di Stefano Galieni
È diventato un luogo comune dire che l’opinione pubblica, non solo italiana, è così bombardata da informazioni ad effetto tanto da rimuoverle in maniera rapidissima. La frase ripetuta, spesso avendo scarne conoscenze di etologia è “la memoria collettiva dura quanto quella di un pesce rosso 40 secondi”. Ma la realtà? Un anno fa veniva scattata nei pressi di Bodrun (coste turche) la foto di un bambino, Aylam, un fuggitivo dalla Siria che non aveva raggiunto la salvezza. Foto che finì su tutte le prime pagine dei giornali e, forse, ci rimase troppo. L’accordo entrato in vigore fra Unione Europea e Turchia, (6 miliardi di euro per impedire di entrare in Europa a chi fugge) forse ci farà vedere meno immagini simili e non perché non ci saranno tanti Aylam ma in quanto potranno morire di stenti e violenze o essere rimpatriati nei luoghi di guerra da cui fuggono, senza essere inquadrati dalle nostre telecamere. Ottimo e cinico risultato contro il pericolo della commozione. Ma nel frattempo quanti Aylam meno “telegenici” o portatori di empatia ci sono passati davanti?
E restando in quelle aree, ci si ricorda di quando il “mondo occidentale” festeggiava la liberazione di Kobane dall’oppressione dell’Isis grazie alle combattenti kurde dell’YPG? Tutti felici contenti a gioire della laicità che vinceva sull’integralismo. Si era nel marzo 2015, è passato tanto tempo? Oggi, da quando, stretti nuovi accordi con la Russia di Putin e con l’aumento del potere contrattuale di Erdogan e l’indebolimento del pericolo ISIS, l’esercito turco attacca i liberatori di Kobane e del Rojava, li considera terroristi, né più né meno come l’ISIS. Ma questo accade nel silenzio assordante dell’informazione, soprattutto ma non solo in Italia, guai a irritare la Turchia, potrebbe non fermare più i profughi quindi meglio volgersi dall’altra parte, anche se non solo i conclamati (solo quando servono) valori occidentali vengono meno, ma anche quando le Convenzioni Internazionali elementari non hanno più valore. Quanto sta accadendo a Kobane non merita nemmeno una convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Per la stampa meglio dedicare spazio al dibattito sul “burkini” ormai appassito con la fine della stagione balneare. Ma la libertà degli uomini e delle donne sembra misurarsi più sui centimetri di corpo scoperto che sui chilometri in cui si prova a combattere per proporre un modo proprio di vivere e di prospettare il futuro
Ma spostiamoci ancora e guardiamo alcune miserie interne. Da noi, sempre in queste ore, monta la polemica sulle vignette di Charlie Hebdò, di pessimo gusto e certamente da stereotipo che riguardano il terremoto che ha ucciso centinaia di persone il 24 agosto. Ma quanto tempo è passato dalle magliette “Je sui Charlie”, certo a seguito di un attentato orrendo, ma determinato (non certo giustificabile) da vignette che avevano un approccio terribilmente simile. E restando in tema di relazioni con la Francia. Nel 2011 tanta indignazione perché a Ventimiglia si impediva alle persone che avevano ottenuto in Italia protezione umanitaria, di attraversare il confine per raggiungere parenti, amici, possibilità di trovare un futuro in un paese di cui si conosceva la lingua. Oggi che l’UE ha basi più tremolanti, meglio non litigare con i vicini, quindi meglio non accennare alle responsabilità francesi né tantomeno far sapere in giro che gli attivisti che cercano di difendere i migranti stipati al confine italo-francese, stanno ricevendo in continuazione minacce e fogli di via dalle autorità italiane. All’inizio il foglio di via, ovvero il divieto di mettere piede in una località per ragioni di “ordine pubblico” riguardava il solo Comune di Ventimiglia. Coloro che lo avevano ricevuto si erano resi responsabili di aiutarli, fornendo cibo, cure, informazioni utili, assistenza legale o semplicemente trovando loro un posto in cui fare una doccia. Ma la solidarietà, quando non è indirizzata verso gli autoctoni o gestita da grandi organizzazioni, è un optional, anzi una minaccia. Oggi, sempre nel silenzio mediatico assoluto, i solidali che incappano nelle forze dell’ordine ricevono fogli di via che riguardano fino a 16 Comuni, alcuni neanche facenti parte della provincia di Imperia e delle zone di confine. Ma ovviamente guai dedicarci un minimo di informazione. E da ultimo, sempre in termini di memoria corta. Qualcuno si ricorda il neologismo “Mafia Capitale”? Splendida inchiesta, senza dubbio, che portò a colpire un sistema che si è arricchito e ha prosperato sul business dell’accoglienza. Arresti eccellenti, capi d’accusa pesanti, persone che avevano cominciato a parlare e a disegnare la tela mefitica di un vero e proprio sistema che aveva Roma come epicentro ma si definiva in sistema di potere illegale in gran parte del Bel Paese. Erano diventate 16 le procure incaricate di indagare su questo specifico settore. E oggi? Che fine ha fatto l’inchiesta? Da più voci giunge l’affermazione che questa si sia fermata. Perché ha colpito e cacciato da ruoli di responsabilità tutti coloro che erano coinvolti? In realtà buona parte dei centri di accoglienza sono ancora gestiti dagli stessi che li tenevano sotto Mafia Capitale, cambiano i nomi dei presidenti dei Consigli di Amministrazione ma il volume di affari continua ad intensificarsi in assenza di qualsiasi forma di controllo. Non se ne parla, tanto per sciatteria dell’informazione quanto perché il sistema di accoglienza straordinaria, gestito dal Viminale, potrebbe collassare da un momento all’altro per carenza non solo di posti per dormire ma anche di strumenti di controllo, per assenza di volontà politica di imporre una svolta radicale alle logiche emergenziali. In Italia. 130 mila persone (questo più meno il numero delle persone giunte nel 2016), in un paese di 60 milioni di abitanti, potrebbero non costituire né un problema (come è perennemente raccontato) né fonte di speculazione, come spesso accade. Ma riaprire oggi inchieste, andare a togliere appalti o impedire di partecipare ai bandi a chi si è già dimostrato interessato solo al profitto, sembra che non ce lo si possa permettere. Quindi meglio dimenticare. Magari in attesa di tempi migliori. Viviamo in un paese in cui le priorità vengono determinate da un sistema opaco e complice. Rompere questa opacità deve essere secondo chi scrive, non solo un dovere deontologico ma un atto di dignità anche personale.