Provando a cercare in rete il documento denominato Migration compact, con il quale il presidente del Consiglio Matteo Renzi propone all’Unione europea un patto per il governo della cosiddetta emergenza immigrazione, fino a ieri si trovava il testo integrale, in inglese. Poi il testo è sparito. Per l’intera mattina, compulsando l’home page del Governo si apriva un file con la scritta “pagina non trovata”. Restavano i commenti e gli articoli correlati, fra i quali spiccava il messaggio della Commissaria europea agli Affari esteri Federica Mogherini, che lodava il lavoro del governo italiano. E ci mancherebbe, visto che l’autore del testo risultava essere, nelle proprietà del file, un collaboratore della stessa Mogherini (come da documento salvato in data 16 aprile, ore 12.58′ 22”). Più tardi però il testo riappariva, questa volta senza riferimenti all’autore, la cui identità risultava rimossa dalle proprietà del file il 18 aprile alle ore 19.27’41”. Rendiamo intanto il testo disponibile in versione integrale e tradotto in italiano come a nostro avviso utile strumento.
A quanto pare, l’Alto Commissariato dell’Unione avrebbe elaborato il testo che il governo italiano ha presentato come proprio e che ricalca indicazioni già avanzate dalla Commissione europea, accolte nelle parti più regressive del Rapporto su Mediterraneo e migrazioni, redatto dalle correlatrici Cécile Kyenge e Roberta Metsola, rispettivamente per il gruppo S&D (Italia) e PPE (Malta) e approvato a maggioranza dal Parlamento europeo il 12 aprile in seduta plenaria. Il Presidente del Consiglio risulterebbe dunque essere un mero esecutore di ordini, non diversamente dal premier greco Alexis Tsipras, ma con ben altra tracotanza.
Mentre piangiamo l’ennesima strage che si è consumata al largo delle coste libiche e non egiziane come sembrava in un primo momento – ancora centinaia di morti, in gran parte cittadini somali, di cui si è appreso qualcosa proprio nello stesso giorno in cui commemoravamo l’anniversario dell’immensa tragedia avvenuta lo scorso 18 aprile, nelle stesse acque – vorremmo decifrare le fondamenta di questo piano. Già l’assonanza, voluta o inconscia, con il “fiscal compact” è indicativa di un conto che cancella gli esseri umani: un patto di stabilità concepito per governare le vite di chi fugge da guerre e devastazioni tramite una forte limitazione degli accessi e una semplificazione delle procedure di rimpatrio o di riammissione nei Paesi di transito.
In un’analisi approssimativa e fuorviante dei flussi sulla rotta del Mediterraneo occidentale (lungo la quale giungerebbero prevalentemente “migranti economici”), nel testo si afferma che l’Unione deve essere pronta ad affrontare l’aprirsi di nuove rotte, per esempio a nord-est. Si tratta di un vero e proprio richiamo all’innalzamento delle mura della Fortezza Europa che, con l’introduzione di una Guardia di frontiera europea governata da Frontex, si allontanerà ancora di più dal modello storico dello stato di diritto. La nuova agenzia UE godrà infatti di maggiori finanziamenti e poteri, sarà impermeabile a qualsiasi forma di controllo democratico esercitato dal Parlamento europeo e dalla società civile, governerà luoghi di trattenimento amministrativo (tra cui i cosiddetti hotspot) e deciderà su misure di allontanamento forzato che potrebbero cancellare il diritto di asilo e i diritti di difesa.
Il documento reitera e appoggia le iniziative già proposte dalla Commissione europea: un Ufficio Rimpatri interno al nuovo corpo di Guardia di frontiera; l’accordo tra Unione Europea e Turchia; la realizzazione del Processo di Khartoum lanciato da Renzi nel solco del Processo di Rabat, durante il semestre italiano di presidenza dell’Unione (un percorso politico che garantirebbe agli Stati membri dell’Unione la possibilità di collaborare con le peggiori dittature in cambio dell’esternalizzazione dei controlli di frontiera, del blocco delle partenze e della semplificazione delle operazioni di respingimento); il “Piano d’azione” fra UE e Unione Africana proposto (ma non decollato) durante il vertice dello scorso novembre a La Valletta; la partecipazione dei Paesi terzi (come Turchia ed Egitto) a operazioni di ricerca e soccorso in mare condotte dall’agenzia di controllo delle frontiere marittime dell’Unione europea facente capo a Frontex; l’ampliamento del ruolo di Eunavfor Med in Libia, ridefinita Operazione Sophia, che prevede – semmai interverrà una deliberazione dell’ONU o una richiesta del governo libico riconosciuto – una collaborazione di polizia nella lotta contro il terrorismo e per il controllo dei flussi migratori (le due cose mischiate, quasi che la contiguità fra terrorismo e migrazione fosse un dato di fatto).
Benché sia rilevante il riferimento ad alcuni capitoli dell’Accordo di Cotounu, quello che si vorrebbe applicare con il Migrant compact è il “modello turco“, figlio del “modello italo-libico” di berlusconiana memoria, che prevede denaro in cambio del blocco dei flussi (more for more, less for less) e che, secondo Renzi (o chi per esso) andrebbe reso operativo anche nei Paesi di transito e nei Paesi d’origine africani, avendo l’UE come referente.
Secondo il documento firmato dal presidente del Consiglio italiano, i costi per la gestione della cosiddetta emergenza migranti – che si suppongono consistenti, includendo corpi poliziesco-militari ed elargizioni ai Paesi terzi compiacenti – non dovrebbero rientrare nel Patto di stabilità cui i singoli Stati membri sono obbligati a sottostare. Da qui l’idea di proporre gli Eurobond per finanziare le attività previste dal piano. Il “Patto per la migrazione” renziano passa poi a elencare i termini di quella che dovrebbe essere la nuova politica esterna dell’Unione: dare e avere – in una partita doppia, da ragionieri – tra UE e Paesi terzi.
Cosa può offrire l’Unione europea ai Paesi terzi? (paragrafo 3.1 del Migrant compact)
La lista delle richieste rivolte all’Unione europea è lunga e comprende iniziative che per concretizzarsi presupporrebbero una disponibilità finanziaria e una coesione politica che oggi appaiono soltanto un miraggio. In particolare, si prevedono progetti di investimento ad alto impatto sociale e infrastrutturale da individuare con ogni Paese partner di transito o di origine, e un rafforzamento della programmazione degli strumenti finanziari, da riorientare definendo un nuovo Fondo europeo per gli investimenti nei Paesi terzi. Il carico finanziario di questi progetti dovrebbe essere condiviso dall’Unione europea con gli Stati membri. L’idea è quella di “obbligazioni” (bond) UE-Africa, per rendere più facile l’accesso ai mercati dei capitali in una prospettiva di medio e lungo termine e – a seguire – garantire la disponibilità dei capitali necessari per la crescita e le iniziative di finanziamento innovative, facilitando le rimesse degli immigrati e il loro reinvestimento. Su quelli che vengono definiti “bond euro-africani”, la Germania ha già espresso molte riserve, non volendo ritrovarsi con crediti insolvibili. Per reperire i fondi necessari, Angela Merkel propone invece una nuova tassazione sui carburanti: un’ennesima sfida ai peggiori sentimenti della popolazione europea, attanagliata dalla crisi economica.
Nel Migration Compact si chiede che, parallelamente agli aiuti economici per lo sviluppo, cresca la cooperazione in materia di sicurezza e integrazione delle migrazioni: confini e loro controllo, dogane, giustizia penale, gestione della migrazione nei Paesi di transito in linea con gli standard internazionali. Le opportunità di migrazione legale appaiono più orientate a selezionare le partenze in accordo con le possibilità di impiego in Europa, che non alla realizzazione di una vera mobilità per lavoro: i visti sarebbero infatti limitati alle figure professionali più alte, con l’esclusione della maggior parte dei potenziali “migranti economici”. Per poter accedere al mercato del lavoro si prevede l’apprendimento della lingua, la formazione professionale, la verifica delle aziende disponibili all’assunzione, l’incontro in loco fra domanda e offerta, l’allargamento per integrazione dei progetti Erasmus per studenti e ricercatori.
Da ultimo, come compensazione per l’onere della creazione di sistemi nazionali di asilo in linea con gli standard internazionali, si chiede ai Paesi terzi di favorire una migrazione circolare anche “Sud-Sud” e progetti di reinsediamento. Si apre così la strada per il finanziamento della costruzione e della gestione di centri di accoglienza nei Paesi di transito, dove i cosiddetti migranti illegali – a seconda della legislazione di ciascun Paese e delle propensioni democratiche o dittatoriali dei suoi governi – sarebbero confinati a tempo indeterminato, in attesa di una sempre più improbabile operazione di rimpatrio. Il reinsediamento dei richiedenti asilo appare infatti solo come titolo, nel Migrant compact renziano, ma non è seguito da alcun progetto di fattibilità.
L’Europa, partendo dalle missioni PSDC (Politica di Sicurezza e Difesa Comuni) –come EUBAM Libia, e nel resto dell’Africa sia nel Sahel sia nel Corno D’Africa – potrebbe definire una sorta di raggruppamento generale di missioni che tengano conto del carattere prettamente transfrontaliero dei processi migratori e che garantiscano una maggiore tenuta dei confini meridionali degli stati, soprattutto della Libia, che si affacciano sul Mediterraneo. Sulla scorta del modello già sperimentato con la Turchia di Erdogan – e già in crisi, come si ricava dalle minacciose provocazioni del governo turco – ai Paesi terzi disposti a garantire tali standard di controllo del territorio e delle partenze dei migranti, verrebbe offerto a titolo di incentivo, oltre ai piani di sviluppo “concordati”, la possibilità di includere quote di ingresso legali in Europa per i propri lavoratori.
Cosa può chiedere l’Unione europea ai Paesi terzi? (paragarafo 3.2 del Migrant compact)
Il perno del Patto – lo abbiamo visto – è un maggiore impegno da parte dei Paesi terzi di origine e di transito nel controllo delle frontiere, con conseguente riduzione dei flussi verso l’Europa. In cambio di finanziamenti e attrezzature necessarie (anche di carattere militare?), questi dovrebbero impegnarsi nelle attività di ricerca e soccorso cui oggi provvede (o dice di provvedere) l’Europa. La Guardia di frontiera europea dovrebbe cooperare strettamente con le forze di polizia dei governi coinvolti (come quello turco o egiziano, di cui apprendiamo quotidianamente le attività di repressione interna) per i rimpatri e le riammissioni nei Paesi di transito, con accordi operativi e presenza di ufficiali di collegamento UE nei Paesi terzi, e viceversa, in modo da accelerare l’identificazione e il rilascio di titoli di viaggio. L’Unione Europea dovrebbe a tal proposito finanziare i distacchi del personale di polizia e i programmi di reinsediamento per i rimpatriati, a condizione che il Paese terzo accetti i rimpatri anche tramite voli charter organizzati dai singoli Stati membri o dalla Guardia di frontiera europea.
I Paesi terzi dovrebbero infine essere sostenuti per l’istituzione di un sistema di ricezione e gestione dei flussi migratori (infrastrutture e logistica) con esame in loco dei rifugiati e migranti economici, quindi con misure di trasferimento in Europa per una parte di coloro che chiedono asilo. Per chi invece non ottiene o non chiede il riconoscimento del diritto di asilo o protezione internazionale, nelle due forme di sussidiaria o umanitaria, si profilano regole più severe per dare effettività alle operazioni di rimpatrio o di respingimento differito con accompagnamento forzato. Nel Patto presentato dal governo italiano non è peraltro chiaro se “l’attento esame nei Paesi di transito dei potenziali rifugiati e dei migranti economici” dovrebbe avvenire in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 o secondo la normativa europea in materia di protezione internazionale.
OIM e UNHCR dovrebbero essere utilizzati per aiutare i Paesi terzi di origine e di transito a realizzare i centri di accoglienza finanziati dall’UE. Facile prevedere che l’esito sarà quello del disastroso campo di Choucha in Tunisia, vicino al confine con la Libia, aperto nel 2011 e chiuso dopo anni, senza che le persone accolte – o per meglio dire tenute prigioniere – fossero riuscite ad avere riconosciuto uno status legale in Tunisia. Il Migrant compact propone l’istituzione di ulteriori strutture di contenimento nei Paesi africani disponibili a cooperare. I Paesi terzi dovrebbero di fatto accettare operazioni di polizia congiunte e attività di cooperazione giudiziaria nei propri territori per combattere la tratta e il traffico di esseri umani.
I Paesi terzi dovrebbero accettare rimpatri anche tramite voli charter organizzati dai singoli Stati membri o dalla Guardia di Frontiera europea, alla quale verrebbe affidato il compito di sviluppare un piano per i rimpatri dai Paesi terzi di transito a quelli di origine che abbiano messo in atto politiche di riammissione ritenute soddisfacenti dall’Unione, da finanziare con il bilancio UE. In tale contesto andrà mantenuta la presenza costante di polizia europea nella fascia sahariana, con l’obiettivo di addestrare, equipaggiare, fornire assistenza e cooperazione in materia di sicurezza (controllo delle frontiere, lotta al terrorismo, contrasto di criminalità organizzata, traffico di droga e traffico di esseri umani) sviluppando nel contempo azioni di prevenzione.
Non solo questi “aiuti” sono talmente dubbi da far sembrare truccato l’espediente contabile della partita doppia – fatta salva una quantità di denaro e di mezzi elargiti a governi più o meno democratici – ma appaiono in contrasto frontale con la realtà dei fatti, perché non tengono conto della situazione disgregata di diversi Paesi e in particolare della Libia, dove lo scontro tra le fazioni tribali sta agevolando la risalita e la diffusione di Daesh.
Non si possono prevedere gli sviluppi di un’analisi basata su un fondamentale errore di valutazione, né le conseguenze dell’istituzione di centri di accoglienza nei Paesi terzi: quali potrebbero essere, in questo contesto, le scelte politiche e amministrative che dovrebbero essere sempre adottate “nel superiore interesse del minore”, come previsto dalla Convenzione di New York del 1989? Quale trattamento sarebbe riservato alle persone in particolari condizioni di vulnerabilità o alle vittime di tratta? Nel documento firmato da Matteo Renzi, tutto si risolve in un auspicio di maggiore collaborazione tra le forze di polizia: non c’è una sola parola sull’esigenza inderogabile di protezione delle vittime, anche indipendentemente dal loro coinvolgimento in indagini penali.
Libia
Nel Migration Compact, che – anche alla luce della fonte che lo propone – appare strategico per l’Italia, si reitera l’impegno di stabilizzare la Libia in quanto paese di transito della maggior parte dei migranti che riescono ad arrivare in Italia. Renzi e i suoi ministri vogliono intensificare la collaborazione con il governo insediato recentemente, ma ancora confinato in una base militare navale alle porte di Tripoli. Il primo obiettivo è il rafforzamento delle capacità libiche di controllo del territorio. Obiettivo che non appare raggiungibile al di fuori di una soluzione politica del conflitto, e tantomeno tramite il “miglior uso possibile di Eunavfor Med per distruggere il business dei trafficanti in Libia”, come previsto nel quadro del Migrant compact. Sta di fatto che, per una curiosa coincidenza, il 18 aprile l’operazione ha mosso il passo decisivo per il suo ingresso nelle acque libiche.
Secondo il documento, inoltre, in prospettiva andrà formata una Guardia costiera libica, ma è del tutto evidente che prima sarà necessario che si confermi l’esistenza di uno stato libico unitario sotto un unico governo, o che si prenda atto della sostanziale scissione del territorio libico in tre stati, fatto che comporterà inevitabili conseguenze nella composizione della Guardia costiera. Per Renzi (e per la Mogherini) sembra invece che in tempi brevi l’UE debba intervenire in Libia per sostenere il settore della sicurezza e della giustizia penale, concentrando gli sforzi sulla gestione delle frontiere, anche attraverso la selezione dei rifugiati e dei migranti economici.
Conclusioni
Le misure operative contenute nel Migration Compact sono del tutto prive di richiami a basi legali, interne o europee, e costituiscono una conferma della dilatazione dei poteri degli esecutivi a scapito dei parlamenti e della giurisdizione. Con una semplificazione impressionante, si vorrebbero esportare in Libia le misure adottate su base convenzionale in Turchia per adottarle poi nei paesi del Sahel e in quelli sub-sahariani, una volta catalogati come “Paesi terzi sicuri”. Ma non sempre è possibile identificare un “Paese terzo sicuro” verso il quale respingere o espellere migranti irregolari. Lo confermano la tormentata giurisprudenza interna e le pronunce della Corte europea dei Diritti dell’Uomo. La proposta del governo italiano si configura come un piano di polizia a uso e consumo interno – non privo di ricadute elettorali – destinato al fallimento perché impraticabile, se paragonato alle cause scatenanti delle migrazioni odierne, di cui non si fa minimamente menzione. Ma al tempo stesso potrà essere usato come un avallo democratico di cui Commissione e Consiglio potranno fregiarsi, assieme al voto del Parlamento sul Rapporto migrazione, servito su un piatto d’argento dal blocco parlamentare costituito da PPE e S&D.
Le possibilità di ingresso legale nell’Unione europea di persone che hanno ricevuto un diniego sulla proposta di visti agevolati rimangono assai circoscritte, la Fortezza Europa non concede vie alternative alla maggior parte dei migranti, costretti dunque all’ingresso irregolare, a viaggi pericolosi e degradanti, al rischio della morte in mare, ad attese, umiliazioni, abbandono, detenzione in campi ai confini europei o al rimpatrio negli stessi paesi dai quali sono fuggiti. Una politica che annichilisce il senso stesso del progetto europeo e mette a rischio la libertà non solo dei migranti ma anche dei cittadini dell’Unione, perché se si fanno accordi con le dittature, se si legittimano respingimenti che comportano arresti arbitrari e torture, prima o poi le pratiche violente da parte delle autorità amministrative si diffonderanno come un cancro anche nei nostri territori. Giorno dopo giorno, si sommano segnali inquietanti di un processo metastatico che si concretizza nell’impunità degli abusi commessi, così come nella criminalizzazione dei soccorritori in mare, sempre più isolati e a rischio di essere equiparati a complici di tratta.
In Europa sono di nuovo attivi i campi di concentramento: si sta verificando in Grecia, da Idomeni a Lesbos, e presto potrebbe succedere anche in Italia. Ma sono campi di concentramento anche i tanti luoghi di detenzione nei paesi di transito, dal Niger alla Libia. Sono oggi a rischio i diritti fondamentali, come il diritto di difesa e il diritto alla salute, la libertà di circolazione e di azione di chi pratica interventi solidali, come è confermato dal diffondersi di incriminazioni a carico di operatori umanitari colpevoli di avere portato aiuto alle popolazioni migranti, incuranti dei divieti e delle intimidazioni delle polizie europee. Ma a rischiare sempre di più – in mare e ora anche nei campi finanziati dall’Unione in Paesi terzi che non consideriamo affatto sicuri – saranno gli uomini e le donne che nonostante tutto continueranno, qualsiasi ostacolo si provi a frapporre loro, a cercare salvezza e speranza in Europa