Nigeria: gli orfani di petrolio e i trafficanti di polli

Mentre pubblichiamo l’ottimo articolo  di Lorella Beretta, apparso in questo mese su Italia Caritas ci giungono notizie di altre ragazze, prese in Italia, prive di documenti che potrebbero, dopo un passaggio in un CIE, se non riescono a ottenere una qualsiasi forma di protezione, essere rispedite nel proprio paese. Un paese, come racconta la giornalista attraversato da numerosi conflitti e tensioni ma che per l’UE e l’Italia è un “paese sicuro”, in cui i diritti umani sono rispettati e con cui si possono stringere accordi bilaterali che prevedono il rimpatrio di uomini e donne che non hanno diritto a stare in Europa.

E qui alcuni elementi preziosi per capire se la Nigeria è o meno un “paese da definire sicuro”

Ringraziamo Italia Caritas per averci permesso di portare nel nostro sito questo utile contributo di informazioni che in Italia hanno generalmente poco spazio e all’autrice per la disponibilità dimostrata.

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Di Lorella Beretta, foto di Anna Pozzi

Titolava un’agenzia di stampa italiana a inizio marzo: “Cinquemila arrivi a gennaio, tanta Nigeria poca Siria”. Forse ignorava che già nel 2015 quella nigeriana è stata la seconda comunità di stranieri in arrivo in Italia, dopo i siriani in fuga dalla guerra, che dall’anno scorso per lo più seguono la rotta balcanica. Dietro a quel titolo, però, imperversa la filosofia della fattoria di Orwell applicata ai richiedenti asilo: tutti i rifugiati sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Perché l’idea è che in Nigeria non si stia così male: in fin dei conti è il paese africano più ricco di petrolio, e da anni le statistiche (sia pure messe in discussione da analisi indipendenti) testimoniano che è il miracolo del continente, con un’impennata economica dimostrata dai numeri…Pure il feroce Boko Haram, formazione jihadista che agisce nel nord della Nigeria, sembra poca cosa rispetto ad altre forme di radicalismo islamico armato sparse per il pianeta; né d’altra parte aiuta a capire un’opinione pubblica mondiale che nel recente passato aveva fatto esplodere l’hashtag Bring back our girls (“portiamo a casa le nostre ragazze”, ovvero le centinaia di studentesse di scuole cristiane rapite dai terroristi) e altrettanto velocemente l’ha fatto sparire dai trend topics virtuali.

Concorso per sei milioni

La vita vera, invece, per la maggioranza della popolazione nigeriana rimane un inferno di violenza, povertà e fame. Dei 180 milioni di cittadini, oltre 100 vivono al di sotto della soglia minima di povertà (1 dollaro pro capite al giorno) e i dati dello stesso governo confermano che almeno il 70% della popolazione soffre di insicurezza alimentare. C’è un fatto, accaduto pochi mesi fa, che rappresenta una drammatica istantanea delle condizioni in cui versa oggi la Nigeria. Era la fine del 2015, quando gli affamati abitanti di Ebubu, cittadina del delta del Niger, in massa accorsero a scavare nelle fosse della dogana locale, non appena saputo che vi si trovavano seppellite migliaia di carcasse di polli sequestrati. Chi riuscì li mangiò, o li rivendette ai mercati informali. Pollo e riso sono gli ingredienti principali della misera alimentazione nigeriana: una volta il paese ne produceva per l’intero fabbisogno nazionale e ora il governo vuole tornare a quella autosufficienza; per questo ha dichiarato tolleranza zero nei confronti del dilagante import illegale e imposto ferrei controlli alle frontiere, che al momento sono un colabrodo. Il valore di questi due semplici ingredienti è cosi alto che, per tentare di passare inosservati, i contrabbandieri stipano polli e riso nei camion cisterna del petrolio. I dati ufficiali fissano in 2,7 miliardi di dollari le mancate entrate del capitolo aviario e in 125 milioni di dollari quelle del riso, mentre le tangenti sborsate per l’ingresso illegale di riso ammonterebbero a 2 milioni di dollari. Misure protezionistiche ci sono già da una decina di anni, ma il neopresidente Muhammadu Buhari ha inasprito la lotta al contrabbando. “Giro di vite su trafficanti di pollo e riso” era il titolo del reportage di qualche mese fa del Wall Street Journal, che da quotidiano finanziario qual è segue le sorti di un paese strategico da molti punti di vista, a partire dal rapporto tra le monete. A causa del crollo del prezzo del petrolio – meno 70% da giugno 2014 – e quindi dei ricavi dalle vendite, la Nigeria, come l’Angola, ha chiesto ingenti prestiti alla Banca Mondiale, ma anche alla Cina; intanto la Banca centrale ha dato un giro di vite all’accesso alla valuta americana. La domanda di dollari è così impazzita negli ultimi mesi, mentre inarrestabile appare la rapida svalutazione della moneta interna; i tassi di scambio del mercato nero sono fuori controllo e i prezzi dei beni crescono, mettendo in ginocchio la gente. Il presidente accusa gli speculatori, ma la situazione di certo non è nuova: Buhari, insieme ai suoi ministri, non fa passare giorno senza puntare l’indice contro la diffusa corruzione che aggredisce l’economia e aggiunge, ovviamente rivolto ai suoi predecessori, che le condizioni di povertà del paese non sono imputabili ad altri se non alla Nigeria stessa. Poche settimane fa è stato arrestato l’ex ministro dell’interno, Abba Moro, accusato di frode e riciclaggio. Quando era ancora in carica, ammise la sua responsabilità nella morte di almeno 16 giovani disoccupati, rimasti uccisi dalle folle accorse per partecipare a un concorso diffuso in tutto il paese: per i 4 mila posti a disposizione presso l’ufficio immigrazione, si presentarono 6 milioni e mezzo di senza lavoro.

nigeria 1Biafra, tensioni risvegliate

Senza fare sconti a nessuno, ora il nuovo presidente cerca di accreditarsi come interlocutore credibile con gli amici africani e quelli arabi, con Turchia, Russia e Cina, mentre sul fronte interno l’unica carta che può giocare è quella di un benessere diffuso o, per essere realisti, di una riduzione della povertà. In fin dei conti anche il Fondo monetario internazionale ha lanciato una previsione peggioramento della situazione economico-sociale, già drammatica, se non ci saranno interventi strutturali. Per questo il governo ha lanciato il Plain Oil Zero, il piano che promuove investimenti pubblici e privati in settori, in primis l’agricoltura, diversi da quello petrolifero, che ora rappresenta il 90% del Pil. Era stata una delle promesse elettorali di Buhari. Il ministro competente è andato a dirlo proprio in quel River State che accoglie il delta del Niger, il cui ecosistema è stato distrutto dagli impianti delle più grosse multinazionali petrolifere, italiana Eni inclusa. In quell’area del sud è collocato anche il Biafra, dove si trovano i maggiori giacimenti, e dove le tensioni indipendentiste, mai sopite, anche dopo la tragica guerra civile degli anni Settanta, dopo l’elezione di Buhari hanno ricominciato ad aumentare. Cosa che fa parlare di rischio di un nuovo conflitto. La repressione da parte delle forze centrali è forte e Amnesty International ha denunciato l’«eccessivo uso della forza da parte delle forze governative». Quello del Biafra è un fronte che si aggiunge a quello più noto di Boko Haram, responsabile da anni – nel nord – di rapimenti, stragi, stupri: gli attacchi hanno principalmente obiettivi cristiani. Ma le ultime notizie, riportate anche dal New York Times, parlano di un movimento che sta soffrendo le stesse pene del resto dei nigeriani: la fame. «Hanno bisogno di cibo. Hanno bisogno di mangiare. Stanno rubando tutto», ha spiegato il governatore della confinante regione del Grande Nord del Camerun, Midjiyawa Bakari.

Eppur non si protegge

Il nord è la terra di rappresaglia e bottino del gruppo jihadista, che ora fa i conti con i risultati della propria azione:negli anni, i villaggi del nord si sono svuotati, gli agricoltori sono fuggiti lasciando ettari di campi incolti, i mandriani hanno spostato il bestiame per evitare le violenze e ora manca il cibo per tutti. Si calcola che negli ultimi sei anni Boko Haram abbia causato la morte di 17mila persone, distrutto un migliaio di scuole e fatto fuggire tre milioni di profughi, ammassati in campi dove il pericolo persiste e gli attacchi non sono rari. Qui, secondo stime delle Nazioni Unite, 230 mila bambini malnutriti sono a rischio di decesso. Anche i medici sono fuggiti e hanno chiuso i presidi ospedalieri, a causa delle violenze. Il presidente Buhari, eletto a marzo 2015, è musulmano, ma ha dato una sferzata decisiva ai terroristi: ha sempre detto chiaramente che «Boko Haram non è l’Islam e che i veri musulmani non sono membri di Boko Haram». Aggiungendo che lo scopo del gruppo è unicamente destabilizzare l’area. Anche le scuole si sono svuotate per la paura e la maggior parte dei bambini non ha accesso all’istruzione: maschi e femmine che siano, rimangono in balia degli abusi da parte dei più grandi di loro, a volte anche di pochi anni. Gli istituti scolastici sono diventati d’altronde uno degli obiettivi preferiti di Boko Haram: le ragazze rapite finiscono in un buco nero dal quale, in alcuni casi, tornano sotto shock presso famiglie che non sempre sono disponibili ad accoglierle. Non meglio e non peggio di quel che avviene alle tante coetanee nigeriane sfruttate e ricattate, facili vittime di sfruttatori di corpi, di trafficanti di esseri umani: donne costrette a prostituirsi, con l’illusione di vivere una vita migliore lontano dal proprio paese disgraziato.

Questa è la Nigeria: un paese che per l’Europa non dà diritto a protezione. Un paese verso il quale, secondo le rigide regole di Frontex, si possono effettuare rimpatri, senza troppe analisi né distinzioni, rimandando indietro anche chi denuncia di essere lì vittima di violenze e abusi. Un paese verso il quale una volta al mese parte dall’Italia un aereo carico, diretto ad Abuja: dieci ore di volo per il ritorno nell’inferno. Per scappare dal quale c’erano voluti giorni e notti, soldi, rischi e ancora, sempre, abusi.