Protocolli tra Eunavfor Med e milizie libiche. Blocchi in mare e detenzione a terra cancellano i diritti e le vite dei migranti.

Fulvio Vassallo Paleologo

1,I I fatti davanti alle coste libiche
Siamo davvero al punto di svolta. In Libia non e’ in gioco solo il commercio di petrolio o la guerra contro il terrore. Scatta la esternalizzazione dei controlli in mare. Dopo gli accordi con EUNAVFOR MED si ripristinano I controlli delle acque territoriali libiche con un’accresciuto ruolo di intervento della Guardia Costiera libica. Appare ormai chiara la portata del fermo “per ispezione” della Boubon Argos di MSF e del sequestro degli operatori umanitari tedeschi di SEA EYE nelle scorse settimane. La presenza delle navi umanitarie al limite delle acque internazionali di fronte Zuwara, ZAWIA, Sabratah e Tripoli sembra rarefatta. Le guardie costiere libiche, dopo i protocolli di intesa con EUNAVFOR Med, bloccano in due giorni tanti migranti quanti non ne avevano bloccato nel mese precedente.

libia-2Il Processo di Khartoum ed il Migration Compact, proposto dall’Italia, fanno luccicare il danaro per gli stati africani che dimostrano di bloccare almeno in parte le partenze. Anche l’Egitto di Al Sisi fornisce la prova della sua capacita’ di controllo delle coste. E arresta in mare centinaia di migranti. L’Unione Europea riunita a Bratislava si impegna a riversare un fiume di euro per un sostegno allo sviluppo che non eliminera’ le cause delle migrazioni forzate ma rafforzera’ soltanto le alte gerarchie militari che opprimono i popoli. I migranti troveranno altre rotte, arriveranno comunque in Europa, ma il prezzo che dovremmo pagare in vite umane sara’ altissimo. Mai tante vittime in mare come nel 2016. Nesuna possubilita’ di ingresso legale protetto. Il cd. Resettlment promesso lo scorso anno ai siriani e’ fallito. Funziona solo qualche corridoio umanitario garantito da operatori volontari di Mediterranean Hope. Ma e’ una goccia nel mare. Un mare di indifferenza e di calcolo politico che uccidono. E le norme di diritto internazionale non servono più a proteggere I diritti e le vite dei migrant in fuga. Gli accordi tra stati antepongono il controllo delle frontiere alla salvaguardia della vita umana, in mare ed a terra. Ed in Europa si ripropongono I respingimenti collettivi verso la Libia. Oppure si pensa a rafforzare la Guardia Costiera libica, senza rischiare di violare le norme della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. In attesa che, per completare il lavoro, arrivi la nuova Guardia Costiera Europea. Nessuno ricorda che la Libia non esiste come entità statale unitaria e che comunque non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Quello che serve è che comunque in Libia qualche autorità militare fermi I migrant prima che si imbarchino o subito dopo la partenza. A qualsiasi costo. Anche se il numero delle vittime sembra destinato ad aumentare in modo esponenziale.

1,425 migrants turned back by Libyan patrols

2.Le norme internazionali
La Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca ed il soccorso in mare (SAR) stabilisce la possibilità, quando necessario ai fini del salvataggio della vita umana in mare, di una collaborazione operativa tra i paesi responsabili delle zone SAR confinanti, al di là della tradizionale distinzione tra acque territoriali (12 miglia dalla costa), zona contigua (24 miglia dalla costa), ancora nella sovranità del paese costiero, ed acque internazionali. E’ ovvio che tale collaborazione non può comportare la violazione dei diritti umani delle persone soccorse, a partire dal diritto alla vita, all’integrità fisica, a non subire trattamenti inumani o degradanti, a chieder asilo in un paese che rispetti la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Anzi, dovrebbe essere ovvio, ma non lo è affatto. Le diverse forme di collaborazione con le autorità libiche nel blocco e nella riconduzione a terra dei migranti cd. “illegali” hanno violato per anni questi diritti fondamentali e solo nel 2012 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per i respingimenti collettivi eseguiti verso la Libia nel 2009.

Secondo il diritto internazionale del mare lo stato responsabile per le operazioni di salvataggio deve provvedere allo sbarco in un luogo sicuro (place of safety) o assicurarsi che sia garantito uno sbarco in un luogo sicuro, anche se nel territorio di uno stato terzo. Quindi diventa di fondamentale importanza stabilire volta per volta quale sia lo sttao responsabile per lo svolgimento delle attività di ricerca e salvataggio, perché una volta individuato questo stato, è questo stesso stato che decide sul luogo di sbarco, o è responsabile della sorte delle persone che altri stati che intervengono possono eventualmente sbarcare in paesi terzi.

Nel tempo, con particolare riferimento ai rapporti tra Italia e Libia, il luogo di sbarco è stato definito sulla base di intese formali, come i Protocolli operativi sottoscritti dal mnistro dell’interno Amato con il suo omologo libico, poi richiamati nel Trattato di Amicizia tra Libia ed Italia sottoscritto da Gheddafi con Berlusconi nell’agosto del 2008, o più di recente sulla base di accordi informali con le Guardie costiere direttamente interessate, in attesa che la stabilizzazione della Libia consentisse il ripristino di trattati internazionali e magari la collaborazione di questo paese nelle operazioni di respingimento e di espulsione.

3. La giurisprudenza internazionale e gli accordi bilaterali
La sentenza di condanna dell’Italia, emessa nel 2012 da parte della Corte di Strasburgo, sul caso Hirsi, pesava intanto come un macigno sulla prospettiva, agognata da tanti a livello europeo, di riprendere le operazioni di pattugliamento congiunto con una sostanziale delega alle autorità libiche nella gestione delle acque fino a 24 miglia della costa, dove più frequentemente si verificano gli intercenti di salvataggio. E’ infatti noto che ben difficilmente i gommoni utilizzati dalle organizzazioni criminali per fare partire i migranti verso la Sicilia, possono navifare per oltre 30-40 miglia. Si afflosciano inesorabilmente e non serve neppure affondarli dopo l’esecuzione dei soccorsi, perché affondano da soli. Al massimo gli si dà fuoco per farli affondare più rapidamente, e scattare qualche foto.

Se la sentenza sul caso Hirsi ed il disfacimento dello stato libico impediscono il ripristino degli accordi di pattugliamento congiunto e di respingimento stipulati dall’Italia con Gheddafi nel 2008, continuano comunque i contatti operativi tra rappresentanti della Guardia Costiera libica, variamente accreditati, e le autorità militari italiane responsabili della zona di ricerca e salvataggio della stessa Italia, di gran parte della zona SAR maltese, e di buona parte della zona SAR libica. Infatti l’art. 98 comma 2 della Convenzione UNCLOS del 1998 stabilisce che: “Every coastal State shall promote the establishment, operation and maintenance of an adequate and effective search and rescue service regarding safety on and over the sea and, where circumstances so require, by way of mutual regional arrangements cooperate with neighbouring States for this purpose”. Negli ultimi giorni si sta assistendo ad un aumento degli interventi di “salvataggio” operati da diverse autorità costiere libiche, forse anche per effetto dell’esigenza di riaffermare un qualche controllo sul traffico marittimo legato al commercio di petrolio, e per accreditarsi con le autorità europee che promettono denaro in cambio dell’arresto dei migranti. Sulla scorta degli accordi già stipulati con la Turchia senza nessuna garanzia per i diritti umani e per la stessa incolumità fisica delle persone, “soccorse in mare” ma rigettate negli stessi centri di detenzione dai quali erano fuggite.

Di certo la collaborazione tra gli stati responsabili delle zone SAR confinanti non aveva mai funzionato tanto da garantire la salvezza della vita umana in mare. Ma nel tempo, alla verifica dei fatti e delle responsabilità si è sovrapposta la “retorica umanitaria”. Non basta ricordare il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, si trattava di un battello che aveva attraversato senza essere scorto da nessuno l’intera zona SAR maltese. Dopo il tragico “incidente” dell’11 ottobre del 2013, nel quale perivano centinaia di persone, abbandonate per ore in mare dopo la prima chiamata di soccorso, e dopo un palleggio di responsabilità tra Malta e l’Italia, un evento sul quale la magistratura non ha saputo fare chiarezza, con l’avvio dell’Operazione Mare Nostrum, la retorica umanitaria ha coperto il conflitto tra questi due paesi nella individuazione di un porto sicuro di sbarco (place of safety). Persino le navi dell’organizzazione umanitaria maltese Moas sbarcavano in Italia, o trasbordavno su mezzi italiani, i naufraghi soccorsi in acque internazionali o in zona SAR maltese. Di fatto, sulla base di intese informali, tra le autorità maltesi e le autorità italiane si conveniva che tutte le persone soccorse nelle acque comprese nella vasta zona SAR maltese sarebbero state sbarcate in Italia, come del resto avveniva da tempo per quelle soccorse nella zona SAR libica. Accordi informali che venivano rispettati anche dalle varie operazioni Frontex, da ultimo TRITON, che con diverso dispiegamento di mezzi, si succedevano nel Mediterraneo centrale dopo la fine dell’Operazione Mare Nostrum. Per questa ragione l’Italia assumeva compiti enormi di salvataggio, senza alcun corrispondente riconoscimento economico o politico da parte dell’Unione Europea, che insisteva soltanto sui diveri di identificazione, al fine di respingere verso il nostro paese, o di richiederne la riammissione in base al Regolamento Dublino III, della maggior parte dei migranti che, dopo il soccorso e lo sbarco tentavano di raggiungere altri paesi europei. E la situazione dopo gli sbarchi sta diventando davvero insostenibile per effetto della chiusura delle frontiere interne tra l’Italia, la Francia, la Svizzera e l’Austria.

4. Il Processo di Khartoum come punto di svolta. I Migration Compact ed il ruolo dell’UE.
A partire dal 2014, con l’avvio del Processo di Khartoum e poi con il Migration Compact, l’Italia, abbandonata dall’Unione Europea che riduceva periodicamente il suo sostegno alle attività di soccorso in mare, e negava qualunque possibilità di trasferimento legale, reagiva nel peggiore dei modi, cercando di esternalizzare il sistema del diritto di asilo e di trasferire sui paesi terzi i compiti di arresto dei migranti prima che si potessero trovare in acque internazionali, nelle quali sarebbero scattati obblighi di soccorso che ben difficoilmente, anche alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, si sarebbero potuti eludere.

Nell’ambito del Processo di Khartoum diventava essenziale il ruolo dell’Egitto del generale Al Sisi, e malgrado il terribile destino riservato a Giulio Regeni la collaborazione con l’Egitto nelle operazioni di blocco e di rimpatrio andava avanti con la stessa cadenza, senza riconoscere alla maggior parte dei migranti egiziani che venivano rimpatriati la possibilità effettiva di accedere alla procedura di asilo. Ed a mare gli egiziani avevano già sufficienti mezzi per intercettare le imbarcazioni cariche di migranti sulla rotta più lunga e pericolosa del Mediterraneo. E in mare anche l’Egitto dimostrava di sapere fare la sua parte per arrestare i migranti prima che potessero raggiungere l’Europa. Altri accordi ed altro danaro in vista, in arrivo da Bruxelles.

L’Unione Europea, fino all’ultimo vertice “informale” di Bratislava, si divideva su tutto, non garantiva canali di ingresso sicuro, ma trovava un’intesa siltanto sulle politiche di esternalizzazione del diritto di asilo e dei controlli di frontiera. Con una politica schizofrenica del governo italiano, che si assumeva le maggiori responsabilità in materia di ricerca e soccorso in mare, ma portava avanti proposte che miravano al coinvolgimento più ampio dei paesi di origine e di transito nelle operazioni di blocco e di rimpatrio. Anche se in quei paesi, come il Sudan, l’Egitto o la Turchia, ed oggi anche la Libia, il rispetto dei diritti umani rimaneva soltanto un miraggio. Ma secondo il volere dei governi tutti quei paesi potevano essere definiti come “paesi terzi sicuri” e chi proveniva da quei paesi era soltanto un “migrante economico”, dunque per definizione un migrante da arrestare ed espellere.

5. Le attività di contrasto dell’immigrazione “illegale” nel Mediterraneo centrale e gli obblighi di salvataggio.
L’operazione EUNAVFOR MED, partorita dal Consiglio e dalla Commissione Europea nel 2015 con l’impulso della commissaria UE Mogherini, e rimasta bloccata alla sua fase intermedia ( quella che si svolge in acque internazionali) per il mancato avallo da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e per il parziale assenso fornito dalle autorità libiche insediate a Tripoli, per un ingresso delle navi militari europee nelle acque territoriali libiche, non modificava la portata degli accordi informali che attribuivano all’Italia la responsabilità dello sbarco delle persone soccorse sotto il coordinamento del Comando generale della Guardia Costiera italiana. I più recenti sviluppi della collaborazione di EUNAVFOR MED con le autorità libiche, ben oltre i compiti di addestramento che sono trapelati attraverso i mezzi di informazione, lasciano intarvedere per il futuro uno scenario allarmante, al punto che la stessa missione è stata obbligata a precisare che non sarebbe coinvolta nelle operazioni di ripresa dei migranti da parte delle autorità libiche.

Nel corso del 2016 diventava centrale il ruolo delle navi umanitarie di diverse organizzazioni ( come MOAS, MSF, SOS Mediterranèe, SEA EYE, e da ultimo anche Save The Children) che pure si muovevano all’interno di questi accordi informali negoziati continuamente dalle autorità militari italiane ed europee con le autorità libiche che, anche nei momenti di minore presenza delle autorità statali centrali, continuavano ad esercitare un limitato controllo delle acque costiere, al fine di controllare i commerci di armi e di petrolio.

Sembrava che protocolli operativi dello stesso tipo fossero stati stipulati tra la Marina militare italiana, in particolare dal comando dell’operazione Mare Sicuro con i vertici delle diverse autorità che controllano le coste libiche. Fino al mese di luglio di quest’anno non si erano registrati incidenti rilevani, e soprattutto le diverse navi umanitarie ( di MOAS, MSF, Sea Eye e SOS Mediterranèe) operanti nell’area si erano svolte sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana, fino al limite delle 12 miglia, estensione delle acque territoriali libiche, ma ancora all’interno della zona contigua nella quale le stesse autorità libiche avrebbero potuto esercitare una penetratente attività di controllo, anche esercitando il “diritto di visita” a bordo delle navi sospette, persino con un uso “proporzionato” delle armi nel corso delle operazioni di intercettamento. Uso delle armi che nelle scorse settimane si è verificato proprio contro le navi umanitarie che operavano al limite delle acque territoriali libiche.

Nel corso del 2016 una gran parte della zona SAR ( ricerca e soccorso) appartenente alla Libia, di fatto, persino in quella che si definisce come zona contigua, è stata “coperta” dalle navi militari italiane e dalle navi umanitarie, mentre i pochi mezzi di Frontex ancora operativi si ritiravano a nord del 34° parallelo, allontanandosi dalla costa libica di oltre 80 miglia, una distanza irrangiungibile dai gommoni che venivano fatti salpare dalle organizzazioni criminali che gestivano il traffico, con una vasta rete di complicità sul territorio d’imbarco. Per tutta l’estate le coste libiche si riempivano di corpi di migranti arenati sulla spiaggia o tra gli scogli, a riprova che in una fascia sempre più ampia di mare, davanti alla costa, i libici si limitavano a fare interventi di intercettazione, mentre era sempre più a rischio l’attività di ricerca e salvataggio, delegata dalle navi militari europee, che non potevano entrare nelle acque libiche, alle navi umanitarie che si spingevano fino a dieci miglia dalla costa di Zuwara o di Sabratha.

6. Il punto di svolta.
All’inizio di agosto non cominciavano soltanto i bombardamenti americani su Sirte, mentre proseguiva l’avanzata del generale Haftar, sostenuto dal governo egiziano, verso i pozzi petroliferi fino ad allora gestiti dalla società nazionale del petrolio controllata dal governo di Tripoli. La situazionenelle acque a nord della costa libica mutava drasticamente, dopo la stipula di un Protocollo d’intesa tra l’Agenzia Europea EUNAVFOR MED, in collegamento con FRONTEX, e le autorità libiche che controllavano la cd. Guardia Costiera libica, da altri definitta West Coast Guard perché rispondeva al governo di Tripoli sostenuto dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite. Mentre segnali di contrasto rispetto a questo governo venivano dalle autorità di Bengasi e Tobruk, alle quali già dal 2013 i francesi avevano fornito motovedette veloci molto avanzate, e da altre autorità militari libiche che non vedevano positivamente gli accordi stipulati dal governo di Tripoli con EUNAVFOR MED.

Entrava in crisi a quel punto la delega che si è registrata da parte delle navi militari nei confronti delle navi umanitarie che operavano attività di ricerca e soccorso (SAR) al largo delle coste libiche, spesso ben al di dentro della zona delle 24 ( o delle 12) miglia dalla costa, per soccorrere vite umane che nessun altro mezzo militare libico o straniero avrebbe potuto salvare. Il complesso sietma di salvataggio basato sulle navi unanitarie coordinate dalla centrale operativa della Guardia Costiera di Roma, d’intesa con i vertici dell’operazione italiana Mare Sicuro, ha dunque funzionato fino agli accordi stipulati nei primi giorni di agosto tra EunavforMed e pezzi della Guardia Costiera libica che si collegavano al governo Serraj a Tripoli. Solo una minima parte dei migranti che venivano fatti fuggire dalla costa libica erano bloccati a mare, la quasi totalità delle persone che partivano venivano soccorse e sbarcate in Italia, anche se aumentava il numero delle vittime, nella mancanza di qualsiasi canale alternativo di ingresso legale e protetto. Numerosi i trasbordi eseguiti dalle navi umanitarie alle navi militari, a bordo delle quali era più efficace l’attività di ricerca degli scafisti, dei testimoni e la fase della cd. preidentificazione.

Dopo quella data abbiamo assistito al blocco ed all’occupazione (per quasi un ora) da parte della sedicente Guardia Costiera libica, di una nave umanitaria, la Bourbon Argos di MSF, al alrgo della costa di Zuwara. Sull’”incidente”, ammesso anche dai libici e riportato dal Guardian, è subito calata la censura internazionale. Come è avvenuto anche dopo il sequestro di due operatori umanitari tedeschi che si trovavano su un gommone di servizio alla nave umanitaria Sea Eye al largo di Zawia, rimessi in libertà dopo due giorni, come se si fosse trattato di un incidente per difetto di comunicazione.

Sul ruolo delle navi umanitarie e sulle loro effettive regole d’ingaggio è calato il silenzio più totale, ed anche la loro presenza sembra rarefatta, mentre aumenta in modo considerevole il numero dei migranti che sono ripresi dalle autorità libiche dopo la partenza, prima che possano superare il limite delle 24 miglia dalla costa, limite oltre il quale si puà sperare in un intervento di soccorso da parte delle navi umanitarie o dei mezzi della Guardia costiera italiana.

Al di là della esatta dinamica dei fatti durante il fermo e la “visita” a bordo della Bourbon Argos di MSF, al limite delle acque internazionali, una dinamica tutta da accertare, come rimangono da accertare le modalità del sequestro degli operatori umanitari tedeschi che con un gommone assistevano la Sea Eye, appare evidente che gli accordi stipulati tra le diverse autorità libiche, e singoli governi europei o agenzie dell’Unione Europea, come Eunavfor Med o Frontex, piuttosto che essere finalizzati a coordinare i soccorsi ed a garantire lo sbarco dei migranti in un porto sicuro (place of safety) secondo le regole del diritto internazionale del mare, mirano esclusivamente a bloccare ad ogni costo il passaggio delle persone in fuga dalla Libia verso l’Europa.

In questo quadro il ruolo delle navi umanitarie diventa sempre meno decifrabile, anche se il loro contributo al salvataggio delle vite umane in mare, dopo il ritiro della missione europea Frontex, risulta essenziale. In alcuni casi infatti risultano assetti di collaborazione con le autorità libiche, come anmesso da MOAS e talvolta dalla Marina italiana, anche se non è mai chiara la sorte dei naufraghi, perché di questo si tratta, che vengono soccorsi e “salvati” dai libici, per essere ricondotti in un centro di detenzione, esposti ad abusi di ogni genere, come confermano tutti coloro che riescono ad arrivare in Italia.

Alla luce di quanto sta sucecdendo nel Mediterraneo centrale ed a nord della costa libica, in particolare, autorità europe dovranno riconsiderare il ruolo di Frontex e di Eunavfor Med e se vorranno rispettare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale revocare gli accordi stipulati cone le diverse autorità libiche, prima di avere garanzie certe sulle modalità di ricerca e soccorso nella “zona contigua” alle acque territoriali libiche, e soprattutto sulla sorte delle persone che vengono riprese dai libici, magari sotto gli occhi dei mezzi militari europei, e riportati a terra. Dove tutti sanno quali abusi vengano inflitti a chi è trattenuto nei centri di detenzione, come quello di Zawia, solo per fare un esempio. Analoga riconsiderazione del proprio ruolo e dei limiti delle proprie missioni, in un quadro di guerra a bassa intensità che si combatte sulle coste libiche, andrebbe fatta dalle navi umanitarie.

Occorre soprattutto rompere il silenzio che circonda questi rapporti di diritto internazionale sui quali si gioca la vita di migliaia di persone su quella che rimane la rotta migratoria più pericolosa del mondo. Un silenzio imposto dalle gerrachie militari, che cercano in ogni modo di nascondere i propri fallimenti, anche quando si continuano a contare le vittime delle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e di accordi con i paesi terzi, per fermare i migranti, anche quando questi paesi non rispettano i diritti umani ed il diritto internazionale del mare universalmente riconosciuto. Affidare ai libici il “lavoro sporco” di riprendere i migranti che partono dalle coste di Zawia, di Zuwara o di Sabratha, ritirando le navi, strumentalizzando il ruolo delle agenzie e delle organizzazioni umanitarie, fornendo mezzi, personale e formazione alla cd. Guardia Costiera libica, senza chiedere il rispetto effettivo dei diritti umani dei migranti, come sta facendo l’Unione Europea, direttamente, e con le sue agenzie, non è meno grave della politica e delle prassi di respingimento collettivo, condannate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel 2012, nel caso Hirsi. Purtroppo anche il governo italiano spinge in questa direzione, segnata dalla Commissaria Europea Mogherini. Una direzione che nega i diritti umani, a partire dal diritto alla vita e dal diritto di richiedere asilo.