A New York si fanno promesse che i fatti continuano a smentire

Stefano Galieni

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha prodotto il 19 settembre una Dichiarazione di New York su migranti e rifugiati. Un segnale positivo in quanto per la prima volta l’Onu affronta il tema in chiave globale e in quanto 55 paesi hanno partecipato al summit che ha prodotto il testo. Ma leggendo il testo prodotto e guardando agli impegni concreti che l’Onu si è data non si può non convenire con l’intervento di Loris De Filippi, Presidente di Msf Italia, pubblicato anche sul nostro sito prima che il summit si concludesse.Lodevole iniziativa ma presa dagli stessi paesi che di una catastrofe umanitaria che finirà sui libri di storia sono responsabili.

Alcune cifre

Dal summit è uscito l’impegno a dare rifugio a 360 mila richiedenti asilo, con un incremento dell’impegno economico di circa 4 mld di euro. Una cifra semplicemente ridicola, basti pensare che la sola UE nello scorso marzo ha stipulato un accordo con la Turchia mediante il quale con 6 mld il regime di Erdogan si impegna a non far arrivare più in Europa chi fugge da Siria, Medio Oriente e altri paesi di emigrazione forzata. Degli oltre 21 milioni di persone che nello scorso anno hanno cercato riparo in un altro paese, secondo un rapporto Oxfam, soltanto il 9% (meno di 2 milioni) ha trovato riparo in uno dei sei paesi più ricchi del pianeta: Cina, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e USA. Di questi è la Germania che, in termini sia assoluti che relativi ha accolto più persone, provenienti in particolar modo dalla Siria. E parliamo dei paesi che da soli detengono oltre il 50% dell’economia mondiale.12 milioni di persone invece, sono concentrati in altri 6 paesi: Giordania, Libano, Pakistan, Palestina, Sud Africa e Turchia. Oltre la metà dei rifugiati a fronte di meno del 2% complessivo di peso economico di questi sei Stati. Uno squilibrio assurdo in cui andrebbe ricordato anche il ruolo italiano, contemporaneamente ottava potenza mondiale ma al trentacinquesimo posto per quanto riguarda il numero delle persone accolte. E questo computo non ha tenuto conto degli oltre 42 milioni di rifugiati interni, di sfollati, perennemente sul punto di fuggire e spesso tenuti in campi profughi o in condizioni di assoluta assenza di diritti, su cui urge altrettanto importante intervento. E di questi non fanno parte i 40 milioni di profughi ambientali di cui discutiamo sabato 24 settembre a Milano, costretti ad allontanarsi dal proprio paese a causa di desertificazione, cambiamenti climatici, inquinamento dell’acqua eccetera. Ma di questi non fanno neanche parte coloro che, vivendo in paesi le cui condizioni economiche garantiscono soltanto ad una percentuale minima di privilegiati una vita agiata e costringono il resto delle popolazioni alla povertà assoluta.Per dare letteralmente i numeri, attorno ad una questione che riguarda qualche centinaio di milioni di persone in estrema difficoltà, la risposta concreta di aiuto ne salva 360 mila.

Ma anche questa cifra è poco credibile

Non esistono infatti procedure impositive per imporre l’accoglienza: i paesi che vorranno farlo saranno ben graditi, quelli che si rifiuteranno verranno al massimo redarguiti. Guardando l’ambito UE, le politiche che dovevano fare da apripista di queste relocation, sono miseramente fallite per stessa ammissione di chi le ha determinate. L’Europa Unita a fronte di 160 mila persone da sistemare, come pacchi e mettendo in subordine i desiderata degli stessi, dal settembre 2015 al settembre 2017, a maggio 2016 ne aveva ricollocati 2280, di cui 800 provenienti dall’Italia. Pochissimi. Colpa delle procedure che selezionano i relocandi in base ai paesi di provenienza, delle scelte dei singoli Stati, del fatto che un simile ferruginoso meccanismo di fatto rafforza i vincoli alla circolazione imposti dal Regolamento Dublino. E l’immediato futuro afferma ben altro rispetto a quanto detto nel Palazzo di Vetro. Lo scontro tutto interno all’UE, al di là delle sue enfatizzazioni per produrre consenso nei singoli paesi, va determinando politiche di dissuasione, “con ogni mezzo” a chi decide di entrare in Europa. In Italia aumentano gli accordi bilaterali di riammissione peraltro neanche sottoposti al passaggio parlamentare, si vanno determinando patti informali con Libia, Sudan, Gambia e Nigeria che guardano ai dettami del Processo di Khartoum e che porteranno ad esternalizzazione massiccia delle frontiere (dal Maghreb all’Africa Sub-Sahariana) e a rimpatri coatti anche in paesi terzi considerati sicuri anche se retti da regimi dittatoriali o con forti tensioni interne. Si tratta di politiche miopi che fanno il paio con la realizzazione di sempre più numerose barriere esterne ed interne, dai muri balcanici a quello di Calais. Produrranno sicuramente un aumento delle vittime fra coloro che attraversano “illegalmente” le frontiere ma non potranno mai fermare movimenti di cui non si vogliono affrontare le cause. Le vittime accertate in questa parte del 2016 nel tentativo di fuga in tutto il mondo sono quasi 6000, in gran parte nel Mediterraneo. A queste vanno ad aggiungersi coloro che hanno perso la vita due giorni fa nei pressi delle coste egiziane.

I buoni propositi di New York

un-flag-2961283232068fgf2I leader che si sono incontrati il 19 settembre hanno assunto impegni il cui peso è certamente influenzato dalle situazioni interne. L’afflato umanitario di Barak Obama perché si affronti il tema a livello globale e le belle parole pronunciate corrispondono tanto a voler dare una concreta motivazione ad un Premio Nobel per la Pace assurdamente assegnatogli quanto per tirare la volata alla candidata democratica alle elezioni presidenziali di novembre Hilary Clinton. Germania, Francia e Italia, hanno le loro ragioni per non volersi isolare nel dover affrontare una questione che non potrà risolversi in tempi brevi, fatto sta che la dichiarazione è piena di buone intenzioni piene di indeterminazioni. Ha ragione il presidente del Burkina Faso Marc Kaborè a dire che «L’Unione Europea deve passare dalle parole ai fatti». L’UE dichiara di essere intenzionata, entro il 2020 a sostenere le economie dei paesi africani con 88 mld di euro ma ancora non è chiaro a quali fondi si attingerà per far divenire realtà tali propositi né soprattutto se tali risorse verranno impiegate per migliorare le condizioni di vita nei paesi di partenza o semplicemente per alzare altre sbarre sulla base del “modello turco”.I punti chiave della dichiarazione hanno molti elementi di condivisibilità.Si parte dal presupposto che bisogna:

1) Proteggere i diritti umani di tutti i rifugiati e migranti, indipendentemente dallo stato. Questo include i diritti delle donne e delle ragazze e di promuovere la loro piena, uguali e significativa partecipazione nella ricerca di soluzioni.

2) Garantire che tutti i rifugiati e bambini migranti stanno ricevendo l’educazione nel giro di pochi mesi dall’arrivo.

3) Prevenire e rispondere alla violenza sessuale e di genere.

4)Sostenere i paesi impegnati nel salvataggio, che ricevono e che ospitano un gran numero di rifugiati e migranti.5)Lavorare per porre fine alla pratica della detenzione dei bambini ai fini della determinazione della loro età, status, ragioni di migrazione6)Condannare fermamente la xenofobia contro i rifugiati e migranti e sostenere una campagna globale per contrastarla.7)Rafforzare i contributi positivi da parte dei migranti allo sviluppo economico e sociale nei loro paesi ospitanti.8)Migliorare la fornitura di assistenza umanitaria e di sviluppo per i paesi più colpiti, anche attraverso soluzioni finanziarie multilaterali innovative, con l’obiettivo di chiudere tutte le lacune al finanziamento.9) Implementare una risposta rifugiato esauriente, sulla base di un nuovo quadro che stabilisce la responsabilità degli Stati membri, i partner della società civile e il sistema delle Nazioni Unite, ogni volta che c’è un vasto movimento di rifugiati o di una situazione di rifugiato prolungata.10)Trovare  nuove case per tutti i rifugiati identificati dall’UNHCR come bisognose di reinsediamento; e ampliare le opportunità per i rifugiati trasferirsi in altri paesi attraverso, ad esempio regimi, la mobilità del lavoro o di formazione.11)Rafforzare la governance globale della migrazione portando l’Organizzazione internazionale per le migrazioni nel sistema delle Nazioni Unite. Questi sono gli impegni assunti formalmente ma in concreto cosa dovrebbe accadere?La dichiarazione di New York propone di avviare negoziati che portino ad una conferenza internazionale per definire una strategia globale in merito ad una migrazione “sicura, ordinata e regolare” da tenersi nel 2018. L’idea è quella, anche lì finora molto aleatoria, di poter definire la migrazione come un settore delle relazioni internazionali, “guidato da un insieme di principi e approcci comuni”.  Si propongono linee guida comuni per il trattamento di migranti che si trovano in situazioni di particolare vulnerabilità, in particolare con riferimento ai minori non accompagnati. Certo che sarebbe già un passo in avanti garantire il rispetto di alcune convenzioni esistenti e ratificate in sede Onu, da quella per i Diritti del Fanciullo, a quella per i Lavoratori migranti e le loro famiglie, fino a risalire ai principi fondamentali della Convenzione di Ginevra. Applicare l’esistente e non derogare come si sta facendo non solo in Europa sarebbe già un grande passo avanti. La Conferenza del 2018 dovrebbe portare all’adozione di un Patto globale sui rifugiati per garantire una più equa ripartizione di oneri e responsabilità sia nell’ospitare che nel sostenere i rifugiati di tutto il mondo. Quindi si parla apertamente di sostenere quei paesi che sono divenuti di salvezza e in cui è concentrata gran parte dei rifugiati. Un programma ambizioso e difficilmente realizzabile se si continuano a praticare poi politiche di incentivo ai conflitti, in cui prevale un approccio geopolitico cinico e di stampo neo colonialista, se nei fatti singoli Stati o continenti coinvolti, si preparano invece a respingere le persone anche derogando ad ogni forma di rispetto delle Convenzioni internazionali. Le promesse di New York richiedono risorse enormi che debbono mettere in campo le economie dominanti e un cambio di passo radicale in termini di relazioni internazionali. Senza questi due elementi fondamentali nessun cambiamento strutturale sarà possibile e di tragedie ne continueremo a vedere per decenni.