La lezione di un paesino siciliano al Regno Unito

L’articolo che pubblichiamo è stato realizzato dopo una visita fatta questa estate a Sutera, paesino dell’entroterra siciliano e pubblicato su Exepose.com il 13 novembre scorso. Anche in U.K. gungono così notizie su quanto di male e (a volte di bene) avviene nel mondo dell’accoglienza. Ringraziamo sentitamente l’autrice e l’autore delle immagini, Juan Esperanza.

Giusy A. Urbano

“Dobbiamo costruire un muro” – quando Donald Trump pronunciò queste parole, il mondo derise il suo tentativo di contrastare l’immigrazione illegale ed il crimine proveniente dal Messico. Certamente – pensammo – in Europa non arriveremo a tali misure. Entri in scena “La Grande Muraglia di Calais”, un muro alto 4 metri e lungo un chilometro che percorrerà entrambi i lati della strada per il porto di Calais, nel tentativo di impedire ai migranti di raggiungere illegalmente il Regno Unito. Il tutto per il modico costo di £1.9mln a carico dei contribuenti britannici. Le associazioni umanitarie hanno già avvertito che porterà solo a tentativi più estremi di fuga dalla Giungla di Calais, descritta dai volontari come una gigantesca discarica infestata dai ratti. Oramai il campo è stato demolito, causando un’altra ondata di proteste dalle associazioni per i diritti umani. Ma poco importa, nell’ Età del Muro, la frontiera sarà abbellita con piante e fiori per “limitarne l’impatto visivo”. Ma cosa succede quando si decide di abbattere i muri anziché costruirli?

sutera-nightAnnidato nel cuore aspro della campagna Siciliana, il paese di Sutera è divenuto l’oggetto dell’attenzione dei media internazionali. Dal 2014, Sutera ospita uno SPRAR “Sistema Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati”, con l’obbiettivo di integrare gli individui nel tessuto sociale del paese. Il modello adottato è il più inclusivo presente in Italia, ma sfortunatamente, solo il 28% dei rifugiati e dei richiedenti asilo ne beneficia. Il rimanente 72% è ospitato nei CAS – i Centri di Accoglienza Straordinari. Risucchiati in un sistema burocratico ed anonimo, i migranti devono affrontare condizioni di vita squallide ed anguste e periodi prolungati di reclusione. Dopo aver affrontato viaggi brutali verso l’Europa, non è sorprendente che molti fuggano dai vari tipi di centri di accoglienza, dagli Hotspot, da quelli di smistamento chiamati Hub. Il timore è anche quello di finire nei famigerati CIE – i Centri di Identificazione ed Espulsione e poi da lì essere rimpatriati.

«Dobbiamo creare spazi più umani” – dichiara Agata Ronsivalle “altrimenti quella che ci troviamo per le mani è una bomba sociale». Attivista della Campagna “LasciateCIEntrare”, nata nel 2011 per opporsi al divieto di ingresso per i giornalisti nei CIE e in altri luoghi di accoglienza, Agata è ben a conoscenza del lato oscuro della crisi dei rifugiati. «La stazione centrale di Catania – una delle città più grandi della Sicilia – pullula di persone molto giovani – la maggior parte minorenni – che vendono il loro corpo anche per soli 20 euro». Soldi che servono per pagare i trafficanti o semplicemente il biglietto del pullman per lasciare l’isola. Sono talmente abituati a farlo che non pensano neanche” – mi racconta Agata.

Questa cruda realtà è lo specchio della mal’accoglienza e di politiche inadeguate nel campo dell’immigrazione. I CIE – e più recenti gli HotSpot voluti dall’ Unione Europea – sono spesso “campi di concentramento abbelliti” – come li descrive un avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione a Sutera, facendo eco al progetto della “Grande Muraglia di Calais”. Non offrono nessuna speranza ai migranti. Agata racconta di come molti siano “risucchiati ed invischiati” nelle maglie predatrici della criminalità organizzata se riescono a scappare. Ma Catania non è un caso isolato. Il C.A.R.A. (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Mineo, molto noto, e affollato – è diventato un fertile terreno di caccia per prostituzione e schiavismo; donne costrette a vendere i loro corpi doloranti ed operai che lavorano sotto il solo cocente nei campi per somme irrisorie di denaro nel tentativo disperato di ripagare i loro trafficanti. Le morti non sono un avvenimento raro.

Sono precisamente questi spazi più umani che Agata crede di aver trovato a Sutera. Adagiata sul Monte San Paolino, Sutera è immersa nelle sfumature brune e dorate della campagna Mediterranea. Eccezionalmente silenziosa, le sinuose strade di Sutera non colpirono la prima famiglia di migranti come risposta alle loro preghiere. «La prima famiglia inizialmente si rifiutò di scendere dalla macchina con la quale erano arrivati a Sutera- racconta Santina Lombardo, la coordinatrice dalla ONLUS “I Girasoli” che gestisce il progetto. Li abbiamo convinti a passare una sola notte nella loro nuova casa. Un anno e mezzo dopo non se ne vogliono andare». Per Santina, dare ad ogni famiglia il proprio spazio personale è cruciale, in quanto le famiglie dei migranti sono spesso ammassati nelle stesse unità abitative, oppure sono disintegrate in strutture divise per sesso. Lo spazio personale dato alle famiglie è una caratteristica distintiva del modello SPRAR, che differisce dai CAS nell’ e dalle altre tipologie di centro anche perché nasce con l’approvazione e la partecipazione degli organi democratici locali. I CAS possono essere facilmente imposti, spesso aggirando le istituzioni locali ed imponendo un numero sproporzionato di migranti, rendendo l’integrazione impossibile. Nonostante questo, alcuni abitanti non erano conviti. Alcuni espressero preoccupazione per la sicurezza, verosimilmente incitanti dalla descrizione dei migranti come innatamente pericolosi propinata dai media e dalla politica. Altri si sono lamentati che i lavoratori del posto – colpiti da un tasso di disoccupazione fra i più alti d’ Europa – stavano venendo trascurati per l’ennesima volta. Il progetto ha assunto alcuni abitanti di Sutera come operatori. Una volta avvenuto l’incontro con i migranti le barriere si sono definitivamente sgretolate.

grotta-suteraLa fusione culturale è celebrata ogni anno in un festival di due giorni al Rabato, il quartiere Arabo di Sutera. Opere d’arte irrompono nel quartiere più antico del paese e ritmi etnici si fondono alle melodie tradizionali dei cantastorie. Delle piccole stanze sono riservate a mostrare squarci dei paesi che i migranti sono stati costretti ad abbandonare. Viene organizzata una piccola conferenza per discutere della realtà dell’accoglienza in Italia, in quanto la posizione del paese nel cuore del Mediterraneo ha reso il paese la porta d’accesso all’ Europa per molte persone. È qui che incontro Agata e Stefano Galieni, giornalista ed attivista del gruppo ADIF (Associazione Diritti e Frontiere). Per entrambi, Sutera è un’eccezione.

Un rapido sguardo alla folla riunita per le strade del Rabato, rivela un gruppo di Suteresi che competono per le attenzioni di una delle ospiti più giovani del progetto. Come mi fa notare Stefano: «L’ Africa cessa di essere una cosa misteriosa, quando diventa il ragazzo che canta al microfono o la bambina che tutti vogliono tenere in braccio». Il mescolarsi delle persone ha abbattuto il muro della paura. Un giovane ospite del progetto mi narra di come, dopo aver affrontato così tante ostilità altrove, Sutera sia stata una boccata d’aria fresca. Per Mario, studente universitario 26enne di Scienze del Servizio Sociale, il comportamento dei suoi compaesani ha un nome specifico: community care. “Gli abitanti di Sutera hanno attivato il modello senza neanche saperlo. La comunità si prende cura di sé stessa, mettendo al centro le relazioni umane”.

sutera-3Per uno degli adulti più giovani del progetto, non c’è nulla di più vero. Homs era casa sua. “Ho contato 14 razzi al minuto su Homs” – mi racconta l’adolescente. Ma non fu questo a costringere la famiglia a scappare, ma la minaccia di essere brutalmente uccisi e sparsi per tutta la Siria. Fu l’inizio di un viaggio orribile che condusse la famiglia fino in Egitto, spesso pagando somme esorbitanti per aggirare i fatali controlli di frontiera. Una volta arrivata in Egitto, la famiglia dovette affrontare la decisione più dura di tutte: dividersi. Metà della famiglia si trovò così ad affrontare il tormentoso viaggio in barcone per valicare le soglie del Mediterraneo.

Sopravvissero, a differenza delle migliaia di vite perse per il mar Mediterraneo. Una volta approdati in Calabria, vennero prese le loro impronte digitali ed il gruppo fu libero di andare in Svezia presso dei loro famigliari. Dopo la Svezia, fu il turno di un centro immigrati del Nord Italia. «Noi [residenti] lo chiamavamo “Centro Bordello” – mi racconta, ripensando alle condizioni soffocanti ed alla mancanza di speranza offerte dalla vita nel centro. È da lì che siamo stati trasferiti a Sutera. Il primo impatto fu duro, con i primi due mesi marcati dall’ isolamento e dalle barriere linguistiche, una situazione aggravata dalla lontananza dal resto della famiglia rimasta in Egitto. «Ci ha davvero distrutto, più di ogni altra cosa – mi racconta l’ adolescente, ripensando al lungo periodo vissuto lontano dalla madre ed alcuni suoi fratelli. Se non riesci ad immaginare quello che abbiamo passato, sei fortunato» aggiunge in ultima battuta, pensando alla sua Odissea moderna. Adesso che la famiglia si è riunita nel Nord Europa, vive autonomamente a Sutera. Una padronanza sicura della lingua italiana, rivela quanto le cose siano cambiate dall’ inizio così arduo. Attualmente frequenta un liceo locale, gli occhi si illuminano nel raccontarmi l’incontro con un’associazione locale e i progressi ottenuti a scuola, contando solo occasionalmente sul supporto dei suoi nuovi amici. Mentre camminiamo per le strade di Sutera, è accolto ovunque vada e mischia con nonchalance l’italiano ed il siciliano.

Nonostante ciò, non può nascondere come sia difficile spiegare la situazione in Siria «È dura spiegarlo, perché per capire quello che sta succedendo adesso devi sapere quello che è successo prima e prima ancora». Altri fraintendimenti nascono dalla natura stessa del progetto e la sensazione diffusa di essere dimenticati dallo Stato, poiché Sutera ha perso il 70% dei suoi abitanti a causa della mancanza di lavoro. «Io capisco che gli Italiani si sentano abbandonati dallo Stato, ma quello che si deve sapere è che i soldi del progetto vengono dall’ Unione Europea, mentre i problemi degli italiani sono un fatto del governo italiano». I migranti come l’adolescente hanno l’affitto pagato dall’ associazione e ricevono 62 euro di “pocket money” mensili. Una convenzione istituita con i negozi di alimentari del paese significa che anche le spese alimentari sono gestite dal progetto. È forse la profonda connessione del paese con l’emigrazione che ha creato un terreno fertile per il multiculturalismo: con l’arrivo dell’estate le strade si riempiono di emigrati suteresi e nell’aria aleggiano spezzoni di conversazioni in Inglese e Tedesco. Il futuro appare incerto, ma rimane il desiderio di rimanere in Sicilia e continuare gli studi, nella speranza di poter un giorno studiare Medicina. Nel frattempo la sua famiglia pianifica come inviare soldi per il mantenimento dall’ estero, poiché il progetto terminerà prima della fine del liceo. Con la fine delle vacanze l’unica battaglia è quella per chi paga il conto al bar. Nonostante io torni tutti gli anni a Sutera, non sono ancora riuscita nell’ impresa, ma la mia nuova persona amica sì.