Pubblichiamo volentieri una riflessione di una grande scrittrice e nostra amica che spesso ci segue, che vive in Italia e non ha rinunciato mai a rompere i facili stereotipi su cui si costruisce l’immaginario del proprio paese di origine. Un paese complesso e pieno di contraddizioni ma che non può essere, durante i Giochi, ridotto ad una splendida cartolina.
di Claudiléia Lemes Dias
Il nero in Brasile ancora serve per cantare, ballare e giocare a pallone (per fortuna dopo tanti fiaschi ci stiamo liberando da questo stereotipo!). Ciò che hovisto ieri era una sfilata di luoghi comuni: la ‘garota de Ipanema’ 100% tedesca, i pochi indios rimasti raccattati qua e là per fare bella figura, la rappresentazione ultrasoft degli ‘africani’ subito seguita da tutti gli altri migranti europei: nessun segno di conflitto, tutto era molto amichevole. Ma cosa vuoi, Claudiléia? Ti sembra sia il caso di ricordare genocidi ed altri argomenti pesanti in questi momenti di festa? Accidenti a te! Andiamo avanti: Jorge Ben canta (ancora!) “País Tropical”: “Vivo nel paese tropicale/Benedetto da Dio/ E naturalmente bello/ Ma che bellezza!/ A febbraio c’è carnevale/Ho un maggiolino e una chitarra/Sono Flamengo e ho una negra chiamata Teresa…”, Erano presente TUTTI gli stereotipi del ‘favelado’ senza alcun tipo di sconto, dall’abbigliamento del ragazzino protagonista alle parrucche blackpower dei ballerini. L’intera cerimonia era impostata sul nero ‘favelado’ che sapeva ballare un sacco e che viveva la sua condizione ‘felicemente’, tanto è vero che ad un certo punto (non paghi dello spettacolo grottesco!) mettono la seguente canzone, cioè, l’inno del ‘favelado’, una canzone diventata famosa negli anni 90 dal titolo “Eu so quero é ser feliz”. Andiamo alla traduzione del ritornello perché ne vale la pena: “Voglio solo essere felice/Camminare tranquillamente nella favela in cui son nato/Riuscire ad esserne fiero/E sviluppare la consapevolezza che il povero ha il suo posto/Fede in Dio!”. La delegazione brasiliana è stata introdotta dalla super modella trans Lea T. Oh, che bello esempio di tolleranza, siete davvero un Paese libero… Peccato che siamo stati condannati dall’Onu per essere il Paese più omofobo dal mondo con una morte violenta al giorno direttamente collegata all’omosessualità o alla transessualità. Un’ultima nota dolente e poi non parlo più di questo argomento: il Villaggio Olimpico. Il Villaggio Olimpico è stato costruito nella Barra da Tijuca, una delle zone nobili di Rio. Al contrario degli inglesi che saggiamente hanno riqualificato le periferie e poi hanno destinato gli alloggi alla popolazione meno agiata con una canone decente, il complesso brasiliano è stato costruito da una cordata di imprenditori che hanno destinato gli alloggi ad una fascia sociale MOLTO elevata, avendo già venduto buona parte degli appartamenti ai privati che hanno sborsato cifre intorno a 1-3 milioni di reais. Parliamo di importi che variano dai 400.000 a un milione di euro, di valori impossibili non solo per un operaio, ma anche per la classe media. Fin qui tutto ok… tutto privato… Invece no! Siccome i lavori erano in ritardo il governo ci ha messo soldi pubblici. Morale della storia: una volta finite le Olimpiadi diranno al favelado-che-ballava-nella-cerimonia: “Ei, amico, vuoi un lavoro di pulizia? C’è un posticino vacante nel condominio tale di tale nella Barra da Tijuca!”. E vi dico di più. Dico che lui o lei lo accetterà con le lacrime agli occhi perché ha cantato, ballato e in più gli hanno dato un lavoro di lavavetri, di addetto alle pulizie, nelle portinerie di questo ingiusto ‘Paese tropicale’ che mi ha dato questa sensibilità di merda. Ora vado in vacanza, mi rifugio in un trullo con la famiglia. Per l’ennesima volta, come più di 11 anni fa, dico ‘Adeus, Brasil’ senza voltarmi.