- Il termine “rifugiati ambientali”
RIFUGIATI AMBIENTALI
L’espressione “rifugiati ambientali”, usata per la prima volta negli anni Settanta dall’ambientalista Lestern Brown, benché molto utilizzata, non ha ancora trovato una definizione propria e condivisa.
Tra le più accreditate resta quella di Norman Mayer, tra i maggiori studiosi del fenomeno: «I rifugiati ambientali sono persone che non possono più garantirsi mezzi di sostentamento sicuri nelle terre di origine a causa di siccità, erosione del suolo, desertificazione o altri problemi ambientali, e sono quindi obbligate a spostarsi altrove, per quanto rischioso sia il tentativo».
Non sempre è facile distinguere le migrazioni indotte da calamità naturali (tsunami, inondazioni, terremoti, cicloni, erosione delle coste, incendi, etc.) da quelle causate da mutamenti ambientali indotti dall’uomo (deforestazione, desertificazione, inquinamento, salinizzazione delle terre irrigate, perdita della biodiversità, innalzamento del livello del mare, sfruttamento delle risorse naturali): spesso in quelle che ci appaiono come catastrofi non evitabili vi sono responsabilità umane.
Sono rifugiati ambientali quelli che scappano da guerre determinate da scontri per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche, come lo sono coloro che fuggono da desertificazione e collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema per cause naturali o attività umane: land grabbing, processi di villaggizzazione forzata (negli anni ‘80 con la villaggizzazione in Etiopia morirono un milione di persone per carestia), inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici o radioattivi, scorie radioattive di bombardamenti.
SFOLLATI INTERNI
Benché l‘attenzione sia generalmente concentrata sulle centinaia di migliaia di rifugiati, migranti e richiedenti asilo che rischiano la vita per raggiungere le coste europee, le migrazioni ambientali sono in gran parte migrazioni interne. Nel 2015, guerre, violenze e disastri naturali hanno prodotto 27,8 milioni di sfollati interni nel mondo. Di questi, 19,2 milioni come conseguenza di calamità naturali: più del numero dei rifugiati in un anno. Tra gli sradicati dal conflitto siriano, circa 6.6 milioni sono profughi interni. Lontano dallo sguardo dei media e delle agenzie umanitarie, molti di loro combattono per sopravvivere in condizioni subumane, scrive François Gemenne. «Attualmente i profughi interni sono il doppio dei rifugiati nel mondo. In un certo senso, la distinzione tra profughi interni e profughi che attraversano i confini è priva di senso, in un mondo globalizzato. Una crisi come quella siriana dovrebbe portare a un nuovo modo, più olistico, di concepire la categoria delle Displaced Persons […] Occorre pensare allo spostamento di popolazioni come una sfida a più dimensioni, che investe l’aspetto umanitario, lo sviluppo sostenibile, il peace-building, la riduzione del rischio di catastrofi e un lavoro di adattamento ai cambiamenti climatici».[1]
Secondo il Global Report on Internal Displacement (GRID) 2016, presentato dall’IDMC (Internal Displacement Monitoring Centre), nel 2015 gli sfollati interni sono stati 27,8 milioni (in 127 Paesi), costretti ad abbandonare la propria casa per catastrofi naturali, conflitti, violenza generalizzata. In altre parole, ogni giorno 66mila persone sono state costrette a spostarsi o sono state deportate.
La principale differenza tra sfollati interni (IDPs) e rifugiati è che gli sfollati interni rimangono all’interno dei confini del proprio Stato, mentre i rifugiati attraversano i confini del proprio Paese e cercano protezione in un altro Stato. Nel 2015 sono stati registrati 8,6 milioni di nuovi sfollati interni causati da guerre e violenze, e 19.2 causati da disastri. Il totale a oggi – compresi gli sfollati degli anni precedenti – è pari a 40,8 milioni di persone.
Jan Egeland, segretario generale del NRC (Norwegian Refugee Council), che ha coprodotto il rapporto, afferma che «questa è la cifra più alta mai registrata, e il doppio del numero dei rifugiati in tutto il mondo».[2]
- Profughi climatici e ambientali
CATASTROFI CLIMATICHE
Secondo il rapporto The Human Cost of Weather Related Disasters 1995-2015 pubblicato dal Centre for Research on the epidemiology of disasters (Cred) e dall’Office for disaster risk reduction dell’Onu (Unisdr), «circa il 90% delle catastrofi registrate nel mondo da 20 anni sono state causate da fenomeni legati al clima, quali inondazioni, tempeste, canicole e siccità». Il rapporto sottolinea che i cinque paesi più colpiti da questi tipi di catastrofi sono gli Stati Uniti (472), la Cina (441), l’India (288), le Filippine (274) e l’Indonesia (163). Ma non sono certo gli unici. Da quando nel 1995 si è tenuta la prima Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici, sono morte circa 606.000 persone e 4,1 miliardi di esseri umani sono stati feriti, o hanno perso le proprie abitazioni, o hanno avuto bisogno di assistenza di emergenza a causa di catastrofi legate al clima.
Secondo l’Emergency events data base (Em-Dat) del Cred, negli ultimi 20 anni sono state distrutte da catastrofi climatiche 87 milioni di case; le inondazioni hanno rappresentato il 47% di tutti i disastri legati al clima tra il 1995 e il 2015 e hanno danneggiato 2,3 miliardi di persone, uccidendone 157.000. Le tempeste sono i disastri meteorologici più letali: hanno causato 242.000 decessi, il 40% delle morti legate al clima. L’89% di queste morti si sono verificate nei Paesi a basso reddito. Mentre il 92% delle morti per caldo si è verificato nei Paesi ad alto reddito, il 90% in Europa (148.000 vittime totali), la siccità colpisce l’Africa più di ogni altro continente. Em-Dat ha registrato 136 eventi tra il 1995 e il 2015, 77 di queste siccità solo in Africa orientale.
Il direttore del Cred Debarati Guha-Sapir ha avvertito che «i cambiamenti climatici, la variabilità del clima e gli eventi meteorologici sono una minaccia per il raggiungimento dell’obiettivo di eliminare la povertà dei Sustainable Development Goals (Sdgs). Dobbiamo ridurre le emissioni di gas serra e affrontare altri fattori di rischio come lo sviluppo urbano non pianificato, il degrado ambientale e i gap negli allarmi preventivi. Tutto questo richiede di assicurarci che le persone siano informate del pericolo, e il rafforzamento delle istituzioni che gestiscono il rischio di catastrofi».[3]
Nel 2015 il numero di sfollati per calamità naturali è stato 19,2 milioni in 113 Paesi. L’NRC spiega che «nel corso degli ultimi otto anni, è stato registrato un totale di 203,4 milioni di spostamenti collegati ai disastri». Come negli anni precedenti, è stata l’Asia meridionale ed orientale ad essere la più colpita, in testa l’India (3,7 milioni di sfollati), la Cina (3,6 milioni) e il Nepal (2,6 milioni).
La grande maggioranza degli spostamenti connessi a disastri derivano da eventi climatici, come tempeste e inondazioni, ma il rapporto evidenzia che «i terremoti in Nepal sono stati un duro monito sul potenziale di rischi geofisici».
Anche secondo il rapporto Migrazioni e cambiamento climatico – curato nel 2015 dal Cespi, dal Focsiv e dal Wwf – sono le tempeste e le alluvioni a colpire più duramente il pianeta, causando circa l’85% delle migrazioni climatiche (fonte: Internal Displacement Monitoring Centre – IDMC) e, a seguire, i terremoti. Secondo le stime dell’IDMC, oggi si registra il 60% di possibilità in più di dover abbandonare le proprie case per motivi riconducibili al clima di quante ve ne fossero 40 anni fa. Nel periodo 2008-2014, hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni 157 milioni di profughi: circa un terzo della popolazione dell’UE. Le cause delle intemperie risiedono nel riscaldamento climatico e nell’aumento delle superfici dei mari, nell’aumento di intensità e frequenza delle precipitazioni, compresi i monsoni asiatici che diventano sempre più violenti.
ESPROPRIAZIONE DI TERRE E RISORSE
A guerre, disastri e calamità naturali bisogna aggiungere le migrazioni forzate più direttamente connesse a fattori di origine antropica. Si tratta di eventi che spesso non rientrano nelle statistiche generali, perché difficili da quantificare e dovuti a più cause, interagenti e a lenta insorgenza. Siccità e progetti di sviluppo, soprattutto dighe, così come progetti di sviluppo urbano e agro-business delle monocolture, sono all’origine dello spostamento forzato di decine di milioni di sfollati, ma il dato è diluito nel tempo e vede l’interazione di concause naturali.
Sempre più esperti e ong chiedono di allargare l’ambito del discorso dall’aspetto climatico a quello ambientale. Questo implica che tutti i rifugiati che fuggono da catastrofi dovute all’interconnessione di eventi naturali e politiche umane vengano chiamati rifugiati ambientali, o che per essi venga coniato un termine ancora più preciso, purché – secondo l’indicazione di Saskia Sassen – si guardi alla massiccia perdita di habitat come dato interpretativo centrale.
Alla desertificazione, all’innalzamento dei livelli delle acque, all’inaridimento del suolo per via del calore, si aggiungono:
- il land grabbing, sia come acquisizione imponente di terreni da parte di governi e gruppi industriali stranieri per soddisfare la domanda interna, sia come costruzione di nuove “città” e zone di uffici spesso private;
- l’exploitation, inclusa la forte espansione del settore minerario per soddisfare la domanda di nuovi componenti da parte dell’industria elettronica;
- l’avvelenamento crescente del suolo e delle acque interne causato dalla tossicità delle industrie agricola, mineraria e manifatturiera, oltre che dai bombardamenti con sostanze chimiche e radioattive.
LEGAME TRA GUERRE E DEVASTAZIONE AMBIENTALE
Dal dopoguerra a oggi, ben 111 conflitti nel mondo sono da imputarsi a cause ambientali. 79 tra questi sono ancora in corso e 19 tra di essi sono considerati di massima intensità.[4]
Nel 2015 sono stato il Medio Oriente e il Nord Africa ad aver sostenuto gran parte del peso delle guerre, con 4,8 milioni di sfollati. Siria, Yemen e Iraq, da soli hanno rappresentato più della metà di tutti i nuovi sfollati interni da conflitto nel mondo.
Dei dieci Paesi con il più alto numero di sfollati causati dalle guerre, cinque – Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Iraq, Sud Sudan e Sudan – sono ininterrottamente sulla lista IDMC dal 2003. Alexandra Bilak, direttore dell’IDMC, evidenzia che «questa è un’ulteriore prova del fatto che, nell’assenza di aiuto agli sfollati che ne hanno bisogno, lo spostamento tende a trascinarsi per anni e anche decenni».
Non si tratta solo di guerre e conflitti locali. Secondo il Worldwatch Institute di Washington, le ondate migratorie causate dai diffusi cambiamenti climatici minacciano e sempre più potrebbero minacciare la stabilità internazionale. I circa 140 milioni di persone che tra il 2008 e il 2013 si sono trasformate in profughi in seguito a disastri collegati al clima, «sono diventate il volto umano del riscaldamento globale, e il loro stesso movimento è visto come una minaccia per la sicurezza globale».[5]
Le migrazioni di interi popoli che fuggono da fenomeni non governati – quando non addirittura indotti da interessi geostrategici e politiche economiche occidentali in accordo con i regimi africani – non potranno che portare a conflitti sociali in Europa e in Africa e a un’involuzione generale del sistema di diritti su cui dovrebbe poggiare l’Unione.
I dati
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) hanno dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno i 200-250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio paese. Secondo un dossier di Legambiente, il numero dei profughi ambientali nel 2015 ha superato quello dei profughi di guerra.
Aspetto giuridico
Benché largamente utilizzata nel linguaggio comune, il termine “rifugiato ambientale” resta ancora impreciso da un punto di vista giuridico: né la Convenzione di Ginevra né il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status di chi fugge a causa di catastrofi ambientali. Svezia e Finlandia sono gli unici Paesi europei ad aver incluso i profughi ambientali nelle rispettive politiche migratorie nazionali.
Secondo esperti e ong, tra le azioni principali da intraprendere per aiutare concretamente i profughi ambientali resta il riconoscimento giuridico, il quale implica una presa di coscienza da parte degli Stati del problema del cambiamento ambientale e del suo impatto sulle popolazioni.
L’impossibile distinzione tra profughi e migranti economici
Molti studiosi – tra questi François Gemenne, tra i relatori del convegno – ritengono che sia essenziale vedere come la nostra sia l’era geologica in cui i modelli di produzione e consumo sono in grado di determinare equilibri e squilibri ambientali agendo sulle forze della natura come regolatori di flusso, potenziandone o depotenziandone gli effetti. Se le attività umane influenzano l’atmosfera e ne alterano gli equilibri, in quella che viene chiamata l’era dell’Antropocene (Paul Jozef Crutzen 2000) ha poco senso distinguere nettamente le migrazioni ambientali direttamente collegate all’attività antropica da quelle di cui quest’ultima è causa indiretta o concausa. È invece il caso di sottolineare che al modello di produzione e consumo globale è legata non solo la sorte del Pianeta e dell’umanità intera nel lungo periodo ma, in tempi più vicini, quella delle comunità sulle quali si abbattono gli effetti degli stravolgimenti ambientali. Aver varcato i confini geologici dell’Antropocene significa ammettere che i disastri naturali abbiano perso la propria connotazione fatalistica, accidentale, catastrofica, interrogando invece su quanto il loro intensificarsi, la maggiore frequenza e i conseguenti flussi migratori siano conseguenza dell’attività antropica».
L’espulsione dal proprio habitat di ampie quote della popolazione mondiale a causa del deterioramento ambientale è ormai considerato dalla comunità scientifica un fenomeno inevitabile, quali che siano le misure che verranno prese per contenere i cambiamenti climatici e l’aggressione alle risorse naturali. Queste migrazioni vanno ad aggiungersi a quelle provocate da guerre e persecuzioni politiche, religiose o etniche.
POLITICHE EUROPEE
Guardando alle attuali politiche europee in materia di migrazione, l’introduzione del cosiddetto approccio hotspot opera una distinzione impossibile tra profughi e migranti economici, che sceglie la cecità di fronte al sovrapporsi dei motivi e delle responsabilità che inducono le persone ad abbandonare i propri luoghi di esistenza.
Secondo François Gemenne, gli spostamenti di popolazione dovuti a cambiamento climatico e ad altri sviluppi ambientali negativi possono non soltanto minare il tessuto sociale delle società colpite, ma produrre una competizione crescente per le risorse, il lavoro e i servizi sociali nelle aree di recezione. La velocità, la direzione e l’estensione di tali movimenti di popolazione potrebbero avere conseguenze economiche e politiche profondamente destabilizzanti. Misure tempestive di adattamento, che includono politiche di sostegno sia per i migranti sia per coloro che non hanno risorse sufficienti per spostarsi, possono essere utili sia agli individui sia alle società per far fronte alle ripercussioni dei cambiamenti climatici. «Che le migrazioni indotte dal clima costituiscano in futuro un fallimento o un successo dell’adattamento, dipenderà non solo dall’impatto climatico ma soprattutto dalle scelte politiche che facciamo oggi».[6]
- Rapporto 2016 IDMC, http://www.internal-displacement.org/globalreport2016/#home ↑
- http://www.greenreport.it/news/clima/278-milioni-sfollati-interni-nel-2015-guerre-violenze-disastri-naturali-408-milioni/. ↑
- http://www.greenreport.it/news/clima/onu-causate-dal-clima-circa-il-90-delle-catastrofi-degli-ultimi-20-anni/. ↑
- Dati del report commissionato dai paesi del G7 all’istituto tedesco Adelphi con il sostegno del ministero degli Esteri tedesco. ↑
- Worldwatch Institute 2015, Beyond the Climate Refugee http://www.worldwatch.org/beyond-climate-refugee-migration-adaptation ↑
- François Gemenne, Migration as a Climate Adaptation Strategy, in State of the World 2015, World Watch Institute. ↑