Migranti economici e richiedenti asilo: una divisione che discrimina. Le nostre soluzioni.

1. Si ritiene generalmente che anche quest’anno vi sia un aumento esponenziale dei migranti che entrano in Italia se in 4 giorni vengono soccorsi in mare 14.000 persone, come è successo tra il 27 ed il 30 agosto scorsi, nulla di più falso. In cifra complessiva il numero dei migranti arrivati quest’anno rimane al di sotto degli arrivi registrati nei primi 8 mesi del 2015, con la sola differenza che mentre lo scorso anno una buona parte di loro proseguiva il viaggio verso altri paesi europei, oggi il blocco delle frontiere di Ventimiglia, Como/Chiasso, Brennero,Tarvisio e altre in Friuli, sta comportando l’esplosione del sistema di accoglienza.

Si deve anche aggiungere che sono migliaia le persone già sottoposte ad identificazione forzata in Italia che gli altri paesi europei ci stanno rinviando in applicazione del Regolamento Dublino III, che nessuno vuole più modificare. Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si sta schierando per l’uso più ampio della categoria di paese terzo sicuro.

Il fallimento della cd. “relocation”, promessa lo scorso anno a Grecia ed Italia, è il fallimento più clamoroso e visibile delle politiche europee in materia di immigrazione. Come è un fallimento di sistema in Italia il ritardo nelle procedure di protezione internazionale e la restrittività che le autorità ministeriali, tramite la Commissione nazionale per il diritto di asilo, suggeriscono alle Commissioni territoriali.

A livello di prassi di polizia, poi, su indicazione del ministero dell’interno che agli sbarchi diffonde “fogli notizia” del tutto arbitrari si vorrebbe distinguere immediatamente i naufraghi, perché di questo si tratta, essendo stati soccorsi (quasi tutti) in alto mare, tra “migranti economici” e “richiedenti asilo”, da parificare, per il periodo delle procedure, ai “rifugiati”. Ancora più complessa la situazione di chi, dopo avere subito un primo diniego, deve fare ricorso davanti ad una autorità giurisdizionale, perché la precarietà delle condizioni di accoglienza è destinata ad aggravarsi giorno dopo giorno, se non viene negato del tutto il diritto alla stessa accoglienza di cui si godeva prima del verdetto negativo della Commissione territoriale.

Nel diffuso senso comune che i media compiacenti alimentano, si tratterebbe di parassiti, di persone che cercano di sfruttare le garanzie offerte dalla legge per prolungare una presenza in Italia che viene avvertita come un peso sociale, se non come un vero e proprio pericolo per la sicurezza dei cittadini. Da qui le proposte del ministro della giustizia Orlando che vorrebbe eliminare il grado di appello per i ricorsi contro i dinieghi di status adottati dalle Commissioni territoriali, ed il ritmo frenetico che si è imposto alle trattative con i paesi terzi, per rendere possibili le espulsioni con accompagnamento forzato, anche se i paesi di origine, come nel caso del Sudan o dell’Egitto, sono governati da dittature militari nelle quali qualunque segno di opposizione viene punito con il carcere e con la tortura, senza contare le sparizioni forzate e gli assassini mirati. Il Processo di Khartoum ed il Migration Compact legittimano le peggiori dittature. Sembra quasi che gli stati debbano violare le garanzie procedurali dello stato democratico, come il diritto alla libertà personale ( art. 13 Cost.) e di difesa ( art.24 Cost.) per svuotare il sistema di accoglienza ( esemplare al riguardo, nel caso di Ventimiglia, il cd. Piano Gabrielli) e dare una parvenza di effettività a procedure di allontanamento forzato dal territorio che colpiscono una esigua minoranza di persone, ma rimangono puramente simboliche, rispetto al numero dei potenziali destinatari, e sono del tutto prive di una qualsiasi deterrenza. Mentre producono un senso di generale frustrazione che alimenta circuiti criminali e senso di rivalsa dalle conseguenze oggi imprevedibili.

2. In realtà, se si considera il blocco dei canali legali di ingresso per lavoro, conseguenza delle scelte del governo di bloccare nella sostanza i decreti flussi annuali per lavoro a tempo indeterminato, il numero complessivo dei migranti che entrano annualmente in territorio italiano è sostanzialmente stabile, tenendo anche conto delle centinaia di migliaia di migranti che entrano con un visto di ingresso Schengen ( anche da altri paesi europei), che dovrebbero restare al massimo tre mesi, e che si trattengono per periodi ben superiori, in condizioni di assoluta irregolarità. L’opinione pubblica è informata soltanto dei 13.000 migranti soccorsi in quatto giorni dell’anno, e consolida il timore di una invasione, con reazioni sempre più diffuse di intolleranza attorno alle strutture ed alle persone che garantiscono un minimo di accoglienza. Qualcuno ritiene anzi che i migranti arrivino in Italia solo perché nei paesi di origine non godrebbero di un soddisfacente livello di benessere, oppure che tra loro sia diffusa una generale sopravvalutazione di quanto potranno ottenere in Europa. E questo è senz’altro vero, ma dal punto di vista del riconoscimento effettivo dei diritti che le democrazie occidentali proclamano di difendere, specie quando vanno a fare interventi militari nei paesi dai quali provengono i migranti. Ma non vale certo nel settore delle aspettative lavorative, perché i migranti sanno bene quali condizioni di sfruttamento li attendono in Europa. Perché nell’era digitale ci conoscono bene già dai loro paesi ed hanno già connazionali che hanno sperimentato il peggio che la nostra società può riservare a chi arriva solo con la forza delle proprie braccia. Spesso però quello sfruttamento è la condizione essenziale, l’unica speranza per la sopravvivenza loro e dei loro nuclei familiari. La differenza di reddito pro-capite tra nord e sud del mondo è talmente forte che persino quel pocket money che nei centri di accoglienza i gestori meno onesti lesinano, o rifiutano come misura disciplinare, nei paesi di origine può servire a sfamare una intera famiglia.

Chi si lamenta di una eccessiva permanenza dei richiedenti asilo nei centri di accoglienza farebbe bene ad andare a verificare quanto tempo ha impiegato il gestore e l’ufficio immigrazione della questura ad aprire la procedura di asilo con la compilazione del modello C 3. Chi sostiene che i migranti rilascerebbero dichiarazioni contrastanti dovrebbe andare a verificare in quanti centri di accoglienza esistono mediatori linguistico-culturali, che tipo di informazione hanno ricevuto i migranti prima delle audizioni, e se c’è piena corrispondenza tra quanto dichiarato dal richiedente asilo e la verbalizzazione della sua volontà, avvenuta in qualche caso in assenza persino dell’interprete. La fabbrica dell’irregolarità è fatta di tanti reparti alimentati dalla burocrazia infinita degli apparati.

3. Dietro l’apparenza degli sbarchi di massa, con il contorno tragico delle vittime in mare e degli scafisti arrestati a terra, spesso minori utilizzati come ultimo anello della catena di trafficanti, si nasconde la realtà di sfruttamento lavorativo, di abusi esistenziali, oltre che di natura fisica e sessuale, che i migranti, giunti in Italia, senza alcuna distinzione di status, subiscono una volta che si collocano ai margini o all’interno del mondo del lavoro. Quando non finiscono direttamente nelle mani della criminalità organizzata, italiana e straniera. Abbiamo di fronte migrazioni forzate, anche per cause ambientali o di desertificazione economica del territorio. Non si può chiudere la porta in faccia a quelle persone che sono state costrette a partire da un’Europa incapace di garantire una qualsiasi probabilità di un futuro dignitoso nelle terre di origine. Nel caso delle grandi aree di crisi come la Siria e la regione che va dal Pakistan all’Afghanistan ed all’Iraq, come per il corno d’Africa, le responsabilità, veri e propri doveri di solidarietà. vanno condivisi su scala internazionale più ampia.

Di fronte ad un orientamento politico e culturale contrario a tutte le migrazioni, interne ed esterne, un orientamento che appare ormai maggioritario, occorre smascherare il falso umanitarismo che alcuni governi ostentano per differenziarsi da quelli che più apertamente si oppongono alla mobilità dei migranti, sia europei che in arrivo dai paesi esterni all’Unione Europea. Nei fatti poi, sul piano della politica estera e delle prassi di polizia, come nella gestione dei rapporti di lavoro e nella gestione del welfare, o di quello che ne rimane, le differenze tra i diversi stati si attenuano e i diritti fondamentali della persona migrante sono sempre più a rischio, dal diritto alla vita ed a non subire trattamenti inumani o degradanti, fino al diritto di accedere ad un territorio nazionale per chiedere asilo o altra forma di protezione, o al diritto di difendere la propria libertà attraverso una difesa effettiva ed una possibilità di ricorso giurisdizionale. Il diritto al lavoro non esiste più, anche per gli autoctoni e solo gli illusi possono credere che con le espulsioni dei migranti la loro condizione personale potrà ritornare ad una prospettiva di crescita come ai tempi precedenti la grande crisi economica che dal 2008 attanaglia tutto il mondo occidentale. La riforma dei rapporti di lavoro, la riduzione dei servizi offerti dalla sanità pubblica, la gerarchizzazione della scuola, la cancellazione dell’università statale, sono processi in corso da tempo che vanno di pari passo con la militarizzazione delle frontiere, con il contrasto dell’immigrazione che riproduce il peggiore sfruttamento, e con la cancellazione sostanziale del diritto alla protezione internazionale.

E proprio dai diritti fondamentali, come il diritto alla salute, il diritto all’istruzione ed al lavoro, il diritto alla coesione familiare ed al rispetto della vita privata, che occorre ripartire per restituire identità alle persone che sono comunque costrette a lasciare il loro paese non per effetto di false aspettative, ma per circostanze oggettive di impoverimento o di negazione di quegli stessi diritti fondamentali che, nel mondo globalizzato, spingono verso la condizione di migrante un numero sempre più elevato di persone anche in Europa. Occorre costruire nuove solidarietà, e lottare per una distribuzione più giusta della ricchezza, altrimenti non ci si potrà che ridurre alla scelta tra il modello israeliano ed il modello australiano. Ma non sono neppure modelli praticabili in Europa. Dove però rispuntano ovunque vecchi e nuovi fascismi, occultati neppure troppo tra il nazionalismo ed il populismo. All’Europa dei muri e dei campi di confinamento, come alle tante barriere che circondano chi la frontiera se la porta addosso, marchio o numero segnato su un polso, occorre opporre un’Europa di cittadini e di istituzioni locali che si interpongono e ricostruiscono nuovi legami sociali, nella difesa dei diritti fondamentali delle persone migranti, e dell’intera popolazione di un territorio. Con il passare del tempo sarà questa l’unica forma possibile di integrazione e di convivenza pacifica. Soltanto questa Europa potrà resistere alla sfida globale ed al declino al quale la condannano rapporti di forza, militare, politica ed economica, ormai incentrati più sui due grandi oceani che sul Mediterraneo.

Per questa Europa che resiste e che rifiuta l’uso del mare Mediterraneo come una frontiera, si dovranno individuare nuove forme di rappresentanza popolare e di soluzione pacifica dei conflitti. Un impegno, anche di ricerca, del quale non è possibile anticipare a priori gli sbocchi. Di certo la storia del Mediterraneo è una storia di coesistenza. Ed occorrerà trovare sedi e tecniche di sanzione di violazioni alle quali non si riesce a trovare risposta davanti ai tribunali ed alle corti internazionali, anche per la difficoltà di accesso delle vittime alla giustizia. Senza una tutela effettiva un diritto non esiste.

4. In questa direzione proponiamo due casi di studio verso la destrutturazione di un discorso dominante che non offre soluzioni, ma alimenta conseguenze sempre peggiori delle premesse, magari in nome di un astratto contrasto di organizzazioni criminali o terroristiche che poi nessuno riesce davvero a colpire ed a smantellare.

Un primo settore di analisi e di intervento riguarda le frontiere esterne, e gli accordi con i paesi terzi, dunque con riferimento all’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne Frontex ed ai doveri di ricerca e soccorso in mare, oltre che di sbarco in un luogo sicuro. In questa direzione la creazione dei cd. Hotspot, poi l’introduzione del cd. Approccio Hotspot nei diversi porti di sbarco, a partire da Catania, sede di Frontex, hanno costituito occasione per abbattere le garanzie fondamentali di libertà previste dalle Costituzioni nazionali e dalla Carta Europea dei diritti fondamentali, oltre che dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Si sono creati spazi di trattenimento, dunque di limitazione della libertà personale, sottratti a qualunque controllo giurisdizionale e rimessi all’esclusiva discrezionalità delle forze di polizia, al di fuori dei rigorosi limiti fissati dall’art. 13 della Costituzione italiana. La distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo, indotta spesso strumentalmente con informazioni fuorvianti che i destinatari non erano affatto in grado di comprendere, è servita soltanto a marchiare come “irregolari” decine di migliaia di persone, rispetto alle quali adesso il nostro paese, come su scala generale l’Unione Europea, dovranno fare i conti. La prassi dei respingimenti differiti con “intimazione a lasciare entro sette giorni il territorio nazionale” è una fabbrica di clandestinità. Rimane del tutto irrealistica, oltre che contro le norme internazionali ed interne, qualunque prospettiva di deportazione di massa o di espulsione collettiva. Chi ha ricevuto un diniego definitivo sulla propria richiesta di protezione internazionale dovrebbe avere riconosciuta la possibilità di ottenere almeno un permesso di soggiorno temporaneo di un anno per ricerca di lavoro. Vanno individuate possibilità di ingresso legale per lavoro e di regolarizzazione permanente di coloro che non sono più in condizione regolare ma che al contempo non possono neppure essere espulsi verso il paese di origine.

L’altro caso di studio e di progettazione è relativo al controllo della mobilità interna all’Unione Europea, dunque alla reintroduzione dei controlli alle frontiere interne di Schengen e della persistenza del Regolamento Dublino III, con la richiesta ancora insoddisfatta di una qualche condivisione degli oneri di accoglienza dei richiedenti asilo tra i diversi paesi membri dell’unione Europea. Il fallimento della Relocation promessa dal Consiglio Europeo e mai attuata ci interroga davvero sul futuro di questa Europa. Anche in questo caso tutte le scelte rimesse alle autorità amministrative hanno comportato una diffusa compressione dei diritti fondamentali delle persone confinate per mesi in centri di accoglienza, i nuovi Hub per l’accoglienza, che sono diventate un limbo di durata indefinita, luoghi di alienazione e di perdita di identità, spesso anticamera di una dispersione sul territorio che riproduce clandestinità e sfruttamento. La situazione che si è determinata in Italia, raccontata peraltro anche nei verbali della Commissione parlamentare di inchiesta sull’accoglienza determina un quadro fortemente preoccupante. Critica la situazione per i soggetti più vulnerabili come i minori stranieri non accompagnati, che troppo spesso sono dispersi. Drammatici alcuni provvedimenti adottati, sempre in Italia, nella gestione delle frontiere interne come  a Ventimiglia,  dove si chiudono gli spazi di accoglienza e si ri-deportano  nelle regioni meridionali  chi è già stato identificato dopo lo sbarco in Sicilia,  per ridurre la pressione sul confine  francese. Lo stesso avviene ormai anche ai confini con la Svizzera e l’Austria.Altrettanto carica di elementi problematici è la condizione negli Hotspot funzionanti come quello di Pozzallo, dove si è passati dall’accoglienza alla detenzione e in cui, mentre le agenzie internazionali come Frontex ed EASO, presenti con decine di funzionari, decidono sui destini dei singoli trattenuti, è inibito l’ingresso alle organizzazioni della società civile e dei mezzi di informazione. Ma anche a Taranto o a Lampedusa, di nuovo, la situazione è in netto peggioramento.

Se questi sono gli aspetti più eclatanti, per approfondire le ragioni e trovare le soluzioni dei percorsi di mobilità interna ( all’Unione Europea), occorre superare il Regolamento Dublino III che formalmente scarica sui paesi più esterni tutto il peso dei richiedenti asilo, ed occorre intervenire con una Direttiva che disciplini gli ingressi per lavoro, anche per ricerca di lavoro, e la mobilità interna, con un sistema di incentivi o disincentivi, anche di natura fiscale, che possa servire ad equilibrare un mercato del lavoro che è sempre più caratterizzato dal lavoro informale e dallo sfruttamento dei lavoratori più deboli e meno qualificati (anche autoctoni). Qui i problemi non sono certo risolvibili con i percorsi di avviamento al lavoro rivolti esclusivamente alle poche decine di migliaia di migranti parcheggiati nei centri di accoglienza, o peggio espulsi dal sistema di accoglienza e costretti alla sopravvivenza sulla strada, o nei centri informali, se non nelle case occupate. E’ un problema di giustizia ed equità dei rapporti di lavoro che riguarda decine di milioni di persone, è un problema di redistribuzione del reddito. Un problema di istruzione e formazione professionale, se non di riqualificazione permanente. Se in tempi di crisi si legittimano le componenti più forti ad arricchirsi sempre di più, con un impoverimento generale della società, la questione non sarà la cd. “emergenza immigrazione” che emergenza non è, trattandosi di un fenomeno ormai strutturale, ma la vera emergenza sarà lo scontro sociale che le ingiustizie, la genrale mancanza di lavoro e di reddito, ed i crescenti divari di ricchezza non potranno che alimentare in futuro. E non sarà certo possibile continuare a riprodurre all’infinito, come capro espiatorio, il migrante, il rifugiato, persino il minore straniero, quando risulta sempre più evidente che le vere ragioni dell’impoverimento generale risiedono nel sistema finanziario e nella corruzione politica ed economica, che alimenta vaste sacche di evasione fiscale ( di cui non parla più nessuno, come se fosse passata di moda). Di fronte a questa situazione negata, o travisata per finalità elettorali, le responsabilità dell’informazione sono enormi, e se continua il disimpegnano della maggior parte dei giornalisti professionisti, comunque legati alle scelte politiche dei grandi canali di comunicazione, toccherà ai cittadini produrre nuovi canali di informazione dal basso,che poi vorrà dire riprodurre nuove capacità di aggregazione attorno alle domande sociali più forti.

Fulvio Vassallo Paleologo

Presidente di ADIF ( Associazione diritti e frontiere)