Accordi con l’Africa, un altro patto sulla pelle dei profughi

di Emilio Drudi

“Per affrontare la crisi dei profughi l’Unione Europea intende concentrare l’azione su una serie di paesi africani, con un programma di partenariato per le migrazioni”: lo ha dichiarato Dimitris Avramopulos – il commissario Ue al quale, quando era ministro in Grecia, si deve la costruzione della barriera di filo spinato alla frontiera turca lungo il fiume Evros – specificando, in buona sostanza, che si tratta di una riproposizione in chiave africana del trattato già entrato in vigore con la Turchia. Non manca tutto uno sbandierare di “buone intenzioni”, riassumibili nello slogan “aiutiamo i migranti nei loro paesi”, ripetuto fino all’ossessione da buona parte delle cancellerie europee, a cominciare da Roma. “Concluderemo accordi diversi con ognuno degli Stati interessati: vogliamo che siano pronti a collaborare ai rimpatri, che intervengano energicamente contro i trafficanti e salvaguardino efficacemente i propri confini”, ha infatti spiegato Avramopoulos, aggiungendo poi che la Ue, “a chi rispetta i patti”, può garantire in cambio “un sostanziale sostegno finanziario, che si andrà ad aggiungere agli aiuti erogati finora, oppure l’ampliamento delle relazioni commerciali”
Appunto, soldi in cambio di uomini: aiuti e collaborazione arriveranno da Bruxelles soltanto se i profughi verranno bloccati in Africa, prima ancora di raggiungere la sponda del Mediterraneo. Poco importa – eppure è proprio qui il punto fondamentale – che questo esodo di massa abbia ragioni innanzi tutto politiche o umanitarie molto più e molto prima che economiche. Poco importa, cioè, che per la stragrande maggioranza si tratta di una “fuga per la vita”: l’unica chance rimasta per sottrarsi a guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, galera, torture o magari fame e miseria endemiche dovute alle scelte dei regimi da cui si cerca di scappare.
Gli Stati scelti, in questa fase, sono nove: Etiopia, Giordania, Libano, Libia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal e Tunisia. L’unica nota positiva è che, contrariamente a quanto si è fatto con il Processo di Khartoum, l’accordo almeno per ora non riguarda dittature come quelle di Isaias Afewerki in Eritrea, di Al Bashir in Sudan e di Al Sisi in Egitto. “Almeno per ora”, perché Avramopulos ha specificato che “nel tempo si aggiungeranno altri paesi africani e asiatici”. Anche i nove Stati contattati, tuttavia, difficilmente possono considerarsi davvero “sicuri” come pretenderebbe Bruxelles. E’ eloquente quanto emerge sul loro conto nell’ultimo rapporto annuale di Amnesty sulla situazione dei diritti umani.
Etiopia. Addis Abeba è alle prese da anni con la sanguinosa rivolta indipendentista nell’Ogaden e la crescente ribellione dell’Oromia, che proprio negli ultimi mesi si è riaccesa con forza: proteste, manifestazioni, scioperi. Lo Stato ha opposto un “pugno di ferro”, con arresti di massa e pesantissimi interventi della polizia, che non ha esitato a sparare, tanto che, secondo le forze di opposizione, ci sarebbero state numerose vittime. Eloquenti i dossier pubblicati in questi giorni da Human Rights Watch. Il rapporto di Amnesty conferma questo quadro tenebroso: “Membri e leader del partito d’opposizione e manifestanti – vi si legge in riferimento al 2015 – sono stati vittime di esecuzioni extragiudiziali. Le elezioni generali di maggio si sono svolte in un contesto di misure repressive nei confronti della società civile, dei mezzi d’informazione e dell’opposizione politica, facendo tra l’altro uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, disturbando la campagna dell’opposizione politica e i suoi osservatori incaricati di seguire le operazioni di voto. La polizia e l’esercito hanno eseguito arresti di massa di manifestanti, giornalisti e membri di partiti, in un giro di vite sulle proteste nella regione di Oromia”. Tra gli episodi più gravi, l’uccisione di quattro leader politici da parte della polizia o di “squadroni della morte”: Samuel Aweke, Tadessa Abreha, Berhanu Erbu, Asrat Haile. O, ancora, l’arresto di ben 500 membri della coalizione Medrek in vari seggi elettorali dell’Oromia, il 24 e il 25 maggio.
Giordania. Sotto la calma apparente e dietro le pagine patinate di certe cronache di viaggio, si nasconde un sistema di potere che non esita a violare i diritti umani. “Le autorità – denuncia Amnesty – hanno imposto restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione. Hanno inoltre perseguito penalmente e incarcerato persone che avevano criticato il governo. Sono proseguiti gli episodi di tortura e altri maltrattamenti nei centri di detenzione e nelle carceri e la Corte per la sicurezza di Stato (State Security Court) ha continuato a celebrare processi iniqui. Le donne hanno subito discriminazioni nella legge e nella prassi e non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza sessuale e di altro tipo. I tribunali hanno emesso condanne a morte e sono state effettuate esecuzioni”.
Libano. Rispetto ad altre realtà, la situazione appare meno dura e, oltre tutto, non va dimenticato che il paese, con appena 5 milioni di abitanti, ha dato asilo a ben 1,2 milioni di profughi, in gran parte palestinesi e siriani. Si è ancora lontani, tuttavia, dal rispetto pieno dei diritti umani: “Le forze di sicurezza hanno fatto uso eccessivo della forza per disperdere alcune manifestazioni e per sedare le proteste dei detenuti. Le donne hanno continuato ad essere discriminate. I lavoratori migranti hanno affrontato sfruttamento e abusi. Le autorità non hanno intrapreso iniziative per indagare sulla sorte delle migliaia di persone, vittime di sparizioni o altrimenti private della libertà e non più ritrovate, durante la guerra civile dal 1975 al 1990. I rifugiati palestinesi da lungo tempo residenti in Libano hanno continuato a subire discriminazioni. Il Libano ospita più di 1,2 milioni di rifugiati dalla Siria, ma, a partire da gennaio, ha chiuso la frontiera e stabilito nuovi requisiti d’ingresso, impedendo di fatto ai palestinesi in fuga dalla Siria di entrare nel paese. I tribunali hanno comminato almeno 28 condanne a morte, anche se non ci sono state esecuzioni”.
Libia. Lo stato di guerra permanente di tutti contro tutti è più che eloquente dello sfacelo in cui è precipitato il Paese. Senza che si intraveda una soluzione. Anche il Governo di Unità Nazionale guidato da Fayez Serraj, fortemente voluto dall’Unione Europea e dall’Onu, si è dimostrato finora poco più che un simulacro, contrapposto ai governi rivali e alle assemblee di Tripoli e di Tobruk, che si contendono il potere dal 2014. Lo stesso Serraj ha ammesso recentemente, in una intervista al Libya Herald, di non avere il pieno controllo nemmeno a Tripoli, tanto da restare in pratica confinato nella base della Marina di Abu Seta, dove si è insediato, arrivando per mare da Tunisi, il 30 marzo scorso. Il quadro che fa Amnesty della situazione non dà adito a dubbi: “I combattimenti sono proseguiti per tutto l’anno. Sia le forze affiliate ai due governi rivali, sia i gruppi armati hanno commesso impunemente crimini di guerra e altre violazioni del diritto internazionale umanitario e violazioni dei diritti umani. I diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione hanno subito gravi restrizioni. Sono proseguite le detenzioni senza processo; tortura e altri maltrattamenti sono rimasti prassi comune. Le donne, i migranti e i rifugiati hanno subito discriminazioni e abusi. La pena di morte è rimasta in vigore; diversi ex alti funzionari di governo sono stati condannati a morte al termine di un processo profondamente viziato”. Il rapporto si riferisce al 2015 ma in questi primi mesi del 2016 ben poco è cambiato. Ne fanno fede le testimonianze dei profughi arrivati in Italia dalle coste libiche: autentici “racconti dell’orrore” per le angherie, le violenze, i soprusi, le torture, i sequestri, i ricatti non solo ad opera dei trafficanti ma delle varie milizie (incluse quelle dell’Isis) e della stessa polizia che gestiscono i centri di detenzione.
Mali. In tutta Europa si insiste che, grazie all’intervento militare francese nel 2013, la situazione si è pressoché normalizzata, dopo la rivolta tuareg e il successivo sopravvento dei gruppi fondamentalisti islamici (Aqim, Ansardine e Mourabitoun) che avevano portato alla separazione delle tre regioni sahariane dell’Azawad. In realtà il conflitto non si è mai concluso: continua con agguati e assalti condotti in tutto il paese. In Europa è arrivata l’eco solo degli episodi più gravi, come gli attacchi ai ristoranti e ai grandi alberghi di Bamako o “esportati” in Burkina Faso e in Costa d’Avorio. Ma è una escalation costante: a parte le azioni di tipo militare, nel 2015 ci sono stati quasi cento attentati, uno ogni 3/4 giorni. La settimana scorsa milizie ribelli hanno addirittura preso il controllo, per diverse ore, di tutta la fascia occidentale di Timbuctu. Così i morti, i profughi e gli sfollati interni continuano a crescere. E l’Unicef denuncia che, a causa dei quattro anni di guerra, ci sono attualmente nel paese oltre 250 mila bambini orfani. L’analisi di Amnesty è impietosa: “Il conflitto interno ha perpetuato il clima di insicurezza, in particolare nel nord, nonostante la firma di un accordo di pace. In varie parti del paese i gruppi armati hanno continuato a commettere abusi e crimini di diritto internazionale”. Abusi delle milizie estremiste ma anche delle forze di sicurezza: “A gennaio soldati della missione Minusma (Onu: ndr) hanno sparato proiettili veri contro civili davanti a una base delle Nazioni Unite a Gao, uccidendone tre e ferendone altri quattro, nel corso di una violenta manifestazione”. O ancora: “Ad agosto, circa 200 persone hanno manifestato pacificamente contro la pesante tassazione nella città di Yelimané. Il giorno dopo la polizia ha arrestato 17 membri dell’associazione Yelimané Dagkane, incriminati per incitamento alla rivolta”.
Niger. E’ lo Stato nel quale, secondo varie fonti Ue, si dovrebbe realizzare uno degli hub di accoglienza e smistamento dei profughi. Non si capisce con quali garanzie di sicurezza, visto che proprio in questi giorni le Nazioni Unite hanno lanciato un appello alla comunità internazionale per la crisi umanitaria che si è creata nel paese in seguito agli attacchi che i miliziani islamici del gruppo di Boko Haram conducono ormai da anni. Boko Haram – scrive Amnesty – ha commesso crimini di diritto internazionale, intensificando il conflitto e determinando un aumento degli sfollati interni (che a dicembre 2015 risultavano oltre 100 mila) e dei profughi fuggiti da Nigeria, Libia e Mali (almeno 150 mila). Il Governo ha risposto con un pesantissimo giro di vite: stato d’emergenza nelle regioni più a rischio, arresti in massa e rappresaglie da parte dell’esercito, arresti arbitrari di difensori dei diritti umani, ingerenze di alcuni ministri nel lavoro della magistratura, messa al bando di vari giornali e limitazioni alla libertà d’espressione.
Nigeria. E’ uno dei paesi da cui stanno arrivando più profughi in Italia: circa 6 mila dal primo gennaio al 31 maggio. Non potrebbe essere altrimenti. Boko Haram ha moltiplicato le stragi, le uccisioni, i sequestri, le distruzioni. Migliaia di persone sono costrette a vivere sotto il suo potere violento nelle città cadute sotto il suo controllo. Nel 2015 si è registrata una media di quasi due attentati al giorno: ben 632, circa il 15 per cento di quelli censiti in tutta l’Africa. C’è, di fatto, una vera e propria guerra in corso tra l’esercito nigeriano e le milizie di Boko Haram che, tra l’altro, si è autoproclamato “Provincia Occidentale Africana” nell’organizzazione dello Stato Islamico. “Un conflitto – denuncia Amnesty – che a fine anno aveva già causato la morte di decine di miglia di civili e oltre due milioni di sfollati interni”. E ai soprusi dei terroristi si aggiungono le angherie dello Stato: “Gli episodi di tortura e altri maltrattamenti per mano delle forze di sicurezza e della polizia sono frequenti” e l’esercito, “nel rispondere alle azioni di Boko Haram, ha commesso crimini di guerra e possibili crimini contro l’umanità”, mentre “le demolizioni di insediamenti informali” (abitati per lo più da profughi: ndr) hanno determinato lo sgombero forzato di migliaia di persone” che, in pratica, non sanno dove andare. Ecco, allora, perché si scappa dal paese.
Senegal. In Europa si ha generalmente l’immagine di un paese meta del turismo internazionale: vacanze, mare, belle spiagge, “archeologia coloniale”. Una realtà, insomma, piacevole, sicura, aperta. Amnesty parla invece di forti limitazioni di ogni forma di libertà, processi iniqui e arresti arbitrari, violenze, impunità per le forze di sicurezza colpevoli di palesi violazioni dei diritti umani, torture, maltrattamenti, uccisione di manifestanti, persecuzioni contro gay e lesbiche, processi iniqui. Senza contare il conflitto in corso con il Movimento delle forze democratiche della Casamance, che continua a mietere vittime e che è condotto dall’esercito con estrema durezza.
Tunisia. E’ l’unico paese del Maghreb dove la rivolta delle “primavere arabe” ha concretamente avviato un percorso democratico. Tuttavia la strada da percorrere sembra ancora lunga, anche a causa delle forti diseguaglianze sociali rimaste finora pressoché inalterate e della linea “più sicurezza anche a scapito delle libertà” che il Governo ha giustificato con la necessità di combattere il terrorismo, ma che sembra avere almeno in parte radici antecedenti agli ultimi, sanguinosi attacchi al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. “Le autorità – scrive Amnesty – hanno rafforzato le restrizioni alle libertà di espressione e di riunione, vietando tra l’altro lo svolgimento di alcune manifestazioni. Sono emerse inoltre nuove testimonianze di torture ed altri maltrattamenti”.
Il programma illustrato da Dimitris Avramopoulos non sembra tener conto di tutto questo. Lascia intendere che l’accordo proposto riguarderebbe “paesi sicuri”, nei quali i profughi possono restare o essere rimandati indietro dall’Europa. Anzi, non si tratterebbe nemmeno di rifugiati ma di “migranti economici”. Non a caso lo stesso Avramopoulos precisa che verrà predisposta una specifica “carta blu” per concedere “permessi di soggiorno e di lavoro ai migranti regolari altamente qualificati”. Un’affermazione che tradisce almeno due contraddizioni. La prima è che, mentre si dice che il progetto servirà a promuovere l’economia e la crescita dei paesi africani che aderiranno, in modo da bloccare o quanto meno arginare la crisi migratoria, contemporaneamente si favorisce in realtà la fuga dei giovani più preparati, quelli che dovrebbero dare la spinta maggiore allo sviluppo e diventare magari la classe dirigente. La seconda è che, di fatto, si manifesta la volontà di non prendere nemmeno in esame eventuali richieste di asilo presentate da esuli provenienti da quei “paesi sicuri”, avallando così il principio di un respingimento di massa a priori. E allora, a prescindere da Bruxelles e a meno di voler negare l’evidenza di situazioni spesso terribili, c’è da domandarsi come possa l’Italia sostenere questo programma senza tradire la nostra Costituzione che, al terzo comma dell’articolo 10, dice testualmente: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Tratto da: www.buongiornolatina.it