La puntata di Report andata in onda domenica 8 maggio, in gran parte dedicata alle migrazioni, è stata un’occasione mancata. Musiche a effetto, tono concitato dello speaker che illustrava sulle mappe il procedere dei flussi dall’Africa all’Italia, alternarsi di allarmismo per la “povera Italia” e stereotipi di ogni tipo, semplificazioni della realtà, indignazione per l’egoismo degli Stati europei e per gli scandali nostrani. Al di là delle buone intenzioni, sono andati in onda solo frammenti, privi di una visione di insieme e di un giudizio maturato su un’approfondita conoscenza dei fatti. Si è parlato dei migranti che si sottraggono al prelievo delle impronte senza spiegare che cercano semplicemente di non restare inchiodati da norme che limitano o impediscono il movimento interno in Europa, come il Regolamento Dublino. Si è parlato di chi si sposta come di una statistica, di una preoccupazione di ordine pubblico, di un oggetto di analisi, raramente come di una persona con una propria storia e prospettiva di vita. Nessuno spazio per i tanti morti in mare, per il (mancato) ruolo delle missioni europee Frontex, per l’esternalizzazione dei controlli di frontiera e per la necessità di corridoi umanitari.
La figura del richiedente asilo ne è uscita sostanzialmente travisata, una persona la cui esistenza è visibile per sei mesi – il tempo necessario, secondo le autorità dei vari Stati, per un’assimilazione al termine di un percorso di accoglienza che si ipotizza in astratto – dopo il quali sparisce pressoché nel nulla, perfettamente integrato. Non una parola per ricordare che dopo lo sbarco sono necessari fino a cinque mesi per compilare la richiesta di asilo con il modello C 3.
Report ha voluto prendere di tutto un poco, una cosa e il suo contrario, proponendo però una soluzione italiana alla “crisi” dell’accoglienza, per la quale ha addirittura chiesto la legittimazione del commissario europeo Avramopoulos: una soluzione estemporanea e impraticabile nell’immediato, che si basa sull’utilizzo delle caserme dismesse trasformate in centri di accoglienza, sulla ghettizzazione dei richiedenti asilo e su una gestione statale mastodontica finanziata dall’Unione europea in cambio di una promessa di ricollocazione dei richiedenti asilo (quanto risibile per numeri e per volontà degli Stati membri è chiaro già da qualche mese). All’interno del sistema-caserma ci sarebbero corsi di lingua, di educazione sociale e altre opportunità che darebbero lavoro agli italiani, i quali, di conseguenza, dovrebbero vedere i migranti non più come “invasori” ma come “opportunità”. Quelli “doc”, s’intende, perché gli altri – i migranti economici – vanno rimpatriati, su questo la trasmissione non ha dubbi, così come non ha dubbi sull’identificazione a tutti i costi, magari già sulle navi che effettuano soccorso in mare, trasformate negli “hotspot galleggianti”, proposti da Alfano e benedetti da Avramopoulos. La soluzione prospettata da Report, novello apprendista stregone della migrazione, è in fondo esattamente ciò che vorrebbe la politica dell’Unione: un’esternalizzazione dei confini e del respingimento che lasci il carico dell’accoglienza e dei rimpatri ai paesi al di là del Mediterraneo o, alla peggio, a quelli in default dell’Unione, Grecia e Italia, destinati a divenire immensi campi profughi, cordone sanitario per il nord Europa in cambio di qualche denaro. Uno scenario che, contrariamente alle promesse di analisi e approfondimento di una trasmissione di inchiesta, lascia lo spettatore più confuso e allarmato di prima.
Nel marasma di informazioni, ricostruzioni, dati che non coincidono e si smentiscono fra loro, spiccano quelli forniti dai vertici militari della missione EUNAVFOR MED, secondo cui il numero potenziale di migranti che potrebbero arrivare in Italia oscilla fra i 150 e i 500 mila, un numero passibile di arrivare al milione, se saltasse l’accordo con la Turchia. Cifre lontane non solo dalle previsioni delle più autorevoli agenzie internazionali, ma persino dalle proiezioni di Frontex per il 2016.
Pur riconoscendo i meriti di alcune prese di posizione di Report, proviamo a ragionare su quanto si sarebbe potuto dire. Crediamo che nel farlo si renda un buon servizio a chi cura una delle poche trasmissioni di informazione affidabili presenti nel palinsesto pubblico.
Anzitutto siamo di fronte al più grande spostamento di individui affrontato nel mondo, in cui solo una piccola percentuale giunge in Europa. I profughi presenti in Libano, grande poco meno dell’Abruzzo, sono più di quelli presenti nell’intero continente europeo. E l’Italia non è il paese più esposto. Lo sono invece la Grecia, in rapporto al numero degli abitanti, e la Germania in rapporto al numero di richiedenti asilo: almeno dieci volte quelli presenti in Italia.
In secondo luogo abbiamo assistito a una ricostruzione schematica dei conflitti mediorientali. Non si è detto, ad esempio, che in Siria non si fugge solo dall’Isis e da Assad, ma anche dall’assenza di prospettive indotta dalla spartizione in corso di Siria e Iraq – due paesi fondamentali per gli equilibri strategici mondiali – in zone di influenza geopolitica. Si è poi sostenuto che l’UE avrebbe deciso di stipulare l’accordo con la Turchia dopo aver visto il funzionamento democratico di campi come quello di Nisip, mostrati all’Occidente come “campo a cinque stelle”, benché nello stesso servizio si sia detto che solo il 10% dei richiedenti asilo registrati (quindi non tutti) sono in tali strutture, gli altri si trovano nei luoghi peggiori e più isolati della Turchia. Report ha ben illustrato l’assenza di spazi democratici in Turchia, l’attacco all’informazione e al dissenso, ma ha finito col dire che da giugno i turchi potrebbero entrare in Europa senza visto e che questo faciliterebbe l’ingresso di kurdi e miliziani dell’Isis, mettendo due progetti politici radicalmente diversi, anzi alternativi, sullo stesso piano e di fatto indicando allo spettatore tutti i migranti come soggetti potenzialmente pericolosi per la sua sicurezza.
La trasmissione lancia poi l’allarme sulla situazione in Albania come prossimo paese “ponte” per arrivare in Italia, nel caso la Turchia non dovesse fermare più i profughi. Come se salpare da Durazzo per Bari fosse di colpo possibile per i milioni di profughi intrappolati in Turchia e in Grecia, dopo la chiusura delle frontiere serbe, macedoni e bulgare. Ma anche la frontiera albanese è ben serrata. La retorica dell’allarmismo scelta dai media mette l’Italia sempre al centro, mentre basterebbe un’analisi dei fatti per mostrare che sono davvero pochi i profughi intenzionati a puntare sull’Italia, o che comunque riuscirebbero ad arrivarci attraversando l’Adriatico.
«Dove tiriamo il filo spinato?» si chiede a un certo punto un alto ufficiale della marina italiana. «Impossibile», ammette. Come impossibile è pensare a una Guardia costiera e di frontiera europea che fermi tutti ai confini. Ma anziché ragionare su alternative umane e praticabili, si comunica una situazione di pericolo imminente, funzionale al clima di permanente campagna elettorale inaugurato dalle forze politiche che dall’allarme sociale hanno tutto da guadagnare.
Per quanto paradossale, è passato ancora una volta il concetto-guida delle “frontiere da difendere” poco importa che i paletti delle recinzioni dovrebbero essere conficcati nell’acqua. Il pericolo di un afflusso massiccio di migranti sarebbe alleviato dalla missione Sophia (nome leggiadro con cui è stata rinominata la missione militare europea EUNAVFOR MED) che viene presentata come strumento per arrestare gli “scafisti” e salvare vite umane, mentre è in realtà un progetto europeo di contrasto all’“immigrazione irregolare” (cfr. Frontex) che talvolta si ritrova anche a dover salvare vite umane – quando la Marina italiana, o meglio il Corpo della Guardia Costiera, lancia una operazione di ricerca e salvataggio (SAR).
Si è taciuto il ritiro sostanziale della missione TRITON di Frontex, nata come versione europea della missione italiana Mare nostrum, e non si è nemmeno lontanamente fatto cenno al fatto che solo gli interventi delle navi umanitarie – attualmente quattro, di Medici Senza Frontiere, SOS Mediterranee e Sea Watch – coprano i buchi lasciati dalle navi europee che sono state ritirate, o destinate ad altri usi, come quello di hotspot galleggiante.
La trasmissione ha di fatto riproposto un’impostazione di fondo assai vicina a quella del commissario europeo all’immigrazione Avramopoulos, fatta propria negli ultimi mesi dal governo Renzi con il “Migration compact”: come identificare e separare i richiedenti asilo dai migranti economici da rispedire a casa? Le identificazioni sulle navi che effettuano i soccorsi, prese favorevolmente in considerazione, presentano difficoltà non per le condizioni fisiche e psicologiche dei naufraghi ma per l’allungamento dei tempi della permanenza in mare: problemi tecnici, difficoltà procedurali… ma ci si sta pensando. Nessun riferimento all’assenza di qualsiasi base legale per procedure come quelle prospettate, peraltro già in atto sulle navi militari sulle quali si concentrano i migranti dopo i primi interventi nelle azioni di soccorso.
Report ha poi fatto ampio ricorso a semplificazioni numeriche rispetto alle cause delle fughe dai Paesi terzi, rappresentate nel modo più banale. Ad esempio, se si parla di Africa Sub Sahriana, occorre dire che in Nigeria non c’è solo il problema “BokoHaram” (peraltro ora indebolito) ma altri quattro conflitti interni; lo stesso vale per il Sud Sudan, da cui in Italia giungono solo poche persone (ma anche 2000 evidentemente sembrano tantissime). Per la Somalia non si può parlare solo di fuga da Al Shabab, ma da uno Stato che ancora non si ricostruisce, così come in Yemen il problema non è costituito solo dal terrorismo, ma anche dai bombardamenti sauditi con armi italiane (anche qui, 2000 arrivi previsti). In Congo è lecito parlare semplicemente di guerre “etniche”, e non di guerre per il controllo del coltan? Dall’Eritrea, si è detto nella trasmissione, scappano 5000 persone ogni mese per terrorismo e dittatura: il terrorismo non c’è, la dittatura sì, e non trova contrasto in UE. E’ pure sfuggita la recente notizia che il Kenia e il Sudan hanno avviato programmi di rimpatrio di persone che avevano già ottenuto uno status di protezione in base alla convenzione di Ginevra, dunque dall’UNHCR, e che adesso, per effetto di nuovi accordi bilaterali, vengono riconsegnate ai loro paesi di origine, dove li aspettano carcere e tortura.
Il racconto del “sogno svedese” appare fin troppo generoso. In realtà non è più così, e se è vero che in Svezia i tempi e le modalità di fuoriuscita dai circuiti di assistenza sono rapidi ed efficienti, è anche vero che la Svezia oggi respinge avvalendosi del Regolamento Dublino e – al pari degli altri Stati europei – seleziona i lavoratori che vuole tenere, rifiutando gli altri. Il governo svedese ha annunciato di voler procedere al rimpatrio di 80.000 richiedenti asilo a cui è stata rifiutata protezione: anche questo dato assai importante sembra essere sfuggito alla ricostruzione fatta da Report.
Si denuncia giustamente l’egoismo di molti Stati membri dell’UE, omettendo che – a parte lievi sanzioni pecuniarie tuttora da definire – non c’è alcun obbligo ad accogliere, o a prendere le persone alle quali è stata promessa la cosiddetta “relocation” (peraltro solo se provengono da alcuni paesi: Siria, Iraq ed Eritrea). E tutti gli altri? Tutti clandestini da abbandonare nelle mani di trafficanti e sfruttatori? Si glorifica la Germania perché mette a disposizione spazi dismessi, aeroporti, scuole, caserme, dove si impara a divenire tedeschi e si interiorizza la “democrazia tedesca”, omettendo il fatto che in pochi anni la Germania avrà un bisogno estremo di questi cittadini, inseriti in nicchie economiche non di basso livello, per coprire l’assenza di unità produttive autoctone. Non si dice che del milione e duecentomila persone entrate lo scorso anno in Germania, meno della metà hanno presentato una richiesta di asilo in quel paese: tutti gli altri sono poi transitati verso altri paesi europei, innescando quella reazione a catena di ripristino dei controlli di frontiera che sta portando alla progressiva disattivazione del sistema Schengen.
Dalla trasmissione è emerso come anche la Germania voglia ora controllare i confini (i siriani sono già entrati) e restringere Schengen, anche a costo di chiudere la frontiera austriaca, amplificando l’effetto domino, e al tempo stesso introdurre nuove restrizioni per la concessione dell’asilo. Qui l’analisi è più accurata, ma poco ci vuole a trasmettere allo spettatore italiano, in un paese che non ha mai accolto tanti richiedenti asilo come la Germania, l’idea che è tempo di chiudere la porta in faccia non solo ai migranti “economici” ma anche ai richiedenti asilo.
Passando alla parte della trasmissione dedicata alla Sicilia, è emersa la critica alla logica dell’affidamento diretto della gestione dei centri. Si è omesso però di dire che l’emergenzialità – già paventata dal sottosegretario Manzione come inevitabile – è da sempre la regola in cui poco o nulla contano le condizioni degli ospiti e i contratti degli operatori. Si è denunciato che il gestore di un centro è parente di una persona indagata per corruzione, concorso esterno in associazione mafiosa o altro: importante farlo, ma perché non spendere una parola sul fatto che i centri di cui si parla (CAS) non hanno alcun controllo nella gestione economica, e sono di fatto soggetti al controllo delle prefetture, che ne dovrebbero curare monitoraggio e rendicontazione, piuttosto che essere del tutto chiuse alle richieste della società civile quando vuole accedervi o esaminare la copia delle convenzioni? Convenzioni che, malgrado le inchieste giudiziarie, vengono stipulate, nella maggior parte dei casi, con i “soliti noti”.
Quanto al servizio sul CARA di Mineo (che sarebbe sul punto di essere trasformato parte in hub e parte in hotspot), si ammette come un fatto ineluttabile che, nonostante si sia scoperto il malaffare nella sua gestione con esponenti romani di spicco in carcere, nulla sia cambiato nel governo del megacentro nel calatino.
Esaminiamo ora più da vicino le proposte, in primis l’utilizzo di locali dismessi (con richiamo alla Germania) come caserme, stabili sottratti alla mafia, ospedali e scuole chiuse. Centri di prima accoglienza in cui fare corsi di lingua, non solo italiano, e di regole democratiche europee, nonché di formazione professionale per poi poter ricollocare in Europa asilanti formati e identificati, ovvero merce di lusso. I dubbi sulla praticabilità di questo progetto e, soprattutto, sul fatto che potrebbe servire a legittimare nuovi ghetti dove ammassare richiedenti asilo, al di là delle buone intenzioni della redazione di Report, rimangono assai forti.
Ritornando alla frontiera orientale, si lascia la parola al prefetto di Gorizia, dott. Zappalorto, che non fa certo una bella figura quando afferma che sarebbe inutile ristrutturare stabili in cui le persone restano per poche settimane. Peccato che invece ci restino per molti mesi, e che dopo di loro ne arrivino altre, e peccato che nell’economia della trasmissione non si trovi il tempo di dire che le modalità con cui si esaminano le pratiche dei richiedenti asilo bloccano uomini e donne per almeno due anni in un limbo, aggravato dal numero crescente di dinieghi frapposti dalle Commissioni territoriali, a cui seguono attese interminabili, anche di anni, per i ricorsi giudiziari.
Forse il punto più condivisibile del servizio si raggiunge quando si propone la gestione pubblica dell’accoglienza, ma anche qui emergono subito grosse contraddizioni: Domenico Manzione, sottosegretario con delega all’immigrazione del Ministero dell’Interno, risponde che sarebbe una soluzione positiva ma che non ci sono le risorse; il commissario UE all’immigrazione Avramopoulus dice che di fronte a un piano italiano completo i soldi ci sarebbero. Forse i due si parlano poco, o forse Avramopoulos non conosce, o finge di non conoscere, la reale situazione della maggior parte dei centri di accoglienza italiani. Report propone ricostruzioni al computer, immagina come potrebbero essere questi centri, ospitati in strutture dello Stato, dotati di spazi per vivere dignitosamente e per imparare la democrazia e la cultura europea, la parità fra uomini e donne, il divieto di far violenza ai bambini (insegnamento imbarazzante, visti i continui fatti di cronaca che vedono come protagonisti cittadini europei nati e cresciuti in questa cultura). Si immaginano pannelli fotovoltaici che diventano produttivi anche per il vicinato, centri capaci di contenere da 300 a 1000 persone, con tutti i servizi garantiti per sei mesi di formazione. Al di là dell’effetto ghetto, ci si chiede: ma dopo? Come può funzionare una seconda fase di accoglienza – credibilmente ancora necessaria, pur dopo miracoli – per un inserimento reale e non subalterno? Con la ricollocazione in un altro paese? Difficile capirlo.
Report fa il conto di come si potrebbero ospitare degnamente anche 200 mila persone, cosa buona e giusta, e fa presente che la spesa – qualche miliardo di euro, in parte coperto dall’UE – riconsegnerebbe alla collettività spazi restaurati utili per tutti, la qual cosa diminuirebbe i conflitti sociali. Siamo contrari alla concentrazione di persone in grossi spazi, ma se a una prima fase “breve ed iniziale” del modello-caserma seguisse una fase più lunga e stabile dell’accoglienza in appartamenti con responsabilizzazione anche economica degli ospiti, si partirebbe almeno da un discorso con qualche prospettiva di superamento della logica perennemente emergenziale.
Ai microfoni di Report, il commissario Avramoupolos si dichiara pronto ad accettare i suggerimenti della società civile. Peccato che nel suo operato – dalle scelte operate per la Turchia ai non menzionati passi avanti fatti con i processi di Khartoum e di Rabat, veri e propri favori elargiti alle dittature africane soltanto per fingere di fermare le partenze verso l’Europa – non si noti alcuna coerenza rispetto a tali affermazioni.
Verso la fine, la trasmissione punta l’attenzione sui migranti economici da rimpatriare. Ci si rende conto dei costi, delle difficoltà e della palese assurdità derivante dal fatto che a chi è considerato “non degno di protezione” si chieda di lasciare il paese con i propri mezzi (quali?) e con documenti (di cui è sprovvisto) o altrimenti con costosi trasferimenti attraverso accordi di riammissione e transito in qualche CIE. Per gli autori della trasmissione, il 60% di coloro che arrivano in Italia sono migranti “economici”. Peccato che dopo il ricorso contro un primo diniego adottato dalla commissione territoriale che decide sul diritto d’asilo, la percentuale si assottigli sensibilmente e che molti siano costretti anche a ricorrere ai diversi gradi di giudizio, semplicemente perché a casa non possono rientrare. Ma spesso in Italia non vogliono restare. In questo modo si sono creati comunque, secondo i dati di Report, almeno 20 mila migranti irregolari che possono finire in circuiti di sfruttamento o di criminalità. In realtà, a fronte della valanga di dinieghi che stanno notificando le Commissioni territoriali, i richiedenti asilo che perderanno il permesso di soggiorno provvisorio, se non faranno ricorso, potrebbero essere molti di più, anche il doppio. Sul che fare sembra non ci sia soluzione di sorta. Una ce ne sarebbe ma non è esplorata: regolarizzarli con un permesso europeo per ricerca di occupazione da proporre all’UE.
Da ultimo, si richiama la necessità di investire nei paesi poveri. Insomma, si ritorna alla tradizionale soluzione dell’“aiutiamoli a casa loro”. Ma da quanti secoli l’Europa resta convinta di poter mantenere i propri standard di vita sulla base dello sfruttamento intensivo, ora sostenuto anche da certa cooperazione, che impedisce ad altri paesi di rendersi economicamente autosufficienti?
In conclusione, una proposta alla redazione di Report: perché non dedicare servizi brevi, anche di dieci minuti, uno a settimana, ai temi non risolti o male affrontati per l’impossibilità di contenere tutto in una sola puntata? Semplici flash di realtà per dire semplicemente, oltre ogni retorica allarmistica o rassicurante, che i problemi esistono ma che esistono anche soluzioni, che vanno cercate alla radice. E che proprio su questa radice si potrebbe fondare una nuova idea di Europa, in cui chi bussa non sia visto solo come un pericolo o una risorsa da sfruttare, ma come un elemento di rilancio con cui ricostruire un continente che di vecchiaia e di visioni deboli rischia morire.