di Emilio Drudi
Giusto 25 anni fa, nel maggio del 1991, l’esercito di liberazione eritreo è entrato in Asmara, conquistando l’indipendenza dopo una lunga, sanguinosissima guerra. Una vittoria pagata con decine di migliaia di morti e sofferenze enormi. Sembrava però l’inizio di una nuova era: un segnale e una speranza di libertà per l’intero continente africano. E’ stato, invece, l’inizio della dittatura di Isaias Afewerki. E a quel sogno è subentrata una delusione profonda. «Certo, oggi l’Eritrea è indipendente, ma non ha alcuna libertà. E’ schiava: non è questa l’Eritrea per la quale ci siamo battuti», spiegano con amarezza molti esponenti della diaspora che hanno sacrificato la giovinezza intera combattendo quella guerra.
Il regime si prepara ora a grandi celebrazioni. Anzi, sembra intenzionato a fare del venticinquesimo anniversario dell’indipendenza l’occasione per “ripulirsi il volto”, cercando consensi e considerazione presso l’opinione pubblica internazionale. Ha ingaggiato, con questo obiettivo, un’autentica battaglia mediatica, mobilitando tutte le ambasciate e i consolati ma, soprattutto, irreggimentando gli eritrei della diaspora “fedeli” con un attivismo senza precedenti ed esercitando pesanti pressioni sui migranti che, per varie ragioni, sono costretti a mantenere rapporti con gli uffici consolari.
Il perché di questa mobilitazione appare evidente. La “molla” è la crescente attenzione internazionale per il Corno d’Africa. Su questa scia, negli ultimi anni
l’Unione Europea ha cominciato a rivedere la politica di isolamento nei confronti del
regime di Afewerki, chiudendo gli occhi di fronte ai suoi orrori, in favore di interessi
geostrategici o economici e, non ultimo, per bloccare comunque il flusso dei
profughi dalla regione, anche a costo di consegnarli nelle mani della dittatura e sia
pure con l’alibi di voler “aiutare gli africani in Africa”. Asmara ha così la massima
convenienza a presentarsi come uno Stato affidabile e sicuro o con il quale, in ogni
caso, si può “parlare e trattare”. Ed ecco, allora, “l’operazione credibilità” avviata da
Asmara presso l’opinione pubblica mondiale e, in particolare, presso quella europea.
“In sostanza – dice Siid Negash, esule in Italia, portavoce del Coordinamento Eritrea
Democratica – il regime cerca di rifarsi il trucco, usando una spessa maschera di
‘cerone legalitario’ per nascondere il suo vero volto, fatto di morte, galera, torture,
sofferenze. E di menzogne”.
Il punto, per il regime, è che questa maschera può essere facilmente strappata già in
partenza. A parte le denunce della diaspora, o i rapporti dell’Unhcr che parlano di
una media di 5 mila eritrei costretti a fuggire ogni mese, le relazioni annuali di
organizzazioni come Amnesty, Human Rights Watch e Reporter senza Frontiere che
da tempo raccontano cosa è diventata l’Eritrea sotto la dittatura, nel giugno del 2015
è stato presentato il pesantissimo rapporto della commissione d’inchiesta dell’Onu
sulla violazione dei diritti umani che parla, senza mezzi termini, di governo fondato
sulla paura e il terrore, di arresti in massa, omicidi mirati, sparizioni misteriose,
detenzione illegale di migliaia di persone a cui non è stato notificato alcun capo di imputazione, torture, carceri-lager, cancellazione di ogni forma di libertà, ordine alla
polizia di “sparare per uccidere” contro chiunque tenti di varcare la frontiera per
sottrarsi a questo inferno. Ecco: dopo un rapporto del genere, nessuno potrà più dire
di non sapere che cosa accade oggi in Eritrea. Non solo. La commissione è stata
incaricata dall’Assemblea dell’Onu di proseguire le indagini, per verificare se non ci
siano gli estremi per processare Isaias Afewerki e i suoi più stretti collaboratori per
crimini di lesa umanità. L’inchiesta è in corso e potrebbe concludersi entro
quest’anno.
Per il regime sarebbe un colpo durissimo se arrivasse una richiesta di giudizio di
fronte all’Alta Corte di Giustizia internazionale proprio mentre Asmara è in
fibrillazione per rifarsi un’immagine, in occasione del venticinquesimo anniversario
dell’indipendenza. E’ chiaro, allora, che in questo momento quel rapporto presentato
un anno fa e la Commissione che sta proseguendo le indagini sono, per la dittatura,
un “nemico assoluto”. Così si lavora per colpirlo e screditarlo, questo nemico.
Come? Con una finta “mobilitazione spontanea” degli eritrei della diaspora, pronti a
sostenere che le accuse dell’Onu non hanno fondamento e che in Eritrea non c’è
traccia di violazione dei diritti umani fondamentali. Ma, appunto, è una “finta
mobilitazione spontanea”. In una parola: falsa, perché – accusano le forze di
opposizione – non nasce autonomamente nella diaspora, come il regime vorrebbe far
credere, ma è pilotata attraverso le ambasciate. Lo ha rivelato Martin Plaut, un
giornalista esule in Europa, grazie alla collaborazione di altri rifugiati. Uno in
particolare, Samuel, che è riuscito a mettere le mani su un documento del Ministero
degli Esteri di Asmara, diffondendolo poi tramite face book.
Si tratta, in sostanza, di un ordine di servizio datato 12 aprile 2016 e indirizzato a
tutti gli uffici diplomatici eritrei nel mondo, dall’Europa all’Australia, dall’America
all’Asia e all’Africa, perché promuovano una capillare raccolta di firme, in 25 paesi
diversi, a partire dal 16 aprile, tra tutti gli eritrei che versano al regime la tassa del 2
per cento sul reddito guadagnato all’estero o, comunque, tra tutti coloro che hanno
rapporti con gli uffici consolari. «Per gli eritrei della diaspora questa non è una
semplice richiesta ma un obbligo», sottolinea Martin Plaut. «Chi non firma –
aggiunge – rischia di essere accusato come anti-patriottico». Con tutto quello che ne
consegue: la chiusura dei servizi consolari, il taglio netto di qualsiasi contatto con
l’Eritrea e anche possibili ritorsioni nei confronti dei familiari rimasti in patria. Non
solo. In certe realtà, come ad esempio il Sudan che proprio in questi giorni sta
attuando un intenso programma di respingimenti di massa, senza documenti ufficiali
(passaporto, visti, titoli di viaggio, ecc.) si rischia di essere rimpatriati di forza da un
giorno all’altro.
Gli oppositori del regime denunciano da tempo questo genere di manovra. Così come
segnalano che Asmara – magari promettendo contratti economici, possibilità di
investimenti lucrosi nel paese, blocco del flusso dei profughi – si è conquistata
diversi alleati e “amici” nel mondo occidentale: personaggi spesso importanti (a cominciare da Herman J. Cohen, un diplomatico americano, già segretario di Stato
per gli affari africani dal 1988 al 1993) che potrebbero sostenerla in questo tentativo
di “riconquistare credibilità”, screditando l’inchiesta dell’Onu. Ora, però, con il
documento trovato da Samuel e pubblicato da Martin Plaut, si ha la prova di questa
artificiosa ricerca del consenso e di cosa si nasconda in realtà dietro la “petizione
popolare” in corso, da presentare forse, nelle intenzioni del regime, proprio il giorno
dell’anniversario dell’indipendenza. E tra l’altro, secondo la diaspora, il principale
artefice di questa manovra pare sia Yemane Gebreab, direttore dell’Ufficio di
Presidenza e ministro dell’informazione, che è stato in Italia anche di recente, per
partecipare, a Roma, a una manifestazione del movimento giovanile del partito unico
e che, soprattutto, in vari ambienti diplomatici di Bruxelles e di Roma, è ritenuto
“l’uomo ideale” per succedere ad Afewerki, anche a breve scadenza.
“Siamo di fronte all’ennesimo tranello del regime – rileva Nebay Estifanos,
segretario del Coordinamento Eritrea Democratica – Ancora una volta l’Unione
Europea si trova di fronte a un bivio. Il nostro Coordinamento e gli altri comitati
unitari sorti in tutta Europa si propongono come soggetto politico alternativo al
regime. Sta a Bruxelles e alle varie cancellerie occidentali decidere con chi vogliono
confrontarsi: se vogliono ascoltare il nostro programma per una Eritrea finalmente
libera e aperta a tutti o se vogliono sostenere il regime che l’Eritrea l’ha devastata in
questi venticinque anni. E, in particolare, se vogliono credere alle manovre della
dittatura oppure al rapporto dell’Onu, che inchioda Afewerki e i suoi collaboratori a
pesantissime responsabilità. Lo scopriremo presto: basterà vedere se e come i
rappresentanti di Bruxelles e dei governi dei vari Stati dell’Unione parteciperanno
alle iniziative che la dittatura sta organizzando per l’anniversario dell’indipendenza”.