedere semplicemente un documento è di per se una caratterizzazione negativa del richiedente, separa chi è migrante da chi è autoctono con una sottile ma invarcabile linea. Per gli uni l’istituzione è in divisa per gli altri trattasi di semplice atto burocratico e amministrativo. Valgono poco anche le ragioni di sicurezza che inducono a dover far assolvere il compito a personale del Viminale, trattasi di voler preservare i poteri di polizia e le competenze a quegli uffici. Gli stessi uffici che decidono se si è degni o meno di ottenerlo quel permesso, che possono espellerti, con le più svariate motivazioni, rinchiudere in un CIE, rimpatriare in paesi a rischio, tenerti in precarietà, negarti servizi e assistenza se non rientri nei parametri richiesti. Una pratica così assurda, desueta, anche anti economica che di fatto invece di vigilare realmente sulla sicurezza delle persone incardina chi arriva in meccanismi di pre -esclusione. E a fare la fila in quell’angolo di Roma, ma vale per tutti i Comuni d’Italia, spesso con orari impossibili, con meccanismi che fanno perdere giornate di lavoro, con piccoli intoppi che fanno ricominciare il percorso da capo, ci vanno ogni giorno in tante e in tanti, la cui provenienza pesa come una identità a metà, in cui basta un cognome trascritto male per bloccare un assurdo gioco dell’oca. L’Italia, lo si ricorda ancora poco frequentemente, è stata condannata già da due volte da diversi tribunali, anche per il costo esoso del permesso di soggiorno, che fino a poco fa poteva arrivare a costare anche 200 euro. Soldi non giustificabili da alcuna ragione se non il sadismo selezionatore di classe per delimitare la fascia di persone che può esigere un diritto.

Ma se una ragazza con tante speranze è divenuta effimero simbolo di città abbrutita è anche per un’altra ragione, questa squisitamente romana che fa il paio con i tanti allarmi che arrivano dalle periferie. L’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma è situato in via Teofilo Patini, periferia sud est della città. Da qualsiasi parte si arrivi, in qualsiasi Municipio si risieda – e Roma è estesa – per arrivare in quel luogo dimenticato ci vogliono a volte ore e ore per tornare. Un luogo in cui c’è carenza di servizi, in cui chi ci abita si sente lasciato da parte, cittadino di seconda categoria. Quartieri come Collatino, Tor Sapienza (già salita agli altari della cronaca per il rifiuto di ospitare dei minori richiedenti asilo), sono vere e proprie bombe innescate. Non si investe in quei quartieri, da decenni, se non appunto nell’utilizzarli per decentrare servizi che in centro rovinano l’immagine.   Quando l’Ufficio Immigrazione venne spostato fuori dalla zona dei palazzi del potere ci fu anche chi vantò il fatto che in questa maniera si rendeva più facile la vita ai cittadini romani. Era il periodo in cui si dormiva fuori dalla Questura per prendere i primi numeretti, quelli che forse avrebbero permesso di evadere più rapidamente le pratiche. Era il periodo in cui non erano stati avviati i percorsi di informatizzazione delle pratiche e degli appuntamenti che di fatto hanno migliorato la qualità della vita di molti cittadini migranti. Quindi era meglio tenerli lontani dai riflettori, in un luogo non battuto dai turisti. Periferico? Era insita l’idea che chi voleva un documento se lo doveva guadagnare con fatica e sacrificio.

Ora se non si vuole piangere la morte di Zhang in maniera ipocrita si hanno 3 soluzioni davanti: la prima è quella di dare attuazione al passaggio di competenze ai municipi per quanto riguarda i permessi di soggiorno. Il lavoro tra l’altro, dato il calo dei migranti che ottengono permesso per ragioni di lavoro o di studio, è diminuito, quindi non ci sarebbe sovraccarico. La seconda è quella di decentrare temporaneamente in tutte le questure della città. Si evitano ingolfamenti e ognuno perde meno tempo. Certo i criteri dovrebbero essere omologati e non dovrebbe funzionare la discrezionalità che ancora impera, per alcuni documenti, nelle diverse questure italiane. La terza è quella di investire risorse pubbliche per riqualificare i quartieri dormitorio di cui non solo Roma è piena. Garantire trasporti, spazi sociali, servizi sanitari, relazioni fra gli individui, soluzioni alle emergenze abitative. welfare diffuso insomma.

Certo significherebbe sforare i vincoli di bilancio e invertire l’ordine delle priorità. Si salverebbero più persone e meno banche, si correrebbe il rischio di far sentire un rifugiato, un lavoratore, una studentessa, tante persone, più cittadini e meno sudditi. Si comincerebbe quel lento necessario lavoro di costruzione di coscienza civica che è unico reale antidoto alla barbarie xenofoba e fascistoide che sta ammorbando l’aria non solo a Roma. Ma si potrebbe cominciare anche con questi 3 passi, che non sono in contraddizione fra loro. Sarebbero la conseguenza concreta e tangibile di una splendida vittoria referendaria. E Roma sarebbe una città, ancora più sicura.