Da Genova a Lampedusa l’eterno ritorno. L’emozione dell’approdo dei profughi

di Alessandra Ballerini*

Resta un delle emozioni più intense. Non può decisamente definirsi gioia. Anche se un po’ di gioia in qualche forma a tratti si sprigiona, insieme, però, ad altre più complesse sensazioni, Partecipare è certamente un privilegio che si vive col pudore dello spettatore imbucato, beneficiante pur senza aver pagato il biglietto.
Non è la mia prima volta. Ne ho visti molti, da tanti anni, in luoghi e con modalità diverse, ma ogni volta la magia di questo spettacolo drammaticamente reale è una sorpresa, destabilizza e ammutolisce.
Ce ne sono anche di orribili e traumatizzanti ma non, e solo per buone sorte, quelli ai quali ho avuto la fortuna di assistere.
Ci siamo svegliati un pò prima dell’alba. Le mie due giovanissime compagne di avventura sono, al contrario mio, molto più che spettattrici a sbaffo. Loro sono protagoniste di queste straordinarie opere, da mesi, e pagano il loro preziosissimo tributo con ore sottratte al sonno, thè bollente alla menta, coperte termiche, pupazzini di peluche per i più piccoli, succhi di frutta e merendine.
Siamo in tanti sul molo. Ma siamo le uniche non in divisa.
Aspettiamo più di un’ora, con gli occhi fissi all’orizzonte, scherziamo per ingannare l’attesa e iniziamo a preparare i nostri, anzi i loro, inestimabili doni, pronti da essere distribuiti.
Poi arrivano. Le luci e il rumore dei motori insieme all’avvicendarsi delle divise fungono da annunciazione.
Li vediamo scendere dalla barca a fatica. Scalzi, piegati, infreddoliti, assetati, feriti, ma vivi. Sono tutti, non illesi, ma vivi.
Questo è un bello sbarco.
Ci sono donne, alcune giovanissime e qualche neonato. Le ambulanze si riempiono presto: una donna incinta ed altre persone stremate perla fatica, il freddo o crisi ipoglicemiche.
Due ragazzi sono completamene ustionati, si fa fatica a guardarli senza provare dolore sulla propria pelle.
Ormai succede spessissimo, mi ha spiegato il dottor Bartolo: le imbarcazioni con le quali affrontano il viaggio negli ultimi tempi sono delle sorte di canotti di materiale scadente, riempiti a dismisura da carichi umani dei quali non reggono il peso ed implodono. Si piegano, questi natanti difettosi e inadatti, su loro stessi, facendo entrare acqua al centro. L’acqua si mischia con la benzina e questa miscela di mare e combustibile brucia e ulcera la pelle fino, a volte, ad essere letale.
Due giorni prima 21 donne erano arrivate morte, affogate in quel liquame ustionante, dentro l’imbarcazione ove si erano rannicchiate nel posto centrale, scelto per loro dagli uomini perchè avrebbe dovuto essere il più sicuro, lontano dalle onde dei bordi, e rivelatosi invece fatale.
Ma oggi è lo sbarco è buono, sono tutti vivi, anche le donne e i bambini.
Ma come spenti.
In molti piangono muti. Non sono singhiozzi, non è nemmeno un vero e proprio pianto, sono lacrime lente e centellinate alle quali non fa eco nessuno sguardo né parola. Gli occhi sono bassi, atterriti, confusi.
Si alzano un attimo solo quando le mani caute ricevono il bicchiere di thè o il cibo offerto.
Un ragazzo esile e giovanissimo si inginocchia sul molo e resta lì alcuni istanti.
Molti altri prima di lui si sono inginocchiati su quel cemento e si poteva percepire la gratitudine gioiosa che quel gesto rappresentava.
Oggi no. C’è cosi tanto dolore nei loro occhi, nei loro corpi, nella loro memoria che non è consentito immaginare alcuna felicità nei loro gesti grati e silenziosi.
Potresti anche non sapere nulla delle torture che subiscono i profughi sistematicamente nelle prigioni libiche prima di riuscire ad imbarcarsi, né delle violenze e degli abusi sessuali ai quali è quasi impossibile sottrarsi, ma vedendoli avanzare lenti verso gli autobus che li porteranno nel centro di identificazione (o meglio hot spot) di Lampedusa, hai la certezza che qualcosa di orribile ha attraversato queste esistenze.
Guardo estasiata Eleonora, Yadira, Salvo e Elly, offrire a queste anime salve un bicchiere di thè, avvolgerli nelle coperte termiche, dire loro in tutti i dialetti che hanno imparato in questi mesi, “benvenuto”, e sorridere.
Dura poco. In tutto sono 126, in fretta vengono contati, messi in fila e fatti salire sui pulmini.
Li raggiungiamo dopo, nell’hot spot di Contrada Imbriacola, dove verranno perquisiti, identificati , fotografati, sottoposti al prelievo delle impronte e costretti a firmare una marea di carte di cui non capiscano il senso.
Da oggi inizierà per loro un’altra prigionia, rinchiusi in questa gabbia con centinaia di altri profughi, senza acqua cada, con servizi igienici indecenti, stipati in stanzoni dove vengono ammucchiate oltre trenta brande, senza neppure un tavolo o una sedia dove poter mangiare. Senza nulla da fare per ore, giorni e mesi, se non ripensare agli orrori dai quali sono scappati e ai quali hanno assistito.
Ma è stato un buono sbarco, anzi come mi hanno insegnato a dire Alberto e Paola, un buon approdo (“gli eserciti sbarcano, non i profughi).
Sono tutti vivi. Forse non salvi, ma vivi.

Da Repubblica del 31.7.2016