Profughi schiavi per il traffico di organi: confermati anni di denunce

di Emilio Drudi

Ci sarebbe anche il ‘mercato degli organi’ tra le atrocità commesse dal clan criminale scoperto dalla Direzione distrettuale antimafia presso la Procura di Palermo. E’ quanto emerge dalla testimonianza di Nouredin Atta, il trafficante di uomini eritreo che ha deciso di collaborare con la giustizia. Sulle rivelazioni di questo “pentito” si basa buona parte dell’inchiesta che, dopo l’arresto in Sudan, in maggio, del presunto capo libico Medhanie Mered, ha portato a ben 38 fermi di polizia eseguiti in tutta Italia, facendo emergere una rete malavitosa internazionale di cui fanno parte eritrei, libici e sudanesi.
«Talvolta – ha riferito Nuredin Atta – i migranti non hanno i soldi per pagarsi il viaggio via terra o non sanno a chi rivolgersi e come coprire il costo della traversata del Mediterraneo. Allora, mi è stato raccontato, queste persone vengono consegnate a gruppi di egiziani per una somma di circa 15 mila dollari. E questi egiziani sarebbero attrezzati per espiantare gli organi e trasportarli poi in borse termiche». Il che presuppone, evidentemente, che ci sia un vero e proprio mercato, con cliniche legate al giro dei trapianti clandestini.
La Procura di Palermo mostra molta cautela su questo capitolo delle indagini. Intanto, però, è la prima volta che in una inchiesta condotta in Europa sulla tratta dei profughi, si parla anche di traffico di organi. Finalmente, perché è un orrore denunciato da anni. Un orrore emerso inizialmente nel deserto del Sinai, dove passava una delle vie più battute dai profughi in fuga dal Corno d’Africa verso Israele. La prima a parlarne, tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, è stata l’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai, dopo aver scoperto – sulla base dei racconti e delle richieste di aiuto di numerosi migranti, soprattutto eritrei ma anche etiopi e sudanesi – che una organizzazione di trafficanti, in combutta con elementi della tribù beduina dei Rashaida, fingendo di offrire “passaggi sicuri” dal Sinai in Israele, sequestrava centinaia di fuggiaschi, pretendendo poi un riscatto di decine di migliaia di dollari per il rilascio e minacciando di consegnare al “mercato degli organi” chi non voleva o non poteva pagare. Questa denuncia è stata poi ripresa da varie Ong sia in Europa che in Israele ed è diventata oggetto di una approfondita inchiesta condotta dall’equipe della professoressa Mirjam van Reisen, dell’Università olandese di Tilburg, in collaborazione con la giornalista eritrea Meron Estefanos, esule in Svezia, e presentata poi in tutte le principali capitali europee. A Roma se ne è parlato nel dicembre 2013 in un incontro alla Camera dei Deputati.
Nei mesi successivi alla pubblicazione dell’inchiesta si sono aggiunti altri elementi: in particolare la testimonianza di un sottufficiale eritreo disertore, finito nella mani dei Rashaida in Sudan, trasferito in Sinai e salvato da un blitz delle forze di sicurezza egiziane. Appena libero, quel militare si è detto pronto a giurare di aver assistito, nella cella stessa dove era detenuto, al prelievo dei reni di un suo sfortunato compagno: «Il mio amico – ha riferito – era riverso a terra, svenuto, forse morente per le torture subite. E’ arrivato un medico che gli ha iniettato qualcosa e poi gli ha tolto i reni, mettendoli in un contenitore termico. Subito dopo se ne è andato».
La base di traffico nel Sinai si è chiusa quando, con la costruzione della barriera lungo i 250 chilometri di confine con l’Egitto da parte di Tel Aviv, si è bloccata la via di fuga verso Israele. Non si è però chiuso il giro dei sequestri di migranti e presumibilmente del traffico di organi. L’organizzazione criminale ha semplicemente spostato la sua centrale operativa in Sudan, tra il confine con l’Eritrea e la zona di Kassala. E infatti, dopo una pausa di qualche mese, sono tornate le segnalazioni di rapimenti e sparizioni misteriose, seguite da pressanti richieste di riscatto. Con le medesime modalità già sperimentate nel Sinai, incluse le torture inflitte alle vittime mentre telefonavano ai familiari perché questi potessero udire “in diretta” le urla di dolore e si convincessero a inviare il denaro prima possibile.
L’ultimo sequestro di cui si ha notizia certa risale a poco più di due mesi fa. Ne è rimasta vittima una migrante giovanissima, 15 anni appena, sorpresa dai banditi o, più verosimilmente, consegnata ai banditi dagli stessi “passatori”, poco dopo il confine tra l’Eritrea e il Sudan. Per il rilascio è stata chiesta una “taglia” di 30 mila dollari. Ad oggi non si sa ancora che fine abbia fatto quella ragazzina. La stessa sorte è toccata in precedenza, più o meno nell’identica zona, a un gruppo di 15/20 giovani eritrei che stavano cercando di raggiungere a piedi i campi di Shagarab, per mettersi sono la protezione dell’Unhcr. Anche di loro, dopo il primo allarme, non si è saputo più nulla. In questi casi, del resto, spesso i familiari preferiscono “mantenere il silenzio”, come chiedono i trafficanti, nel timore di ritorsioni e vendette nei confronti dei loro congiunti prigionieri.
Proprio in queste settimane, intanto, si è scoperto che una organizzazione di rapitori ha cominciato ad operare tra il Sudan e l’Egitto, con emissari a Khartoum e una o più basi-prigione nel deserto, a sud di Assuan. Lo ha denunciato Mebrathom, un giovane eritreo, l’unico di un gruppo di 14 migranti che sia riuscito a fuggire, raggiungendo il Cairo, dopo alcuni mesi di prigionia in un villaggio semi abbandonato nel Sahara. In questo caso i beduini Rashaida non c’entrano: stando al racconto del ragazzo, l’organizzazione è gestita da egiziani, sudanesi ed eritrei. Il sistema ricalca più o meno quello già noto: maltrattamenti, percosse, torture continue per vincere ogni forma di resistenza alla richiesta di riscatto e cessione ad altre bande o soppressione di chi non vuole o non può pagare. Non risultano, al momento, eventuali collegamenti con il traffico di organi, ma non si possono escludere. Tanto più che, come ha riferito Mebrathom, i banditi non avrebbero esitato a uccidere tre del gruppo, due ragazzi e una ragazza, come “avvertimento” per tutti gli altri.
La confessione di Nuredin Atta ha squarciato per la prima volta la corte di omertà su queste atrocità, nel contesto di una inchiesta ufficiale condotta da una Procura europea. Stando alle notizie di stampa, avrebbe anche consegnato ai magistrati, come prova, foto e video – definiti “agghiaccianti” dagli inquirenti – sull’attività del racket che sfrutta i profughi come schiavi per i giri di prostituzione, per il lavoro forzato e, appunto, il traffico di organi. Può essere l’inizio di un nuovo, enorme filone d’indagine a livello internazionale, partendo anche dalle prime denunce, fatte circa sei anni fa e rimaste inascoltate. Ma, a parte l’aspetto giudiziario, le prove crescenti di questo orrore possono essere un monito anche per la politica: in particolare per la scelta di Bruxelles e di Roma di stringere accordi con Stati africani quali l’Egitto, il Sudan, la Libia, la stessa Eritrea, per esternalizzare i confini dell’Europa. Stati ai quali viene demandato il controllo sull’immigrazione, ma che finora, nel migliore dei casi, hanno ignorato e di fatto favorito quanto è accaduto e sta accadendo e sulle cui polizie e forze di sicurezza (ad esempio in Libia o in Sudan), come hanno denunciato più volte i profughi, grava non di rado il sospetto di “indifferenza” o, peggio, di connivenze con i trafficanti.