I migranti nuovo popolo della globalizzazione tra naufragi e dispersione.

Per una sanzione degli abusi e dei crimini commessi contro chi fugge dalla fame e dalla guerra.

Nei processi migratori al tempo della globalizzazione il Mediterraneo ha assunto una ruolo di cerniera ed al tempo stesso di frontiera, tra sud e nord del mondo, ed in qualche misura anche tra alcuni stati del vicino o del lontano Oriente ( Turchia, Siria, Giordania, Libano, Iraq, Palestina, Afghanistan, Pakistan, India, Sri Lanka, Cina, Bangladesh ) ed i paesi definiti “occidentali”.

Questa centralità del Mediterraneo non è certo una novità storica, ma si ripropone oggi con caratteri peculiari se si considera l’aumento delle aree di conflitto, le ricorrenti crisi economiche su entrambe le sponde, e l’aumento dei migranti, che alcuni vorrebbero definire e distinguere immediatamente come “migranti economici” e ” richiedenti asilo” o “rifugiati”.

Mentre si va sfaldando una identità unitaria dell’Europa, travolta da nazionalismi e populismi, frutto  di scelte  di politiche economiche sbagliate ma che crescono proprio sulla “paura dell’invasione”, le migrazioni di diverso segno e provenienza sono aumentate. Questo indipendentemente dalle politiche di contrasto e di esternalizzazione dei controlli di frontiera che i singoli stati, e poi l’Unione Europea, hanno rilanciato a cadenze periodiche, segnate da un rapido aumento delle stragi e da un numero impressionante di morti e di dispersi nelle acque del Mediterraneo.

L’Unione Europea, sempre più in difficoltà di fronte alle crisi cicliche della globalizzazione ha ritenuto di trovare una via di salvezza voltando le spalle al Mediterraneo – è anche questo il senso del risultato del recente referendum inglese sulla Brexit – ed ha scaricato sui paesi più esposti, come la Grecia e l’Italia, sia gli oneri di ricerca e soccorso in mare, che le successive attività di accoglienza. Il pervicace mantenimento del Regolamento Dublino III ha comportato una distribuzione disumana dei richiedenti asilo, le procedure di Relocation, dai paesi più esposti verso i paesi del centro e del nord Europa, tanto decantate come le “soluzioni di solidarietà” sono sostanzialmente fallite, gli standard di accoglienza sono crollati a livelli inferiori rispetto al rispetto minimo della dignità umana, e da ultimo il sostanziale ripristino dei controlli di frontiera interni hanno rimesso in discussione l’effettiva applicazione del Regolamento Schengen n.562 del 2006.

Mentre le identità nazionali all’interno dell’Unione Europea si riaffermavano con connotazioni sempre più forti, si è costituita una nuova “popolazione” di migranti, non riducibile al tradizionale concetto di “meticciato”, che impone una nuova valutazione del rapporto tra le sfide globali e la domanda di mobilità che accomuna, tanto i nuovi arrivati che le componenti più deboli della popolazione autoctona. Per questa nuova popolazione di migranti, per ridurne o contrastarne le domande sociali, per controllarne la mobilità, per impedire che possa acquistare soggettività e protagonismo, si sono costruite nuove barriere, che partono dalla esternalizzazione dei controlli di frontiera, al centro del Processo di Khartoum, per arrivare alla limitazione della libertà di circolazione all’interno dello spazio Schengen. Obiettivo che al di là della strumentalizzazione del blocco imposto a Calais, è stato un tema centrale della campagna elettorale in Inghilterra, culminata con il voto popolare a favore della Brexit che, per inciso, mirava a colpire non solo l’immigrazione extraeuropea quanto, soprattutto per il  futuro, l’ingresso e la stabilizzazione  di lavoratori  comunitari a cui andavano garantiti  gli stessi elementi  di welfare di cui  usufruiscono i britannici. Su  modelli di collaborazione con paesi governati da regimi autoritari, e corrotti, se non vere e proprie dittature, e su questa difesa delle frontiere nazionali, ben visibile anche in Italia al Brennero ed a Ventimiglia, l’Europa, ed al suo interno l’Unione Europea, si sta avviando verso il suo suicidio politico ed economico.

Il tentativo di trasformare il Mediterraneo in una “frontiera” liquida, oggi per bloccare i migranti, domani per difendere l’identità “europea” e per respingere la sfida del terrorismo internazionale, denota una pochezza culturale ed una tale assenza di prospettiva storica da fare temere il peggio per la superficialità delle classi dirigenti europee. Come se fosse davvero possibile costruire un muro sulle acque.

Di fronte ad un orientamento politico e culturale che appare ormai maggioritario occorre smascherare il falso umanitarismo che alcuni governi ostentano per differenziarsi da quelli che più apertamente si oppongono alla mobilità dei migranti, sia europei che in arrivo dai paesi esterni all’Unione Europea. Nei fatti poi, sul piano della politica estera e delle prassi di polizia, le differenze tra i diversi stati si attenuano e i diritti fondamentali della persona migrante sono sempre più a rischio, dal diritto alla vita ed a non subire trattamenti inumani o degradanti, fino al diritto di accedere ad un territorio nazionale per chiedere asilo o altra forma di protezione, o al diritto di difendere la propria libertà attraverso una difesa effettiva ed una possibilità di ricorso giurisdizionale.

E proprio da questi diritti fondamentali, ai quali vanno aggiunti il diritto alla salute, il diritto all’istruzione ed al lavoro, il diritto ala coesione familiare ed al rispetto della vita privata, che occorre ripartire per restituire identità al popolo dei migranti nel mondo globalizzato, un mondo che spinge verso la condizione di migrante un numero sempre più elevato di persone.

All’Europa dei muri e dei campi di confinamento, come alle tante barriere che circondano chi la frontiera se la porta addosso, marchio o numero segnato su un polso, occorre opporre un’Europa di cittadini e di istituzioni locali che si interpongono e ricostruiscono nuovi legami sociali, nella difesa dei diritti fondamentali delle persone migranti, e dell’intera popolazione di un territorio. Con il passare del tempo sarà questa l’unica forma possibile di integrazione e di convivenza pacifica.

Soltanto questa Europa potrà resistere alla sfida globale ed al declino al quale la condannano rapporti di forza, militare, politica ed economica, ormai incentrati più sui due grandi oceani che sul Mediterraneo. Per questa Europa che resiste e che rifiuta l’uso del mare Mediterraneo come una frontiera, si dovranno individuare nuove forme di rappresentanza popolare e di soluzione pacifica dei conflitti. Un impegno, anche di ricerca, del quale non è possibile anticipare a priori gli sbocchi. Di certo la storia del Mediterraneo è una storia di coesistenza. Per questa coesistenza che oggi deve significare convivenza pacifica dobbiamo impegnarci tutti i giorni contro i ricorrenti tentativi di militarizzazione che non offrono alcuna soluzione ai conflitti in corso, semmai li aggravano, esponendo sempre più al massacro le popolazioni civili e spingendo verso forme estreme di mobilità forzata nelle quali il valore della persona si riduce a mera quantificazione economica dei corpi. Ed occorre trovare sedi e tecniche di sanzione di violazioni alle quali non si riesce a trovare risposta davanti ai tribunali ed alle corti internazionali, anche per la difficoltà di accesso delle vittime alla giustizia.

In questa direzione proponiamo due casi di studio verso la destrutturazione di un discorso dominante che non offre soluzioni, ma alimenta conseguenze sempre peggiori delle premesse, magari in nome di un astratto contrasto di organizzazioni criminali o terroristiche che poi nessuno riesce davvero a colpire ed a smantellare.

Un primo settore di analisi e di intervento riguarda le frontiere esterne, e gli accordi con i paesi terzi, dunque con riferimento all’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne Frontex ed ai doveri di ricerca e soccorso in mare, oltre che di sbarco in un luogo sicuro. In questa direzione la creazione dei cd. Hotspot, poi l’introduzione del cd. Approccio Hotspot ha costituito occasione per abbattere le garanzie fondamentali di libertà previste dalle Costituzioni nazionali e dalla Carta Europea dei diritti fondamentali, oltre che dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Si sono creati spazi di trattenimento , dunque di limitazione della libertà personale,sottratti a qualunque controllo giurisdizionale e rimessi all’esclusiva discrezionalità delle forze di polizia.

L’altro caso di studio e di proposta è relativo al controllo della mobilità interna all’Unione Europea, dunque alla reintroduzione dei controlli alle frontiere interne di Schengen e della persistenza del Regolamento Dublino III, con la richiesta ancora insoddisfatta di una qualche condivisione degli oneri di accoglienza dei richiedenti asilo tra i diversi paesi membri dell’unione Europea. Il fallimento della Relocation promessa dal Consiglio Europeo e mai attuata ci interroga davvero sul futuro di questa Europa. Anche in questo caso tutte le scelte rimesse alle autorità amministrative hanno comportato una diffusa compressione dei diritti fondamentali delle persone confinate per mesi in centri di accoglienza, i nuovi Hub per l’accoglienza, che sono diventate un limbo di durata indefinita, luoghi di alienazione e di perdita di identità, spesso anticamera di una dispersione sul territorio che riproduce clandestinità e sfruttamento.

La situazione che  si è determinata in Italia, raccontata peraltro anche nei verbali della Commissione parlamentare di inchiesta sull’accoglienza determina un quadro fortemente preoccupante. Critica la situazione per i  soggetti più vulnerabili come i minori stranieri  non accompagnati, che troppo spesso sono dispersi. Drammatici alcuni provvedimenti  presi sempre  in Italia nella gestione delle frontiere interne come  a Ventimiglia,  dove si chiudono gli spazi di accoglienza e si rideportano  nel meridione  chi  in Sicilia è già stato identificato,  per garantire meno pressione sul confine  francese. Altrettanto carica di elementi  problematici è la condizione negli Hotspot funzionanti come quello di Pozzallo, dove si è passati dall’accoglienza alla detenzione e in cui mentre le agenzie internazionali decidono dei destini dei singoli trattenuti è inibito l’ingresso alle organizzazioni della società civile e dei mezzi di informazione.
Gli sbarchi nel frattempo continuano  e con essi cresce il numero delle vittime dei viaggi della morte. Capita che in pochi  giorni giungano migliaia di persone,  poi si passi  a periodi brevi di stasi e poi, all’improvviso nuovi arrivi dettati da diverse e articolate ragioni: condizioni del mare, disponibilità delle imbarcazioni, situazione militare e politica nelle zone  della Libia da cui  si parte, modalità organizzative  dei trafficanti. Da segnalare che, soprattutto in questi ultimo  anno, è  aumentato il numero di persone vulnerabili in arrivo, minori,  giovani donne, spesso  in gravidanza, vittime di torture. Non servono barriere e minacce  per fermare questi  arrivi, non serve  la caccia –  tante volte a vuoto – a scafisti e smugglers, serve garantire possibilità di ingressi  regolari  e protetti. Ma questo dovrebbe farlo un UE che  oggi, non a causa dei  migranti, è  in fase  di dissoluzione.