di Fulvio Vassallo Paleologo
La situazione nei centri di prima accoglienza e nei centri di detenzione amministrativa era già molto caotica lo scorso anno, quando una parte rilevante dei migranti che sbarcavano in Italia proseguiva il loro viaggio, anche in assenza di una compiuta identificazione con il prelievo delle impronte digitali e riusciva a raggiungere un altro paese europeo. Durante l’estate e poi fino al mese di ottobre, le frontiere con la Francia, con la Svizzera e con l’Austria rimanevano sostanzialmente aperte per chi voleva raggiungere il nordeuropa.
L’introduzione dell’approccio Hotspot, prima con una circolare ministeriale e poi con una serie di direttive interne che richiamavano decisioni del Consiglio Europeo prive di alcuna efficacia legislativa, era segnata da una grande eterogeneità delle prassi applicate, che dopo la mancata apertura degli Hotspot di Porto Empedocle (Agrigento) e Augusta (Siracusa) si traduceva nel ricorso al cd. “approccio Hotspot”, consistente nella creazione, nei porti di sbarco, di una zona rossa, delimitata con una stretta sorveglianza militare, dove si avviavano immediatamente le pratiche di riconoscimento e di prelievo delle impronte digitali.
A partire dai primi mesi del 2016 i paesi europei confinanti con l’Italia introducevano controlli sempre più rigorosi, da Ventimiglia a Chiasso ed al Brennero, nei confronti dei migranti che continuavano a tentare di raggiungere il nordeuropa, negli stati nei quali molti di loro avevano già familiari o amici legalmente residenti. Aumentava pure il numero dei richiedenti asilo che si vedevano respinta la domanda di protezione dalla Commissione territoriale, e molti potenziali richiedenti asilo rifiutavano di formalizzare la loro istanza in Italia, per non restare intrappolati in procedure che ormai si allungavano oltre quanto previsto dalla legge fino a raggiungere in media i 12-18 mesi. Tempi ancora più lunghi si profilavano per coloro che dopo il diniego presentavano un ricorso giurisdizionale. In alcune sedi come a Catania i tempi delle procedure di primo grado superavano i 18 mesi.
La situazione si aggravava di riflesso anche nei centri di seconda accoglienza, inseriti nel sistema SPRAR, sia per i ritardi nei pagamenti dovuti agli enti gestori, e dunque nel pagamento del pocket money agli ospiti, che per l’intasamento derivante dal protrarsi delle procedure e dal lentissimo esame dei ricorsi.
Nel corso di questa ultima estate la situazione alle frontiere di Ventimiglia, Como/Chiasso e Brennero diventava esplosiva, con migliaia di migranti costretti a bivaccare di fronte alle frontiere sbarrate, al punto che il ministero dell’interno decideva un piano ( il cd. Piano Gabrielli) per il trasferimento forzato di quanti insistevano a rimanere in prossimità dei valichi di confine, trasferimenti che di fatto avvenivano in un primo momento verso gli Hotspot del meridione, come Taranto e Trapani, e poi, dopo la stipula di Memorandum d’Intesa (MoU), anche con paesi come il Sudan, verso gli stati di origine. In questo caso le autorità affermavano che i migranti, con poche eccezioni, non avevano fatto richiesta di asilo, e dunque potevano essere considerati alla stregua di “migranti economici”, ormai sinonimo di irregolari, da rimpatriare con accompagnamento forzato. Queste espulsioni venivano eseguite, seppure in un numero relativamente basso di casi, ma una volta denunciate dalle organizzazioni non governative, difese accanitamente come prova di rigore e di attuazione del Processo di Khartoum e del cd. Migration Compact, proposti dal governo italiano all’Unione Europea.
Da ultimo il governo italiano invoca gli accordi bilaterali stipulati il 4 agosto scorso per giustificare le espulsioni eseguite verso il Sudan. Ed aggiunge che nessuno degli espulsi avrebbe fatto richiesta di asilo. Una giustificazione consueta, che è stata utilizzata senza successo anche nei casi nei quali la Corte europea ha condannato l’Italia per espulsioni collettive (come nel caso Sharifi deciso nel 2014). E anche se nessuno dei sudanesi riportati nelle scorse settimane a Khartoum avesse presentato domanda di protezione internazionale, appare evidente per la forma e la tempistica dei provvedimenti di espulsione adottati che si sia violato il divieto di espulsioni collettive sancito dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU, oltre che dell’art. 13 della stessa CEDU che afferma, con riferimento ai principi affermati nella Convenzione, il diritto ad esercitare in caso di violazione un ricorso effettivo.
Il ministero dell’interno afferma infine che “ Quanto alla presunta illegalità dell’accordo in base al quale i migranti sono stati rimpatriati, “occorre precisare che lo stesso e’ stato regolarmente firmato con uno Stato che gode del pieno riconoscimento internazionale del nostro Paese. Pertanto dette interpretazioni si basano, salvo se altro, su una conoscenza lacunosa non solo della vicenda ma anche della normativa di riferimento”, conclude la Polizia.
Si tratta di dichiarazioni gravissime, al di là del caso dei rimpatri in Sudan, perché dimostrano una volontà politica ben radicata in una amministrazione centrale dello stato che accetta di legittimare dittature militari e governi che violano sistematicamente i diritti umani, pur di dimostrare la cd. effettività delle operazioni di rimpatrio. Anche se queste riguardano alla fine poche decine di persone. Un accordo bilaterale di polizia non si può collocare mai al di sopra delle norme costituzionali, delle Direttive e dei Regolamenti europei e infine delle leggi interne che fissano procedure rigorose per i casi di allontanamento forzato ( in ossequio alla Direttiva 2008/115/CE).
Accordi bilaterali simili al Memorandum d’intesa stipulato con il Sudan,, di portata ben più ampia, in ordine alla riammissione o al respingimento anche con riferimento ai migranti provenienti da paesi terzi, sembrano adesso in vista anche con la Libia, sul modello dell’accordo tra UE e Turchia. E dovrebbe essere noto a tutti che la Libia non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e che nessuno dei diversi governi insediati nel paese sono in grado di garantire una qualsiasi tutela ai diritti fondamentali delle persone migranti, a partire dal diritto alla vita.
Toccherà adesso al Parlamento ed alle sue Commissioni d’inchiesta, oltre che agli organismi giurisdizionali dell’Unione Europea, stabilire se ci siano state violazioni negli accordi bilaterali stipulati recentemente dall’Italia per espellere o respingere, e nelle diverse fasi applicative, al fine di accertare le relative responsabilità politiche ed amministrative. Perché alla forza del diritto non si sostituisca il diritto della forza. E perché non si insista nella legittimazione di quella che appare anche a livello internazionale un governo, come quello sudanese, nelle mani di un condannato per crimini contro l’umanità