Profughi, tragedie “nascoste” e lavoro sporco

di Emilio Drudi

L’attenzione è tutta puntata sul Mediterraneo perché si moltiplicano i naufragi ed i morti. E perché dal Medio Oriente e dalla sponda africana continuano ad arrivare, in condizioni drammatiche, migliaia di profughi, partendo dalla Libia e dall’Egitto, con la prospettiva che si apra anche una rotta dall’Algeria, dove a fine dicembre 2015 si calcolava che già ci fossero oltre 100 mila migranti, entrati dalle piste del Sahara. Poco si parla di altre situazioni, ugualmente terribili, che spesso sono la premessa dell’esodo attraverso il Mediterraneo oppure la conseguenza dei muri innalzati per cercare di bloccarlo, questo esodo, o sono comunque il “prodotto” dell’indifferenza e dell’egoismo che il Nord del mondo dimostra di fronte a questa autentica catastrofe umanitaria. Vale la pena, allora, analizzarne almeno qualcuna di queste situazioni, “figlie” della serie di accordi di respingimento firmati dall’Unione Europea con vari Stati Africani o del Medio Oriente: il Processo di Rabat, il Processo di Khartoum, i trattati di Malta e quello con la Turchia, che ora sta per essere riproposto in Africa con il Migration Compact presentato dall’Italia a Bruxelles. “Ne vale la pena – afferma l’agenzia Habeshia – perché queste emergenze sottaciute che stiamo cercando di portare alla luce, danno un’idea di come il problema sia globale e complesso, ma nasca da motivazioni spesso intrecciate tra di loro e comunque tutte riconducibili al denominatore comune della violazione dei diritti umani”. Sono otto i casi denunciati. Riguardano il Sudan, la Libia, l’Egitto, Gibuti, la Turchia, la Tanzania e il Botswana, una serie di Stati del Sud Est Asiatico.

 

– Sudan. E’ in corso la deportazione verso l’Eritrea di centinaia, migliaia di profughi: giovani che vengono così riconsegnati alla dittatura da cui sono scappati. Li aspettano anni di galera, torture e per qualcuno forse la morte stessa. Da settimane la polizia ha intensificato i controlli e iniziato una serie di rastrellamenti a tappeto a Khartoum e nelle altre principali città dove si concentrano i rifugiati in transito verso la Libia e l’Egitto. Tra il 16 e il 18 maggio, solo a Khartoum ne sono stati catturati quasi mille: 380 li hanno ricondotti di forza al confine nel giro di un paio di giorni e gli altri sono rinchiusi in un centro di detenzione, in attesa di seguire la stessa sorte. Le retate continuano, allargandosi a macchia d’olio dalla capitale. Uno dei prossimi obiettivi potrebbe essere Ondurman, la tappa finale in Sudan prima di intraprendere la traversata del Sahara verso nord.

– Libia. Anche qui i controlli sono stati intensificati e sono iniziati rimpatri forzati di massa, senza porsi problemi sulla sorte che attende i profughi nei paesi d’origine. Si ha notizia, in particolare, di un gruppo di 204 eritrei che hanno già ricevuto la notifica di espulsione. Fuggire è impossibile: la polizia e i miliziani di guardia ai centri di detenzione sparano a vista. Per uccidere, come dimostrano i cinque morti e i numerosi feriti registrati all’inizio di aprile durante un tentativo di evasione da Al Nasrm, presso Zawia. E la vigilanza o i rastrellamenti lungo le piste che arrivano dal deserto oppure, ancora di più, nei punti di imbarco, continuano a riempire i campi profughi. Solo il 24 maggio la guardia costiera e la polizia hanno catturato oltre 800 migranti che si erano appena imbarcati e stavano iniziando la navigazione. Secondo alcuni media libici, sarebbero stati gli stessi trafficanti a segnalarne la partenza alle forze di sicurezza, forse per liberarsi di centinaia di profughi che, dopo essersi fatti comunque versare il “prezzo” della traversata, non sapevano più come “gestire” a causa della mancanza di barche o gommoni in grado di raggiungere almeno il limite delle acque territoriali. Altri 766 sono stati intercettati a Sabratha (550) e Zwara (216), due delle principali basi di partenza verso l’Italia.

– Egitto. Sono ormai migliaia i profughi intrappolati nel paese dopo essere arrivati dal Sudan. Non è un caso: l’Egitto sta diventando la via di fuga principale nella rotta del Mediterraneo Centrale. Si entra dal Sahara o dalla valle del Nilo e si esce dal Delta, dopo una sosta più o meno lunga nel paese, spesso proprio al Cairo, in balia dei trafficanti o della polizia. In maggioranza si tratta di eritrei ma sono numerosi anche i sudanesi, i sud sudanesi, i somali, gli etiopi in fuga dall’Oromo e dall’Ogaden. Uno dei più grossi concentramenti dei migranti intercettati – secondo le segnalazioni giunta all’agenzia Habeshia – si trova nelle caserme di polizia e nelle carceri della zona di Assuan, che è un po’ la porta d’ingresso della valle del Nilo, dopo il lago Nasser. Rischiano tutti di restare in prigione a tempo indeterminato: per la legge egiziana, entrare nel paese in modo irregolare è  un reato che comporta il carcere fino a quando non si è in grado di pagare il viaggio di rientro nel proprio paese. Ma per molti profughi, come gli eritrei o gli etiopi, rientrare significa di fatto consegnarsi a una galera ancora peggiore, ad Asmara o ad Addis Abeba. Così preferiscono restare nelle mani della polizia egiziana. Secondo le telefonate di aiuto giunte ad Habeshia, ci sono anche donne e bambini in queste condizioni.

– Gibuti. Qui il calvario riguarda un gruppo di prigionieri di guerra, almeno 19. Prigionieri ormai da otto anni, anche se la guerra è finita sei anni fa, nel 2010. Stando alle ultime informazioni, sono nel carcere di Negad, dimenticati e abbandonati da tutti. A cominciare dal governo di Asmara che li ha mandati a combattere e che adesso nega persino che esistano. E’ una vicenda assurda, strascico del lunghissimo conflitto scatenato da Isaias Afewerki, nel 1996, per una banale controversia di confine. Sono stati catturati tra il 10 e il 13 giugno del 2008, nel corso di uno scontro a fuoco lungo la frontiera. Nel 2010, con la mediazione del Qatar, si è finalmente firmata la pace. Era da aspettarsi che a quel punto i prigionieri di guerra delle due parti venissero liberati. Non è stato così. Asmara non ha rilasciato i militari di Gibuti detenuti, negando anzi di averne anche dopo che la presenza di gibutini trattenuti in campi di concentramento in Eritrea è stata ampiamente provata da un’inchiesta del Consiglio di sicurezza dell’Onu, forte delle testimonianze di due soldati che erano riusciti ad evadere e a raggiungere il Sudan, a oltre un anno di distanza dalla firma del trattato di pace. Gibuti, a sua volta, ha trattenuto i prigionieri eritrei come “arma di scambio” e, in definitiva, come ritorsione.

I 19 incarcerati a Negad sono vittime di questo rimpallo incredibile. Nei mesi scorsi Asmara – smentendo in pratica se stessa e confermando i rapporti dell’Onu – ha deciso di rilasciare quattro prigionieri gibutini che aspettavano di essere liberati da ben sei anni. Si sperava che, sulla scia di questa decisione, anche i 19 eritrei di Negad potessero tornare in libertà. Gibuti, invece, non ne ha rilasciato nemmeno uno. Anzi, il portavoce del governo ne ha negato addirittura l’esistenza ed anche Asmara è come se li avesse cancellati: non riconosce che Gibuti abbia prigionieri di guerra eritrei.

Alla sorte di questi 19 prigionieri si aggiunge quella di un altro militare, un ex pilota da caccia fuggito con il suo aereo a Gibuti per chiedere asilo politico. Il governo lo ha accolto ma contro di lui è iniziata una autentica “caccia” non solo da parte dell’Eritrea, che ne chiede la riconsegna come disertore, ma anche di Addis Abeba, che ne ha sollecitato l’estradizione accusandolo di aver partecipato a bombardamenti indiscriminati sulle città etiopiche durante la guerra combattuta tra il 1998 e il 2000. Gibuti finora ha resistito alle pressioni delle due parti, ma ha pensato bene di arrestare quel pilota, con la giustificazione che sarebbe questo “l’unico modo efficace per proteggerlo”.

– Turchia. Ad Ankara un profugo eritreo sta vivendo una situazione simile a quella del pilota in carcere a Gibuti. E’ arrivato con un aereo di linea, deciso a chiedere asilo, ma è stato fermato al posto di frontiera dell’aeroporto. Da allora vive in pratica segregato nella “terra di nessuno” dei servizi aeroportuali: non può proseguire la fuga e indietro non vuole tornare. Intanto il governo turco sta trattando con Asmara un accordo di riconsegna di tutti i profughi eritrei intercettati in territorio turco. Se si arriverà alla firma, la sorte di quel giovane è segnata. Così come quella di altri eritrei giunti in Turchia con la speranza di passare poi in Grecia per raggiungere il Nord Europa.

– Botswana e Tanzania. Anche da questi paesi un folto gruppo di esuli eritrei corre il rischio di essere riconsegnato ad Asmara. Sono tutti campioni dello sport, fuggiti in occasione di trasferte all’estero delle rispettive squadre. Clamoroso, in particolare, il caso di ben dieci componenti della nazionale di calcio che, dopo una partita valida per le qualificazioni della Coppa del Mondo in Botswana, hanno scelto di chiedere asilo politico, rifiutandosi di rientrare in Eritrea. Era l’agosto del 2015. Da allora, nonostante l’interessamento iniziale dell’Unhcr, nessuno si è più preoccupato della loro tutela e del loro futuro. Ormai sono allo stremo, mentre si moltiplicano le pressioni di Asmara perché il governo beciuano ne decreti l’espulsione e il rimpatrio forzato. “Non vogliamo nemmeno pensare a cosa possa accadere a questi ragazzi se verranno riconsegnati alla dittatura – rileva l’agenzia Habeshia – La fuga di campioni dello sport suscita sempre una vasta eco all’interno del paese e all’estero diventa un vero e proprio atto di accusa: una denuncia esplicita delle condizioni in cui è ridotta l’Eritrea. E’, insomma, un duro colpo per il regime, che negli ultimi anni sta cercando di riaccreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. E il regime sa vendicarsi”.

Sud Est Asiatico e Filippine. Aumenta costantemente il numero dei profughi in fuga dal Corno d’Africa che finiscono nel Sud Est Asiatico: eritrei, somali, etiopi, sudanesi. Ce ne sono a decine, in particolare, in Cambogia e in Indonesia, dove sono arrivati nella speranza di proseguire il viaggio fino in Australia. L’Australia, però, ha chiuso tutte le porte: non consente ai migranti nemmeno di toccare il continente, dirottandoli quasi subito verso i centri di detenzione allestiti “offshore” nelle isole di Nauru o Manus, in mezzo al Pacifico. Molti sono così rimasti intrappolati a metà strada. Il gruppo maggiore, oltre cento migranti, quasi tutti eritrei, è in Indonesia, perché è questo il punto di imbarco per l’Australia. Tanti hanno anche trascorso diversi mesi in carcere per immigrazione clandestina. Ora vivono come in un limbo, “dimenticati” da tutti e quasi senza speranza: non possono tornare indietro e non hanno la possibilità di proseguire. La situazione più preoccupante è forse quella di un gruppo di giovani donne arrivate sino alle Filippine e finite, con i figli piccoli, in una struttura destinata a ragazze che si sono ribellate ai giri di prostituzione. Doveva essere una sistemazione provvisoria, in attesa di trovare una soluzione adeguata come richiedenti asilo. Invece, dopo oltre un anno, sono ancora lì, praticamente abbandonate a se stesse. Disperate, in particolare, per la sorte dei loro bambini.

 

Sono esempi di una catastrofe umanitaria che attraversa ormai tutti i continenti, ma alla quale l’Europa e l’Italia continuano a “rispondere” con balbettii inconcludenti. Se ne è avuta prova anche nel recente vertice di Istanbul, prodigo di dichiarazioni di principio ma avaro di fatti, o nelle conclusioni della Commissione Europea, che è riuscita persino a peggiorare il Regolamento di Dublino, anziché dare indicazioni per superarlo e avviarsi a un sistema unico di accoglienza da applicare in tutti gli Stati Ue. La verità è che si vuole continuare la politica dei respingimenti. La prossima tappa sarà il Migration Compact, che sposta il “lavoro sporco” di bloccare i profughi sempre più a sud, magari oltre il Sahara e comunque il più lontano possibile dalla Fortezza Europa, affidandolo a pagamento anche a dittatori come Al Bashir in Sudan e Isaias Afewerki in Eritrea o Al Sisi in Egitto. Il Collegio dei commissari Ue lo dovrebbe approvare il 7 giugno, mentre il Consiglio Europeo ne discuterà il 28 e 29 luglio. E già si parla di finanziarlo con decine di miliardi. Perché il “lavoro sporco” costa caro.

 

 

 

Tratto da www.buongiornolatina.it